Categoria : storia

Padre Giovanni Battista Manzella animatore della carità sociale in Sardegna di Erminio Antonello Prete della Missione

Un inno alla Provvidenza

Il mio racconto non vuol essere una relazione, ma una breve comunicazione. Non è mio compito ripercorre le tappe dell’Ente morale “Casa Divina Provvidenza per cronici derelitti” a Sassari (1910) (detta popolarmente dei “Cronici”), ma semplicemente tracciare qualche linea della spiritualità di padre Giovanni Battista Manzella c. m. (1855-1937), con l’intento di gettare una luce un po’ di sbieco e un po’ dall’interno per meglio comprendere da quale ecosistema spirituale sia nata quest’opera, di cui ricorre il centenario. Le opere infatti si possono meglio comprendere se si conosce lo spirito di chi le ha iniziate e sostenute. Mi prefiggo pertanto di tracciare qualche tratto caratteristico della “carità sociale” di padre Manzella, lasciando parlare il più possibile lui stesso attraverso i suoi scritti.

Un carisma in azione

La figura di padre Manzella si è inserita nella situazione di grave povertà della Sardegna del Primo Novecento non attraverso un programma di riforma sociale, ma attraverso il carisma della carità che egli aveva appreso alla scuola di san Vincenzo. Tale carisma, così come lo attuava padre Manzella, consisteva almeno di tre elementi:

a) assimilarsi alla carità di Cristo e viverla come concezione di sé;

b) dare alla carità una rilevanza pratica, dopo averla contemplata nel mistero dell’Incarnazione;

c) coinvolgere nel servizio ai fratelli poveri il mondo dei laici (in primis il mondo femminile), affinché esercitassero in prima persona la carità senza essere lui a egemonizzare la direzione delle opere.

Tutto questo era animato da uno spirito che aveva due poli: l’umiltà personale e la fiducia nella Provvidenza. Attorno a questi poli si condensava la personalità ricca di carità di padre Manzella.

1. La fonte della carità in Padre Manzella

L’agire nasce sempre dal tipo di coscienza che si ha: così Padre Manzella traeva i gesti della sua carità dalla coscienza di fede che la Carità stessa si è resa visibile nel mondo attraverso la persona di Gesù. Perciò, viveva e insegnava che, solo guardando a Lui, si imparava la carità. La carità per padre Manzella anche se nasceva dalla commozione dell’animo e aveva bisogno dell’impegno umano, non traeva la sua energia più autentica da ragioni umane.

Per lui, la carità ha una radice divina. Nel primo numero della rivista da lui fondata, diretta e compilata, “La Carità 1924-1934”  scriveva:

“La carità è scesa in terra con Gesù Bambino e rimarrà pellegrina nel mondo fino alla fine dei secoli, finché non ritornerà nel cielo donde è venuta”. E poco oltre: “Dare un soldo a un povero, ecco la carità secondo alcuni. Ma san Paolo dice che si può dare non un soldo solo, ma tutte le sostanze senza esercitare la vera carità. Direte: e se non è carità dare tutte le proprie sostanze, che cos’è la carità? La carità è un amore profondo, sincero, disinteressato con il quale si ama il povero per amore di Dio”.

In questo modo, il gesto di amore verso i poveri veniva garantito nella sua verità, cioè purificato affinché non fosse una manifestazione di una propria presunzione o di una propria ricchezza. La carità – insegnava padre Manzella – va preservata da una sia pur minima ombra di supremazia sul povero.

“(Nel fare osservazioni al povero) la signora usi carità e prudenza. Non prenda il tono di comando, o la serietà d’una superiora; ma lo faccia con carità, in modo da non offendere il povero. Compatirlo piuttosto, e scusarlo nel miglior modo possibile. Quando la signora fa un’osservazione qualsiasi al povero, e non le è accettata per quanto sia data con carità, per questo non si sconcerti. La superbia umana non permette che una riceva subito lì per lì l’avviso con quella umiltà che dovrebbe avere. La signora ascolti con umiltà d’animo il rimprovero che le può venire in quel momento dal povero e faccia finta di non accorgersi”.

