Orfanotrofio “Figlie di Maria” in Sassari. L’opera educativa delle Figlie della Carità di Erminio Antonello (c.m).

Le prime fondazioni delle Figlie della Carità a Sassari

Le Figlie della Carità si erano diffuse a macchia d’olio in Italia subito dopo il loro arrivo a Torino (1832) grazie a numerose vocazioni locali. La loro abilità nell’attività infermieristica presso gli ospedali pubblici e nell’attività educativa negli istituti di educazione del Piemonte divenne presto riconosciuta dalle amministrazioni pubbliche, sicché, grazie a quest’apprezzamento acquistato sul campo, le Figlie della Carità furono chiamate anche in Sardegna (1856).

Quando arrivarono, nonostante le riforme introdotte dal re Carlo Alberto, l’isola si trovava in una situazione socio-economica disastrosa. L’isolamento geografico con la difficoltà delle comunicazioni non solo con l’esterno, ma anche all’interno stesso dell’isola; le carestie, il basso profilo del clero ed il triste fenomeno del banditismo rendevano la Sardegna poco desiderabile. Ancora nel ‘900 quando una Figlia della Carità veniva destinata in Sardegna era uso chiamare questa destinazione Le petit étranger, ovvero la piccola missione estera, perché per arrivarvi in bastimento si impiegavano tre giorni completi. Le “grandi missioni estere” erano invece le altre parti del mondo più lontane. Le Figlie della Carità dunque arrivarono in un periodo assai difficile della vita isolana.

La città di Sassari nei primi decenni dell’800 si era trovata a dover superare il problema dell’allargamento delle sue cinte murarie, per poter far spazio all’aumento della popolazione. Nel 1829 Carlo Alberto aveva favorito che si costruissero quartieri fuori delle mura; ma soltanto nel 1840 si iniziò a lasciar cadere la consuetudine di chiudere le porte della città, facilitando il collegamento della città vecchia con i nuovi insediamenti. Nel 1834 Sassari contava circa 58.000 abitanti; ma i due terzi della popolazione affollavano il centro storico. La numerosa popolazione, che viveva all’interno delle mura cittadine, era sottoposta, a causa delle pessime condizioni igienico-sanitarie, a vari contagi e malattie endemiche. Mancava infatti un servizio fognario, le abitazioni erano umide e sovraffollate, l’alimentazione insufficiente o addirittura errata (era diffusa, ad esempio, l’usanza di dare del vino ai bambini che, invece di fare buon sangue come si credeva, provocava gravi disturbi gastro-intestinali). Non a caso, Sassari aveva il triste primato del più alto tasso di mortalità fra le città del Regno sardo-piemontese. La febbre malarica con ricorrenti epidemie di colera spopolava il territorio. La Provincia di Sassari, ad esempio, aveva un solo comune non malarico: la Maddalena. Nel 1854-1855 fu grave l’epidemia di colera che contagiò tutta l’isola ed in particolare il nord, lasciando dietro di sé molti ragazzi senza famiglia, abbandonati a se stessi.[1]

Quando l’anno successivo, 1856, le Figlie della Carità si insediarono a Sassari – a luglio nell’ospedale di Santa Croce (o della Santissima Annunziata) e, un mese dopo, all’orfanotrofio Figlie di Maria – trovarono una popolazione prostrata. In tale contesto l’arrivo delle Figlie della Carità seppe di pionieristico e di eroico.

Il bisogno di educazione in Sardegna all’inizio dell’Unità

Nell’Italia unitaria, che iniziava ad evolversi dalla condizione sociale dell’Ancien Régime alle nuove forme di organizzazione, la questione dell’infanzia e della gioventù, soprattutto femminile, era un problema sociale di prim’ordine. Se in Sardegna “sembrano mancare le forme di diffuso abbandono dei minori, almeno nelle dimensioni conosciute nelle zone manifatturiere dei vecchi Stati italiani e in quelle industriali del neonato Regno d’Italia”,[2] di fatto però le condizioni generali della famiglia sarda rendevano difficile o pressoché impossibile l’assunzione dell’onere dell’educazione dei figli.

Il contesto generale della famiglia era quello agricolo pastorale, in cui il padre è assente da casa per molti mesi all’anno, o perché pastore transumante o commerciante ambulante o coltivatore agricolo in appezzamenti di terreno sovente lontani dai centri abitati, a meno che non fosse artigiano. Il peso della famiglia gravava sulla madre, la cui occupazione era soprattutto quella del provvedere alle necessità quotidiane: preparare il pane, provvedere l’acqua, badare agli allevamenti di animali, alla provvista di legna o di carbone, alla pulizia della casa, il cui pavimento era sovente di terra battuta, e al lavaggio degli indumenti. Molti di questi lavori portavano anche la madre fuori casa: poiché per prendere l’acqua bisognava raggiungere la fontana e per lavare la biancheria bisognava recarsi al ruscello. Tutto ciò impediva l’attenzione ai bambini. Molte madri coinvolgevano le bambine nei loro mestieri, ma in particolare i maschietti erano lasciati a se stessi. Solo le famiglie benestanti ed aristocratiche potevano affidare i loro figli a balia. Di conseguenza lo spazio educativo dei bambini era soprattutto la strada, né più né meno come ancor oggi nei paesi del Terzo Mondo. Non desta meraviglia che in Sardegna dal censimento del 1881 risultassero analfabeti il 79, 81 % dei bambini dai sei anni in su.[3]

Se questa era la condizione generale, vi erano poi le situazioni particolari dei bambini orfani o illegittimi.

“In Sardegna si preferiva non usare la ruota degli esposti, ma si continuava ad abbandonare i neonati in luoghi oculatamente scelti (…) in siti urbani ben individuati. (…) Per gli esposti in Sardegna provvedeva la provincia, che si assumeva l’onere, insieme ai comuni, di predisporre il pronto collocamento dei bambini a baliatico esterno, preferibilmente a donne campagnole. (…) La tradizione catalana del Padre degli orfani (in sardo Su Babu de Orfanos) sussisteva ancora non solo nelle sette città regie, ma anche nei piccoli centri, attraverso l’elezione annuale di un consigliere civico, regolarmente retribuito, cui spettava il compito di proteggere i fanciulli orfani e bisognosi”.[4]

La condizione dell’infanzia era dunque bisognosa di alfabetizzazione e di educazione alla vita, di scuola e di protezione sociale. Di queste necessità si fecero carico, soprattutto a partire dalla seconda metà dell’800, alcuni benefattori generosi che cominciarono ad occuparsene, mettendo a disposizione risorse economiche e programmando interventi per la loro assistenza ed il loro ricovero in istituti, che però nella maggior parte dei casi non riuscivano in seguito a sostenere né a gestire.

Le Figlie della Carità si inserirono in queste iniziative, chiamate a prestare la loro opera di educatrici e soprattutto di madri. I loro nomi non compaiono sulle lapidi dei benefattori dei vari istituti che ancora oggi campeggiano negli atri di alcune di queste istituzioni centenarie, ma sono radicate nel cuore della gente che ha ricevuto i loro benefici. La loro presenza diede stabilità, organizzazione e ordine alle opere grazie alla loro attività quotidiana. In questo modo, nel ventennio tra il 1860 e il 1880 venne loro affidata la direzione di tutte le principali opere di assistenza per l’infanzia di Cagliari e Sassari, ed esse le condurranno quasi tutte fino alle soglie del 2000, adattandosi di volta in volta ai numerosi cambiamenti imposti dall’evoluzione del progresso sociale. In tutte le mutazioni, le Figlie della Carità restarono fedeli alla loro missione educativa, civile e religiosa. Esse furono per così dire la spina dorsale attorno cui continuò ad articolarsi l’assistenza a quei minori, poiché vivendo insieme con loro ne divennero le madri, nel vero senso della parola, sostituendosi ai legami familiari mancanti.

Nei primi quarant’anni di presenza delle Figlie della Carità in Sardegna, le fondazioni in favore dei bambini e degli orfani furono in numero di 18: Sassari, Orfanotrofio (1856) e annesso asilo infantile (1861); Cagliari, Istituto San Vincenzo (1861); Cagliari, Asilo Carlo Felice (1861); Cagliari, Asilo della Marina e Stampace (1864), Sassari, Ospizio Maschile di San Vincenzo e dell’Immacolata Concezione (1864); Oristano, Asilo Sant’Antonio (1865); Monteponi, Asilo delle Miniere (1870); Alghero, Asilo annesso all’ospedale (1871); Iglesias, Asilo Infantile (1874); Cagliari, Asilo San Giuseppe (1876); Cagliari, Conservatorio della Provvidenza (1877); Ozieri, Asilo Satta-Sequi e Orfanotrofio (1880); Sassari, Asilo di Sant’Apollinare, diventato succursale dell’Orfanotrofio (1879); Sorgono, Asilo De Arca (1890); Bonorva, Orfanotrofio (1892); Buggerru, Asilo Infantile (1896).

Ed è da segnalare un dato interessante, direi in controtendenza rispetto allo sviluppo sociale della Sardegna, e cioè che mentre “nella penisola il periodo che va dal 1848 al 1900 segnò un ristagno nella istituzione di asili, non altrettanto si può dire della Sardegna”.[5]

I primi tempi dell’Orfanotrofio di Sassari

Un documento del 10 aprile 1847 redatto dal sindaco dell’orfanotrofio di Sassari, cavalier Tola, segnala che ci furono già dieci anni prima contatti per la stipula di una convenzione con le Figlie della Carità, che però fu firmata solo nel 1856.[6] L’orfanotrofio di Sassari [7] era stato eretto in Ente Morale nel 1835, ed era stato fondato qualche anno prima, nel giorno di Pentecoste del 1832, da don Vittorio Pilo Boyl, marchese di Putifigari. Aveva cominciato a funzionare in una casa privata e poi fu trasferito nell’ex-convento degli agostiniani, concesso all’orfanotrofio dal comune. Le suore arrivarono il 16 agosto 1856. Le prime annotazioni scritte sull’orfanotrofio di Sassari, pur risalenti qualche anno dopo l’arrivo delle Figlie della Carità, spiegano perché l’istituto fu loro affidato.