Padre Manzella nel mettersi a contatto con i poveri insegnava a mettersi alla pari di loro; e, guardandoli, voleva che si vedesse nei loro volti il Signore. Diceva sempre alle Dame di Carità quando spiegava l’importanza della visita a domicilio:

“La visita è visita. Non è semplice distribuzione di buoni. Quando una persona va a far visita ad un’altra, veste un abito confacente alla persona che sarà visitata. (…) Alla visita ai poveri si confà un abito semplice e dimesso, in modo che non sia un insulto alla povertà che si vuole soccorrere. (…) Gesù vi aspetta nella persona dei poveri. E sono poveri orfanelli, sono povere vedove desolate che fra poco riceveranno un conforto; sono poveri ammalati sul letto dei dolori, che aspettano di vedere interrotta per un istante la loro solitudine; sono afflitti d’ogni genere che aspettano una parola di consolazione. Ed essi rappresentano Gesù; la signora che va a visitarli va a visitare Gesù. Se entra distratta e spensierata non avrà che fredde parole di conforto (…). Visita vuol dire trattenersi, sedersi, (…) chiedere come sta il malato, se dorme la notte, se soffre molto, che cosa dice il medico ecc. In una parola discorrere con il povero di ciò che più lo interessa”.

Questa visione del povero e della carità ha impedito a padre Manzella di ridurre la propria azione caritativa a “un semplice dovere” e lo ha reso un estenuante “artista della carità”: egli infatti aveva un’inventiva sempre nuova, che sapeva adattarsi alle varie circostanze. Non si scoraggiava: sapeva aspettare il momento opportuno, cercava di interessare le persone più sensibili per arrivare a coinvolgere tutti anche i più restii. E proprio per questo non è entrato nel circuito dell’abitudine nel vivere la carità. Egli aveva come un centro interiore, da cui promanava un’energia spirituale, a cui poteva continuamente attingere; o se vogliamo, poteva ricorrere ad una dimensione mistica: riconosceva il Signore presente e amico della sua interiorità e sapeva vedere lo stesso Signore nel volto dei poveri che amava. Questa centralità di Cristo nella sua coscienza è riassunta in un’espressione pregnante risalente a qualche mese prima di morire. Scriveva dalla Colonia di Santa Teresa:

“Gesù è il centro, è il principio e la fine. E’ creatore nostro. Le cose esistono per Gesù. Io in Gesù vivo. Terminerò tuffato in Gesù nell’abisso di sua bellezza, di sua bontà, di sua sapienza. Il mondo tutto è nulla rispetto al tutto che è Gesù. In Lui starò, con Lui vivrò, in Lui morrò, con Lui regnerò”.

Questo legame così assoluto con il Signore Gesù e questa familiarità con il mistero della presenza di Dio era per padre Manzella il luogo ove tutta la sua fatica caritativa e missionaria si appagava e ritrovava la serenità. Nonostante l’iperattività a cui si sottopose nelle missioni e nelle opere di carità, padre Manzella ha fatto del rapporto con il Signore il riferimento costante, traducendolo in esperienza vissuta, cosicché l’esistenza si configurava come uno “stato di carità” e non si limitava al compimento di singoli “atti di carità”. Questo era il luogo interiore da cui traeva l’energia per la carità. Questa era la luce che illuminava il suo rapporto con il povero, il quale gli diventava familiare e verso il quale si sentiva trascinato da un moto di simpatia:

“Dinanzi alle persone ricche, giovani, avvenenti, io non provo che indifferenza; ma per i poveri, i vecchi, gli ammalati, i sofferenti di ogni maniera, sento un sì vivo tra-sporto, che li vorrei stringere al cuore”.

E poiché era così centrale nella sua vita, ne intuiva la forza universale, come una dynamis che abbracciava non solo tutti i poveri, ma anche la totalità del povero. Per cui insegnava che la carità non è solo dare un soccorso corporale, ma soccorrere anche i bisogni dello spirito. Questo zelo per la salvezza delle anime, lo chiamava “l’altra fame”:

“Le società della Carità non devono limitarsi ad una sola opera, a quella cioè di dare un tozzo di pane settimanale alle famiglie povere, ma devono occuparsi altresì di qualunque bisogno spirituale. Anzi incominciano con il soccorrere il corpo fino ad arrivare all’anima. La salvezza dell’anima è la prima opera che va in capo a tutte le altre”.

“Il povero rappresenta Gesù, e se io consolo Gesù salgo alle origini donde deriva ogni bene. A Gesù, che ha tanta fame di anime, diamo le nostre; intanto prenderemo forza per dare a Gesù l’anima nostra, e poi se avremo zelo gli acquisteremo altre anime per satollarlo del bisogno che ha di anime”.

2. Una carità “teologica” che si traduceva in opera concreta

Se per padre Manzella la carità era strettamente collegata alla fede in Gesù, non per questo si perdeva nella vaporosità di una idealità o devozioni astratte. Fedele al carisma di san Vincenzo e sostenuto dal proprio carattere attivo, padre Manzella trasformava i bisogni della povera gente in un coinvolgimento fattivo. Le sue opere nascevano normalmente così: vedeva dei bisogni e immaginava il modo per rispondervi. Per padre Manzella, la carità è dinamica, inventiva e operosa. L’opera della “Casa Divina Provvidenza” ne è un esempio. Lo spunto fu dato dalla celebrazione del cinquantesimo anniversario della fondazione della Conferenza della Carità di Sassari (1909), quando espresse il parere che

“era di assoluta necessità l’istituzione di un asilo per poveri abbandonati. Quanti non sono infatti i bambini, gli adulti e i vecchi che passano la notte dove il caso li conduce, perché non hanno un tetto, un misero tetto sotto cui rifugiarsi, trovare protezione dalle intemperie ed un freno che li trattenga nella china rapida dell’immoralità? E’ doloroso pensare che mentre gli animali hanno un nido, un cespuglio, una tana, tanti poverelli non hanno dove passare la notte”.

La prima realizzazione prese lo spunto dalla necessità di trovare una casa per ricoverare la povera Giovanna Farina, abbandonata dai parenti. Fu trovata in via Diego Pinna 5. E poi, qualche mese dopo, fu trovata un’abitazione per una seconda donna in via delle Conce 59. Infine, proprio in quella via, fu acquistata un’area dove sorgerà la ” Casa Divina Provvidenza.

In questa come in tante altre opere di carità, va osservato il metodo pratico di padre Manzella nell’esercizio della carità. Di fronte al bisogno che vedeva, sicuro dell’assistenza della Provvidenza, entrava in azione. Subito. O direttamente o attraverso il coinvolgimento di altri, secondo il suo motto: “Qualcosa si è fatto, ma si è fatto troppo poco”, oppure “Facciamo poco, ma qualcosa facciamolo”.

Il bollettino La Carità è pieno di esempi. Leggiamo nel numero del 31 agosto 1925, il gustoso racconto dell’adunanza generale delle Dame di Carità sulla piazza del paese di Bultei, ove a un certo punto, dopo le parole della cassiera e di un giovane laureato che svolse il tema della carità cristiana in mezzo agli applausi generali, inizia Manzella a parlare. Eccolo:

“Subito dopo venni io sulla scena. Già quando parlo io, non parlo che di mettere le mani in tasca e perciò sono poco applaudito, perché non parlo che di denari. “Signori – comincio a dire – ora è necessario trovar denari per i nostri poveri. Si può far denari in tanti modi: 1. con aprire un piccolo negozietto a vantaggio della società; 2. acquistando una macchina per far delle calze e facendo lavorare: il guadagno, tolte le spese, andrebbe alla società; 3. un negoziante può determinare un articolo: il guadagno che ricava dalla vendita di quello lo dà alla società; 4. fare una colletta in paese, ogni tanto, specie al tempo delle singole raccolte; 5. e perché no? Si può far l’opera delle galline. Chi ha delle galline, ne sceglie una e, quando questa fa l’uovo, questo è già destinato alla società. La cassiera con un’altra compagna passa il giorno prima della conferenza settimanale, raccoglie le uova e le porta in società, per distribuirle poi in natura agli ammalati o, convertite in denaro, ai poveri. La proposta fu accettata. Non perdiamo tempo: “Fuori i nomi”. Penna e carta in mano, io da una parte e le signorine dall’altra a chiedere i nomi di quelli e quelle che offrono la gallina, onorata con il titolo di gallina di san Vincenzo. Si raccolsero tante firme che frutteranno buona quantità di uova ogni settimana. E l’opera delle uova è un fatto compiuto. Io ritorno all’appello: “Signori e signore, non tutti hanno galline, sicché molti non corrisponderebbero nulla a beneficio dei poveri, perciò raccogliamo ora la firma di quelli e di quelle, che vogliono iscriversi come soci e socie onorarie”. Spiegai bene la cosa; poi seduta stante mi metto in giro a raccogliere il nome di quelli e di quelle, che intendono corrispondere annualmente un tanto per i poveri. E un buon numero di signori e di signore si firmarono, chi per 5, chi per 12 e più lire all’anno. Intanto si faceva sera, e dopo la colletta e il conteggio dei denari raccolti con le solite preghiere si sciolse la seduta. Tutti furono edificati da quella simpatica e familiare adunanza di popolo raccolto sulla piazza a solo scopo di sollevare i poveri. Com’è bella la carità”.