“Questa casa fu fondata nello stesso tempo dell’ospedale. Vennero chieste le suore per le orfane che erano in 18 e nel più grande disordine. Per migliorare le cose, l’amministrazione si decise di affidare l’opera alle Figlie della Carità, che agli inizi ebbero molte difficoltà, ma una volta stabilitesi in condizioni accettabili, ne venne un gran bene con la soddisfazione di tutti. Le orfane aumentarono, e si aggiunsero classi esterne, laboratori e l’asilo”.[8]

Gran parte della loro riuscita derivò dal fatto che le Figlie della Carità, pur dedicandosi all’opera specifica dell’educazione delle giovinette all’orfanotrofio, riuscirono a stabilire una rete di legami capillari in città attraverso il servizio diretto nelle case dei poveri. E questo grazie alle Compagnie delle Dame di Carità, da loro fondate, le quali fungevano da cerniera tra il mondo benestante delle classi borghesi e le necessità delle classi povere della società. Le Compagnie vennero organizzate sistematicamente nel 1859, per merito di Donna Matilde Quesada, moglie del marchese Filippo e sostenuta dall’avvocato Carlo Rugiu, che già nel 1854 aveva fondato in città la prima Conferenza maschile di San Vincenzo.

Oltre che delle orfanelle le suore si occuparono anche dei bambini poveri del quartiere, per i quali aprirono nel 1861 un asilo. Due anni dopo (1863) accolsero bambini e bambine sordomute. L’anno successivo (1864), su istanza di numerose famiglie, si iniziò un educandato signorile; e questo era abbastanza normale nella logica educativa delle Figlie delle Carità. Dalle ragazzette delle famiglie borghesi o signorili si poteva ricavare un doppio vantaggio: da una parte si otteneva un guadagno economico, che dava possibilità all’opera di mantenere le bambine orfane impossibilitate a pagare una qualsiasi retta; ma soprattutto avveniva uno scambio educativo benefico fra le giovani, permettendo alle bambine delle classi disagiate di sentirsi accomunate a quelle più fortunate, superando così il divario socio-culturale fra le due classi.

Nel 1879 l’Amministrazione dell’orfanotrofio fondò un altro asilo per bambini poveri nel quartiere popolare di Sant’Apollinare, cui si aggiunse presto un laboratorio per fanciulle, entrambi dipendenti dall’orfanotrofio. Nel 1892 venne istituita una scuola elementare gratuita per bambine povere e, a pagamento, per quelle di famiglia agiata. Con il superiorato di suor Nicoli (1899-1910) si iniziò la scuola magistrale. Si allargarono i laboratori di taglio e cucito, di ricamo in bianco, seta ed oro; sorsero scuole di lingua francese, di musica e di pianoforte; si organizzavano gite e momenti ricreativi. Di conseguenza, benché si conservasse il nome di orfanotrofio, l’istituto andò costituendosi nella forma più ampia di luogo di formazione per le giovani generazioni e non solo per le orfane. Nel 1920 l’orfanotrofio, divenuto troppo piccolo l’edificio che l’ospitava, fu trasferito dall’antico convento in via Muroni.

Le prime superiore dell’orfanotrofio furono: suor Piccard (fino al 1867, quando fu trasferita all’ospedale di Ascoli Piceno); suor Grassini (fino al 1894); suor Cassini (fino al 1899); suor Giuseppina Nicoli (fino al 1910, quando fu nominata economa provinciale e poi direttrice del seminario a Torino; ritornata poi ancora nel 1913); suor Zari (1914); suor Ottaggio (1915), suor Fazzi (1919). In tutto questo periodo sono passate all’orfanotrofio, come risulta dai cataloghi, ben 135 suore, le cui mansioni furono le più varie: dalle responsabili per l’educandato delle orfane, alle suore per l’insegnamento nelle scuole, alle maestre di lingua, di pianoforte, di ricamo e cucito, fino alle suore dei servizi di lingeria, cucina e dispensa.

L’orfanotrofio ebbe un periodo di grande splendore all’epoca in cui suor Nicoli fu superiora dal 1899 al 1910 ed è attraverso l’esame di questo periodo che si può ricavare il ruolo che esso rivestì per la formazione delle giovani generazioni a Sassari.

Il superiorato di suor Nicoli (1899-1910; 1913-1914)

Suor Nicoli vi giunse in un momento di difficoltà dell’Istituto. I superiori avevano deciso di ritirare la precedente suor servente, suor Cassini, perché oggetto di una certa diffidenza da parte dell’amministrazione.

“L’amministrazione – scrive la visitatrice –[9] “aveva ritirato la direzione dei beni alle suore e ridotto la suor servente in una condizione di disagio umiliante, per cui si era di fronte ad un’alternativa: o abbandonare queste opere oppure trovare una suor servente virtuosa ed intelligente. Si optò per questa seconda ipotesi e si individuò in suor Nicoli del Conservatorio la persona che sembrava riunire le qualità necessarie per risolvere questa situazione critica e difficile”.[10]

Suor Anastasie Lequette, appena da qualche giorno nominata visitatrice, sentì il bisogno di presentare Suor Nicoli al presidente dell’Orfanotrofio con un “biglietto da visita” che, senza occultare i dissidi, tendeva ad appianare la strada per l’accoglienza della nuova superiora.

“ … crediamo che al deperimento di suor Cassini contribuirono in gran parte cause morali. Interessata e premurosa quale ella è per natura e per dovere al bene ed all’incremento delle opere, generosa fino al sacrificio, non poté non riuscirle assai penosa quella specie di diffidenza che per la parte amministrativa ha costì incontrato, e questo, illustrissimo signore, ferisce in un senso anche noi, parendoci di dover aspirare a maggior fiducia da parte di coloro che hanno l’alta direzione delle opere. Ci permettiamo perciò di invocare benevolenza per quella che fra non molto verrà a sostituire suor Cassini. … Ella ha tutta la fiducia dei suoi superiori, possiede eccellenti qualità di mente e di cuore ed esercitata qual è da molto tempo nell’insegnamento, potrà mantenere nelle classi il buon indirizzo che già hanno, e sostenere l’andamento a comune soddisfazione”.[11]

L’arrivo di suor Nicoli è in salita. Ad ottobre riaprono le scuole, ma vi è scarsità di alunne. Il motivo delle poche iscrizioni alla scuola è l’opposizione tra l’amministrazione dell’Istituto e la cittadinanza. C’è dunque bisogno di riconciliazione e suor Nicoli, appena arrivata, si sente dire che è lei a dover riattivare il clima giusto nei rapporti.

“Il signor Presidente, – racconta suor Nicoli – dopo avermi detto egli stesso che tutta la città è contro l’amministrazione di quest’Istituto, motivo per cui abbiamo nelle scuole poche alunne e nessun soccorso dalla cittadinanza, mi ha esortata, mi ha pregata ad andar a far visita alle signore notabili della città ed a tenermi in relazione con loro. Conchiuse con dirmi: “Noi siamo diavoli, non possiamo nulla: tocca a lei attirare signore e alunne”. Voglia dirmi, suor visitatrice, se, nei giusti limiti, posso accettare tale consiglio, o se è bene che, come mi sento anche naturalmente inclinata, faccia il minor numero possibile di visite”.[12]

Il problema non è solo esterno, ma è anche interno all’amministrazione stessa: “uno degli amministratori, e dei più potenti, insieme a degli impiegati vorrebbero le scuole proprio soppresse”.[13] Suor Nicoli vede che l’amministrazione è mossa da altro e non dal bene dell’opera: “Che vuole? – si lascia sfuggire tra le righe di una lettera – Non si cerca che l’interesse!”.[14] Il presidente vorrebbe risolvere il problema per via organizzativa tentando due strade: la prima, di allargare anche ai bambini l’iscrizione nelle prime classi elementari e, la seconda, di aumentare le quote di partecipazione alla scuola. Ma, per questa via, si accresceva il malcontento senza risolvere il problema.

Suor Nicoli è un tipo realista. Le stanno a cuore le scuole “poiché in Sassari non v’è altra scuola in cui si insegni la religione e si coltivi la pietà”. Essa è lì per realizzare la missione educativa tra le giovani: ha il desiderio profondo di testimoniare la fede attraverso le opere. Allora, pur di non arrivare a chiudere le scuole, chiede alla visitatrice il permesso di venire in soccorso alle difficoltà dell’amministrazione attingendo al piccolo accantonamento economico delle suore.[15] La sua iniziativa è presentata con una delicatezza tutta particolare, essendo premurosa nel non travalicare l’intenzione dei superiori: “S’ella vede qualche difficoltà, – scrive alla visitatrice –  me lo dica: lo sa che ubbidirò sempre”.[16]

Suor Giuseppina si affida alle preghiere della Madonna con una novena all’Immacolata. Ed ecco che, nonostante fossero già diffuse voci della chiusura delle scuole, può liberare la sua gioia.

“Stamattina finalmente con gioia ho sentito dal vice-presidente che le nostre scuole si riapriranno, che si proverà ancora quest’anno e che, se il numero delle alunne sarà soddisfacente, potranno anche concedere qualche riduzione alle famiglie che protestano di non poter più mandare le loro figlie all’Orfanotrofio, a causa della retta troppo elevata”.[17]

Per incentivare le scuole essa dà inizio, con la soddisfazione dell’amministrazione, ad un laboratorio per signorine: e la gioia è grande quando le viene inviata una suora per iniziarlo.[18] A distanza di un anno, in occasione della visita regolare alla casa fatta dalla visitatrice, il clima dei rapporti è già notevolmente migliorato grazie alle capacità di relazione, di efficienza e di pietà di suor Nicoli.

“Ho trovato questa brava suora (suor Nicoli) piena di coraggio e di buona volontà. Animata da un grande spirito di pietà, cerca di mantenere pace e concordia nella comunità e si mostra umile e condiscendente verso l’amministrazione: ciò finirà – lo speriamo – per ridare alle suore quella fiducia indispensabile per la buona gestione delle opere”.[19]

Dopo il primo avvìo burrascoso tutto comincia a muoversi per il verso giusto. Al termine del secondo anno la scuola si è già consolidata: le elementari ricevono la parifica scolastica, cosicché le alunne non devono più recarsi all’esterno per dare gli esami di idoneità.[20] Il numero delle educande è aumentato ed il presidente richiede una seconda suora:[21] Per la “scuola complementare”- corrispondente al diploma magistrale – le alunne sono aumentate in modo che ora il numero è sufficiente per realizzare il ciclo completo, anche se manca l’aula per il terzo anno.[22] C’è poi bisogno di altre suore con il titolo di insegnamento per i sordomuti.[23]

Di anno in anno, l’Orfanotrofio riesce a svolgere un crescendo di benefica funzione nell’istruzione della gioventù di Sassari. Quando suor Nicoli ritornerà per la seconda volta come superiora, dopo aver lasciato l’Istituto per tre anni, abbiamo la relazione numerica del complesso di opere funzionanti, che evidentemente viveva della rendita degli undici anni precedenti dell’attività di suor Nicoli:

“36 orfane, 24 sordomute, 50 pensionanti interne, 100 esterne, 150 bambini poveri presso l’asilo, 50 bambini paganti, 50 partecipanti a lezioni particolari, 200 Figlie di Maria, 300 partecipanti alla scuola di religione, 500 al catechismo domenicale, anziani 14, 4 classi elementari, 3 classi complementari, 19 suore impegnate”.[24]