Padre Manzella amava i giochi di prestigio. Qui ne aveva compiuto uno, rendendo pratica la carità senza lasciarla nelle secche del “si devono servire i poveri. Bisogna aiutarli. E’ dovere dei cristiani soccorrere alle necessità degli altri!”, e così via. Certamente aveva dei ragionamenti per convincere alla carità, ma anche questi erano molto pratici e corrispondenti alla mentalità della gente. Ad esempio:

“L’elemosina è la banca più fruttifera e infallibile che ci sia, perché ti dà il cento per uno in questo mondo e la gloria eterna nel cielo”. “Chi dà al povero non sarà mai nel bisogno; e colui che disprezza colui che domanda sarà nella povertà”. “Chi chiude le sue orecchie al grido del povero, griderà anche lui e non sarà esaudito”. “Il ricco che desidera ritrovare tutti i suoi beni in paradiso, li deponga presso i poveri che sono i banchieri del Signore!” “Chi ama i poveri in vita, non avrà nulla da temere in morte”.

Per padre Manzella la carità diventava inoltre la grande occasione per evangelizzare. Egli sosteneva che “la carità è un linguaggio che tutti intendono ed è un’efficacissima apologia della nostra fede. I più stringenti ragionamenti di rado riescono a convincere, ma la carità è un argomento così pratico ed evidente che trascina.  Non è la quantità che conta, ma il valore dell’offerta, calcolato da Dio secondo i cambi speciali che sono in vigore tra la terra e il cielo”.

Interroghiamo ora su quali erano le caratteristiche di questa carità pratica che padre Manzella inculcava. Caratteristiche che rendevano la carità profondamente “umana” e “umanizzante”.

a) Prima di tutto è una carità attenta, che sa vedere. Sa vedere, perché sa entrare in relazione con il povero e la sua situazione. Infatti è nell’accostare concretamente il povero che si apprende per esperienza la sua situazione. Padre Manzella, pertanto, secondo l’originalità del carisma vincenziano, inculcava la visita a domicilio, grazie alla quale si può “meglio comprendere il bisogno del povero”.

“Il bene è sempre bene, ma il bene fatto a casa è un bene fatto a caso. Si obbliga il povero a uscire di casa e a venire a cercare, mentre è certo che molti morirebbero di fame, piuttosto che venire a cercare. Il bene fatto a casa, dà senza cognizione del vero bisogno del povero.( …). In società (della Carità) andiamo noi in casa del povero, e non lo obblighiamo a venire a casa nostra. Intanto vediamo con i nostri occhi il bisogno e vi possiamo meglio provvedere. Lei in casa non vede che i poveri che lo vengono ad importunare. Noi in società andiamo casa per casa a vedere se occorre loro qualche cosa. Perdoni se ho usato la parola importunare. Questa parola per lo più la usano quelli che fanno il bene in casa. Per lo più per essi il povero è un importuno. Noi invece in società ci teniamo onorate di poter avvicinare il povero per soccorrerlo”.

b) In secondo luogo è una carità che sa commuoversi e compatire. La carità è un dono di sé, del proprio tempo e delle proprie energie, della propria persona fino al sacrificio, però è un dono “commosso”. Con questo termine non è da intendersi una semplice emozione a causa del proprio temperamento sensibile o un sentimento superficiale dell’animo, ma un vero e proprio “giudizio di valore” sulla realtà, ossia l’espressione di una ragione che coinvolge l’interiorità della persona. Scriveva:

“Come fa a compatire chi non ha provato ed è in condizione di non provare perché di famiglia agiata? In due modi. Primo. Visiti personalmente il povero e veda come fa il suo pranzo. Pranzo? Non è una parola da povero: il pranzo. Il povero mangia così: prende un pezzo di pane, e va sulla porta di casa a guardare la gente che va e che viene. E intanto il pane va giù. La distrazione della strada serve per companatico.( …). Secondo. Il povero come dorme? Come lavora? Come veglia? Vada e veda. Veduto che abbia, compatirà. Non basta vedere, provi. Provi una settimana o anche solo alcuni giorni i digiuni e le veglie e il lavoro del povero. Tanto e tanto non si muore come non muore il povero. E quando avrà provato, forse potrà compatire meglio di prima”.

c) In terzo luogo è una carità modesta e delicata. Per questo non aspetta che sia il povero a chiedere, ma si fa premura di osservare il bisogno del povero e poi si preoccupa di fargli arrivare un soccorso regolare.

“La società della Carità non dice al povero: “Sei sempre fra i piedi”, ma la signora va essa stessa sempre, ogni settimana, tra i piedi del povero, non a cercare, ma a portare un regolare soccorso.( …). Il povero non è sempre che si sente di chiedere, e tante volte non vede egli stesso il suo bisogno, abituato com’è nella miseria. Tocca alla signora osservare caritatevolmente in casa e vedere se occorre o no qualche cosa di prima necessità.  (…). Si cerca caritatevolmente, cioè con umiltà, con bella maniera”.

d) Infine la carità doveva essere preservata dalla vanità e dal vanto. E per essere tale doveva essere gratuita. Quest’insegnamento lo traeva dal Vangelo nel quale si dice che la mano sinistra non deve sapere quello che fa la mano destra, e lo infiorava con un fatterello che istruiva più di tanti giri di parole.

“E’ Legge dell’Ospedale Maggiore di Milano – scrive -che chi elargisce una somma di almeno 50.000 lire ha diritto ad un ritratto ad olio, che lo ricordi ai posteri tra i benefattori insigni. Pochi anni or sono moriva un signore che, memore del consiglio evangelico, lasciava all’Ospedale Maggiore la cifra di 49.999 lire e 99 centesimi!”.

La gratuità è l’amore stesso di Dio. Ed è Lui stesso che lo fa germogliare nel cuore delle persone che si danno alla carità. Per questo allora poteva far riecheggiare nei suoi scritti l’Inno alla carità di san Paolo, con parole sue:

“Per amare, Gesù ti fa vedere nel Suo cuore la carità: è grande come Dio stesso perché Dio è carità. La carità è bontà, perdona, compatisce, non mormora, non scopre i difetti altrui, ma li nasconde, non è invidiosa, si sacrifica per altri, sceglie il peggio per lasciare il meglio agli altri, non è litigiosa, crede al parere altrui e tante altre belle qualità.

In sintesi, Padre Manzella scriveva questa specie di riassunto, che doveva essere il contesto fondamentale entro cui esercitare la carità:

“E specialmente – questo lo dobbiamo fissar bene in mente – non dobbiamo cre-dere che sia carità soltanto l’elemosina. E’ carità squisita l’amare i poveri, i di-sgraziati, i ragazzi più abbandonati, i traviati dall’errore: l’amore suggerisce mille forme per manifestarlo. E’ pure carità lo stimare chi ci si presenta in umile aspetto, e ribellarci all’universale vezzo di spalancare la bocca per ammirazione davanti al signore elegante e alla signora sfarzosa, e tenere in condizioni di inferiorità chi ha il merito di avere le mani incallite e gli abiti laceri; perché mai di solito si corre dietro a chi è ricco e si presenta bene, e con essi si è pieni di riguardo, generosi di favori, larghi nella stima, gentili nei modi, facili a scusare, più facili a lodare, mentre tutto il contrario si fa per chi, in abito dimesso, ha gli stessi meriti almeno, cerca gli stessi favori, ha con noi gli stessi rapporti? Carità squisita è pure comprendere chi soffre: quali storie tristi si son svolte tra i dolori di molti che non parlano se non quando si dà loro la confidenza per uno sfogo! (…). Il nostro modo cordiale – oh, quanta influenza ha per chi soffre, il modo con cui è trattato, abituato com’è a non ricevere mai gentilezze! – il nostro modo cordiale può avvicinarci anime e famiglie, in cui a poco a poco ci sarà possibile far penetrare raggi di luce”.