I numeri sono un indice significativo del valore di un’opera. Ma vi è una qualità educativa che sfugge ad ogni forma di documentazione e va intuita sotto quei numeri. L’orfanotrofio, in seguito all’impulso dato da suor Nicoli, divenne – come abbiamo accennato sopra – un’istituzione educativa a largo raggio, che comprendeva una serie di attività integrative parallele all’insegnamento scolastico. E così esso venne a rappresentare un punto di riferimento per l’elevazione culturale e morale della popolazione femminile della città, rispondendo concretamente all’appello del vescovo di Sassari che lamentava da parte dei cattolici “una sonnolenza” nei confronti della questione sociale e dell’educazione dei giovani, denunciando un attacco radicale alla religione.[25]

Il tono di fondo della casa era la carità. Le Dame della Carità, che avevano la loro sede nell’orfanotrofio, partecipavano alla vita dell’istituto mediante la preparazione della visita a domicilio dei poveri. Almeno una volta l’anno, venivano coinvolte direttamente nella vita delle orfane e dei bambini poveri dell’asilo, offrendo loro qualche regalo per Natale o per altre feste dell’anno. Col tempo, la Festa della carità per i bambini orfani si allargò all’intera cittadinanza.

Quella che si svolgeva all’orfanotrofio non era un’educazione stantìa e beghina. Come si veniva educati alla fatica dell’impegno quotidiano e al rapporto di fede con il Signore, nello stesso tempo le feste venivano allietate da una gioiosa convivenza:

“In questi giorni ci occupiamo a far divertire un poco le ragazze con un po’ di grammofono, di lanterna magica, di pesca miracolosa – scriveva suor Nicoli ai suoi familiari – e così facciamo anche noi suore carnevale”.

E le giovani raccontano:

“Suor Nicoli organizzava nei giorni festivi commedie e festicciole per tenere le giovani lontane dai divertimenti profani e pericolosi … Inculcava il dovere della santificazione della festa, tanto che noi, educande, sentivamo due messe alla domenica; ma lo facevamo con gioia, appunto per l’influsso della sua educazione. Ci faceva poi tanto divertire che noi non solo non desideravamo di andare a casa, ma ci nascondevamo per non uscir fuori e poter assistere alle feste che essa ci preparava”.[26]

Questo spaccato di vita dell’orfanotrofio esprime lo stile educativo che le Figlie della Carità hanno instaurato nelle loro più svariate opere in favore della gioventù in Sardegna: dall’orfanotrofio di Sassari all’asilo della Marina di Cagliari, da La Maddalena a Bonorva o ad Abbasanta, da Olbia a Quartu Sant’Elena, fino agli asili nei paesi dell’entroterra sardo, accanto ai quali hanno sempre continuato ad alimentare, in tutti gli anni della loro storia, quasi per istinto missionario, gruppi di ragazze per la formazione cristiana. Sicché è possibile parlare di un metodo educativo comune caratteristico delle Figlie della Carità.

Il metodo educativo nelle istituzioni prese in carico dalle Figlie della Carità

Il metodo delle Figlie della Carità non si basava su una tecnica pedagogica, ma era fondato sul modello della famiglia naturale, al cui centro stanno i rapporti affettivi tra le persone e la necessità di aiutarsi reciprocamente per acquistare il necessario per vivere; il bisogno del lavoro; il rispetto reciproco e il senso del dovere; la preghiera come espressione del senso del Mistero del Signore che veglia con la sua Provvidenza sulla vita. Evidentemente questo modello era tratto dalla famiglia del tempo: quella di tipo patriarcale, nella quale vi era – più di quanto si pensi o si dica – accanto ad un’autorità verticale, che dava unità e sicurezza all’insieme familiare, anche un’autorità orizzontale rappresentata dai rapporti affettivi che soprattutto la madre assicurava.

Il ritmo della scuola e della vita all’interno degli istituti era ben suddiviso ed equilibrato lungo tutto l’anno. Per le alunne interne la scuola era come un ciclo continuo; e perciò era importante al suo interno rompere la monotonìa dello studio con laboratori di cucito, ricamo, musica, recitazione, canto. Vi erano anche le gite e lo svago. Sicché la vita era una scuola e la scuola si prolungava nella vita di tutti i giorni. L’ozio in qualsia forma era bandito.

a) Ad educare non era la singola suora, ma la comunità delle suore. Questa connotazione comunitaria è sempre stato un impegno costante tra le Figlie della Carità. La comunità riproduceva la famiglia naturale, che era venuta a mancare alle orfane, e costituiva un modello per le giovani che un domani avrebbero a loro volta costituito una famiglia.

Attraverso rapporti comunitari fraterni si realizzava una ricchezza di relazioni che risanavano l’intima sofferenza del distacco dalla famiglia d’origine, che – nel caso delle orfane – era una ferita assai profonda, anche se non sempre portata in evidenza. La comunità armonica funzionava in tal caso come luogo di identificazione e di apertura ad un futuro promettente. Si trattava evidentemente di rapporti disomogenei, poiché la suora non era la madre, né l’educanda la figlia. Tuttavia proprio questa disomogeneità favoriva relazioni meno ricattabili e più autorevoli, che permettevano un’assunzione di maggiore responsabilità personale delle ragazze. Tale fraternità da una parte creava “gruppo” e aiutava le ragazze a maturare affettivamente grazie a relazioni aperte e coinvolgenti; e nello stesso tempo addolciva il tempo per il fatto di trovarsi ad essere necessariamente istituzionalizzate e lontane dalla famiglia d’origine.

b) Un secondo elemento del metodo educativo caratteristico delle Figlie della Carità consisteva in quello che oggi si chiama ergoterapia, ossia il tenere coinvolte le ragazze nel lavoro. Erano le Figlie della Carità stesse formate alla laboriosità: san Vincenzo diceva loro che le Figlie della Carità devono riposarsi cambiando lavoro. Suor Nicoli raccomandava alle sue seminariste:

“Il lavoro è un peso, ma se l’abbracciamo con amore diventa una soddisfazione e direi un bisogno. Vi sono suore che hanno talmente l’abitudine al lavoro, che s’annoiano alla domenica”.[27]

“Abbiamo dato a Dio il nostro tempo e quindi dobbiamo impiegarlo tutto nella preghiera e nel lavoro. Compiuti gli esercizi di pietà che la Regola ci prescrive, diamoci seriamente al lavoro. Non siamo di quelle suore che perdono ora cinque minuti, ora tre minuti e via via, così alla fine della giornata avranno perduto un’ora di tempo”.[28]

 “Una suora generosa fa tutto bene; non perde tempo. Mette il medesimo impegno per qualunque occupazione. Lavoriamo seriamente, applichiamoci seriamente al compimento del nostro dovere. Lavoriamo per il Signore, indirizziamo a Lui il lavoro e le pene. Non siamo di quelle che si ritirano sempre quando vi è da lavorare. Prestiamoci ai lavori comuni (piatti, lavare, stirare, scopare, pulizia). Non ci spaventi mai il lavoro. Andiamo sempre avanti vedremo piovere su di noi le grazie e le benedizioni che Dio concede agli uomini di buona volontà”.[29]

Per questo, negli istituti retti dalle Figlie della Carità avevano una grande importanza i laboratori. Mediante essi si trasmetteva alle ragazze non soltanto un mestiere (per es. di sarta, ricamatrice o tessitrice) che sarebbe stato importante per il loro futuro, ma soprattutto si inculcava la laboriosità come criterio di maturazione. Il lavoro fatto in comune teneva serene le ragazze; le gratificava perché potevano vedere i risultati della loro fatica; le stimolava in una sana competivitù le une con le altre; impediva loro di cadere nell’ozio; dava loro infine il gusto della scoperta di nuovi apprendimenti. Tutto ciò favoriva nelle ragazze quel sano equilibrio pratico che le avrebbe accompagnate nel corso della vita.

c) Un terzo elemento del metodo educativo delle Figlie della Carità era l’educazione al senso del dovere mediante la disciplina, in particolar modo quella scolastica. Pur essendoci suore che potevano interpretare ciò in maniera rigida, non era questa la norma. Le Figlie della Carità sono state plasmate dal loro stesso carisma che le invitatava a praticare l’amabilità e la cordialità. Perciò normalmente la disciplina non era qualcosa di imposto rigidamente, ma proposto dentro alla maturazione lenta del tempo. Al riguardo suor Nicoli nella sua prima esperienza di insegnante aveva toccato con mano la difficoltà di tutte le ragazze di impegnarsi nello studio, ma non per questo si rassegnava, ma sapeva che questo era un nodo da sciogliere per attuare una buona educazione:

“Mi studio – scriveva ai familiari – di ispirare nelle mie allieve l’amore al proprio dovere e allo studio: amore, che in buona parte di esse, cede innanzi a quelli dei divertimenti e del dolce far nulla”.[30]

E alle giovani suore dava questa saggia raccomandazione, riflesso del suo metodo particolare, ma anche di quanto si insegnava  tra le Figlie della Carità:

“Il primo anno [di vita in istituto] è sempre penoso: spesso non si riesce a tenere la disciplina. Iddio aiuta. Calma. Tranquillità. Non gridare. Non rimproverare. Non castigare se non a proposito: perderebbero la loro autorità. Essere sempre uguali a se stesse”.[31]

In occasione di un ritiro, tra le sue note personali, si legge questo appunto:

“Pensa ai difetti delle ragazze per correggerli; giudica anche le loro azioni, è tuo dovere, convinta però che dell’interno è giudice solo Dio. Qualche volta è bene mostrarsi commossa nel riprendere qualche ragazza per scuoterla. In generale però è da preferirsi la dolcezza, la persuasione, colle quali si ottiene di più”.[32]

d) Altro elemento importante nella formazione delle alunne era la preghiera. Essa occupava spazi importanti della vita dell’istituto e riproduceva in piccolo il ritmo della vita religiosa. Questa assiduità e costanza nel ritmo quotidiano rappresentava, da una parte, la preoccupazione delle suore di comunicare e imprimere il bisogno di Dio nella coscienza delle ragazze; e dall’altra però, costituiva un eccesso che poteva generare assuefazione e repulsione nelle ragazze. Per questo era necessario un grande equilibrio – come normalmente avveniva – nel proporre la preghiera alle giovani.

Poiché l’educazione per le Figlie della Carità non era una tecnica, su tutti questi orientamenti, assumeva grande importanza la prudenza e l’intelligenza di questa o quella suora destinata alla cura diretta delle giovani dell’istituto. Infatti quello che nell’educazione decide tutto è il rapporto personale, da persona a persona, che l’educatore riesce a stabilire con l’educando: infatti, in una pedagogia del concreto come quella delle Figlie della Carità, l’educatore incide nell’animo della gioventù  non per ciò che dice, bensì ciò che egli stesso è e fa. Questo crea atmosfera; e il giovane è soprattutto ricettivo dell’atmosfera. Si può dire che il modo di essere è il primo fattore educativo; il secondo è ciò che l’educatore fa; solo il terzo è ciò che egli dice.

La suora doveva essere tra le giovanette come una madre, esigente sì, ma anche molto materna. Essa doveva aver interiorizzato il paradigma di un amore maturo. In questo modo poteva mostrare quell’autorevolezza che affascina e, nello stesso tempo, permette alla libertà di formularsi secondo un orizzonte reso vivo davanti agli occhi dall’esempio dell’educatore.

Suor Nicoli che, tra le Figlie dalla Carità, è l’emblema delle suore educatrici e che ha lasciato un segno indelebile all’Orfanotrofio descriveva in questo modo il ritratto della suora educatrice alle giovani seminariste nel 1912, quando aveva già alle sue spalle molti anni di esperienza educativa:

“La suora della scuola e del laboratorio dovrebbe essere un angelo. Le scolare si formano su di lei, quale responsabilità! Abbia un cuore di madre e non un cuore sempre pronto ad attaccarsi. Sia imparziale con tutte. Abbia pietà, se vuole che le sue alunne siano pie. Sia umile, se vuole che non siano superbe. Sia dolce, sia paziente, sia costante, sia ferma, sia saggia; parli poco, se vuole che le sue scolare siano silenziose; abbia un contegno grave, se vuole insegnare alle sue alunne ad evitare la leggerezza, la vanità. Sia prudente. Ami il suo ufficio. Si dedichi con amore alla vigilanza. Guai alla suora che trascura la vigilanza! Procuri di saper bene quello che deve insegnare. Non entri mai in scuola senza sapere ciò che dovrà insegnare. Non trascuri nulla perché le sue alunne siano ben istruite in tutti i rami dell’insegnamento, ma dia un’importanza speciale all’insegnamento della religione. Si dedichi con uno zelo speciale a ben preparare le bambine alla Prima Comunione. Coltivi la pietà, ma senza stancare. Facciamo desiderare alle fanciulle le cose spirituali, invece di lasciarle troppo a lungo in chiesa. Non siamo troppo severe, siamo indulgenti. Dalle seminariste si deve pretender molto: sono anime che aspirano alla perfezione, ma dalle bambine! … Non battere, non irritare. Si dice che il predicatore approfitta più lui stesso della sua predica che gli uditori: così la maestra deve applicare a sé ciò che insegna. La suora abbia un contegno dignitoso, sia ferma: quando dice una cosa o la promette, la mantenga. Alcune studierebbero sempre; altre trascurano di prepararsi: teniamo il giusto mezzo. Studiare i caratteri: trattare questo con severità, quello incoraggiarlo con bontà; questo castigarlo, l’altro premiarlo. Se siamo incaricate delle orfane, porzione prediletta, abituarle ad essere rette, semplici; insegnar loro ad essere buone massaie, a fare un po’ di tutto. Se una dimostra un affetto particolare per noi, non cerchiamo di dirigerla, mandiamola dalla superiora che con la sua saggezza ed esperienza saprà moderare le sue cattive inclinazioni. Se siamo parecchie suore addette alle ragazze, procuriamo di formare un cuor solo ed un’anima sola per il bene delle anime a noi affidate. Non gelosie, ma umiltà e buona armonia. La benedizione della carità non manchi alle nostre opere”.[33]

In sintesi, da questa descrizione si deduce le Figlie della Carità, invece che attenersi a una pedagogia teorica, hanno sempre attuato una pratica pedagogica incentrata sulla relazionalità tra educatrice ed allieva, in maniera da stimolare, mediante un’amorevole attenzione, le energie nascoste in ogni persona. Qui sta la genialità educativa delle Figlie della Carità. Ed è per questo che – sempre nell’insegnamento di suor Nicoli – tutto il peso dell’attività educativa ruotava attorno alla capacità di equilibrio della suora educatrice:

“Non basta che una Figlia della Carità sia pia e regolare, deve anche avere buon giudizio. Le passioni e le prevenzioni offuscano il nostro giudizio. E la mancanza di giudizio fa commettere molte imprudenze ed espone a non lievi pericoli. Abbiamo bisogno di suore di buon giudizio. La loro dote: diffidare di sé, evitare la precipitazione, pregare, consigliarsi e docilità”.[34]

“All’interno della comunità, quanto bene fa una suora saggia e prudente. Essa incoraggia, consola, impedisce la discordia e la disunione, calma i cuori inaspriti. Una sola suora basta talvolta a far regnare la pace in una casa. Come è preziosa una tale suora”.[35]

In sostanza il programma educativo era formato da alcuni capisaldi molto pragmatici: coinvolgimento relazionale, facendo maturare il senso dell’appartenenza all’istituto; lo spirito del dovere e della responsabilità personale; lo sviluppo delle qualità intellettuali e morali delle giovani; l’apprendimento di un lavoro o di una professione attraverso vari tipi di laboratori; ed infine una pietà attiva e serena nel riconoscere la paternità provvidente di Dio nella vita.

Al vertice di tutto l’impegno educativo stava l’idea che al centro dell’educazione sta la persona; e che tutta l’opera educativa consisteva nel risvegliare nell’animo dei giovani il gusto della vita come vocazione.



[1]  C. Arru, La beneficenza a Sassari (1850-1930), in Cattolici in Sardegna tra l’Ottocento e il Novecento (a cura di A. Tedde), Sassari 1993, pp. 53-74.

[2]  A. Tedde, Iniziative assistenziali ed educative per l’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento, in Cattolici per l’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento, Ozieri 1997, p. 19.

[3]  Luisa Coda, La Sardegna nella crisi di fine secolo, Libreria Dessì, Sassari, 1977, p. 40.

[4]  A. Tedde, Iniziative assistenziali ed educative per l’infanzia in Sardegna tra Otto e Novecento, o.c. p. 27.

[5]  A. Tedde, Cattolici per l’infanzia tra Otto e Novecento, Ozieri 1997, p. 30.

[6]  Archivio storico F.d.C., Casa Provinciale, Cagliari, Storia delle case: Incartamenti Orfanotrofio.

[7]  Notizie tratte dalla visita regolare di suor Zari nel 1933, in Archivio Storico F.d.C., Casa Provinciale, Cagliari.

[8]  Lista delle fondazioni della Provincia di Torino dopo il 1852 (scritta a mano su Fogli  risalenti probabilmente al 1868) in Verbali Consigli F.d.C. Archivio Storico F.d.C., Torino (1863-1874), p. 4.

[9]  Il termine “visitatrice” tra le F.d.C. indica la responsabile della Provincia e corrisponde alla “provinciale” delle comunità religiose.

[10]  Relazione della visita regolare (23 ottobre 1900) della visitatrice suor A. Lequette, in Extraits des Visites des Maisons, L-Z. Année 1900, in Arch: F.d.C. Torino, Sezione storica.

[11]  Lettere del 18 giugno e del 20 giugno 1899, Arch. F.d.C. Torino, Sezione Lettere 1899.

[12]  Scritti GN, Q X L 794, alla visitatrice, Sassari 10 agosto 1899, p. 6.

[13]  Scritti GN, Q X L 799, alla visitatrice, Sassari 24 ottobre 1899, p. 22.

[14]  Scritti GN, Q X L 798, alla suor assistente della Provincia, Sassari 14 ottobre 1899, p. 19.

[15]  Scritti GN, Q X L 797, alla visitatrice, Sassari 6 ottobre 1899, pp. 13-17.

[16]  Scritti GN, Q X L 797, alla visitatrice, Sassari 6 ottobre 1899, pp. 16.

[17]  Scritti GN, Q X L 798, alla suor assistente, Sassari 14 ottobre 1899, p. 19.

[18]  Scritti GN, Q X L 801, alla visitatrice, Sassari 24 novembre 1899, p. 27; ib. L 798, p. 19.

[19]  Relazione della visita regolare (23 ottobre 1900) della visitatrice suor A. Lequette, in Extraits des Visites des Maisons, L-Z. Année 1900, in Arch: F.d.C. Torino, Sezione storica.

[20]  Scritti GN, Q X L  814, alla visitatrice, Sassari 3 luglio 1901, p. 62; Q X L 822, alla visitatrice, Sassari 25 settembre 1901, p. 81.

[21]  Scritti GN, Q X L 823, alla visitatrice, Sassari 28 novembre 1901, p. 82; Q X L 834, p. 111.

[22]  Scritti GN, Q X L 820, alla visitatrice, Sassari 8 settembre 1901, p. 75.

[23]  Scritti GN, Q X L 821, alla visitatrice, Sassari 21 settembre 1901, p. 78.

[24]  Relazione (18-19 giugno 1913) della visitatrice Sr. Rossignol Marie, in Extraits des Visites des Maisons, R-Z. Année 1913, in Arch: F.d.C. Torino, Sezione storica.

[25]  “Vogliamo mettere in chiaro – scriveva il vescovo Parodi di Sassari nella lettera pastorale I nostri torti del 1908 – l’indolenza di tanti che si direbbe non vedano i bisogni dei tempi nuovi, né s’accorgono dei pericoli … A questi uomini dal sonno profondo, che importa se ai fanciulli viene negata la dovuta istruzione religiosa; che cosa importa loro se la gioventù manca da un lato degli aiuti convenienti a formarsi cristianamente, dall’altro ha mille occasioni per essere scostumata?”: cit. in E. Antonello, Una mistica della carità, Roma, 1999, pp. 122-123.

[26]  E. Antonello, Una mistica della caritào. c., Roma 1999, pp. 122-123.

[27]  Suor Giuseppina Nicoli, Scritti spirituali, Roma, CLV, 2001, p. 128.

[28]  Suor Giuseppina Nicoli, Scritti spirituali, Roma, CLV, 2001, p. 269.

[29]  Suor Giuseppina Nicoli, Scritti spirituali, Roma, CLV, 2001, p. 55.

[30]  Scritti GN, Q II L 28, ai familiari, Cagliari 2 aprile 1885.

[31]  Suor Giuseppina Nicoli, Scritti spirituali, Roma, CLV, 2001, p. 56.

[32]  Scritti GN, Q XXI, Ricordi di un ritiro, agosto 1897.

[33]  Suor Giuseppina Nicoli, Scritti spirituali, Roma, CLV, 2001, p. 56-57.

[34]  Scritti GN, Q XVII, Istruzioni alle seminariste, 1912, p. 159.

[35]  Scritti GN, Q XVII, Istruzioni alle seminariste, 1912, p. 161.

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