3. Coinvolgere nel servizio ai fratelli poveri il mondo dei laici cristiani

Nell’attività di animazione della carità vi è un terzo elemento che caratterizza l’opera di carità di Padre Manzella. Egli non era autoreferenziale: non teneva nelle sue mani il movimento della carità che suscitava. Anzi, al contrario aveva fatto di quest’opera un vero e proprio movimento di popolo.

Padre Manzella era convinto, e giustamente, che l’evangelizzazione poteva passare, non tanto e non prima, attraverso le parole di un messaggio proclamato, ma attraverso gesti concreti: i gesti della carità, che sono la quintessenza dell’evento cristiano. Perciò si premurava di lanciare delle opere sempre nuove, senza preoccuparsi del loro futuro che lasciava nelle mani della Provvidenza e dei cristiani del luogo dove veniva iniziata l’opera.

Credo che non siano ancora state conteggiate totalmente le opere di carità incominciate da padre Manzella, né sono in grado di poterle contare, per cui mi fido che quello che trovo scritto, anche se credo che i numeri pecchino per difetto più che per eccesso: “All’arrivo del signor Manzella in Sardegna, nel 1900, le Associazione Vincenziane di Carità, esistenti soltanto a Cagliari e a Sassari, si contavano sulle dita di una mano. Nel 1909, per impulso dato dal signor Manzella, erano già 70: nel 1925, salgono a oltre 150”. E’ lui stesso che si compiace del fiorire quasi miracoloso di gruppi di carità tra la popolazione sarda, scrivendo al Padre Generale:

“L’Associazione delle Dame della Carità (…) è molto simpatica ai Sardi, ed è la più diffusa e generale, essendo riusciti a stabilirla in quasi tutte le nostre Missioni. In parecchie abbiamo pur fondate le Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli per gli uomini e giovinotti, che fan tanto bene ai soci e ai poveri. Così le Associazioni delle Madri cristiane, degli Operai cattolici e della Dottrina cristiana, tanto raccomandate dal Santo Padre. Dove vi son le nostre suore abbiamo stabilito, e son molto fiorenti, le Associazioni delle Figlie di Maria, e degli Angeli Custodi e de’ Luigini, che fanno un bene immenso per la gioventù, e sarebbe a desiderare che si moltiplicassero dappertutto. In qualche luogo si stabilirono società agricole, casse rurali, circoli di lettura, biblioteche ambulanti, ecc., tutto per mantenere e propagare i frutti delle Missioni”.

Le sue opere nascevano quasi per incanto. O meglio erano le circostanze che lo mettevano in moto. Questo muoversi lentamente dal poco, senza aspettare di avere un’opera compiuta in mano, era per il Manzella un metodo. L’aveva appreso da san Vincenzo, che metteva sull’avviso di non anticipare mai la Provvidenza. Era guidato dalla certezza che la Provvidenza sa il fatto suo, ed è essa stessa che guida le opere; che la carità per se stessa è contagiosa; e poi che questo metodo preservava dalla presunzione di sentirsi gli autori di quelle stesse opere.

“Si dia principio all’opera in qualche modo. La Provvidenza non mancherà, non può mancare. Vi è un gran bisogno di fondare opere di misericordia. Se l’opera non c’è nessuno pensa a fare del bene: sono tante energie nascoste o disperse. Se l’opera è fondata, la carità si svolge, si propaga, si moltiplica e ottiene quello che alle volte non si ottiene con altri mezzi: di fa conoscere meglio e di far amare la nostra religione. Gesù ha detto: Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete l’un l’altro. Datemi una città caritatevole e sarà una città di Gesù, una vera città cristiana”.

“Ricordo di aver veduto anni fa sul Profamilia la fotografia di due sposi nel vigore dell’età e della bellezza con tutto il brio della gioventù. Poi dirimpetto, dopo cin-quant’anni, due vecchietti dal lungo naso, dal mento allungato e dalla fronte rugosa. Si vedeva il lavoro deleterio di più di cinquant’anni di vita. Non è così nelle opere di carità. Incominciano col poco, e sempre a poco a poco vanno aumentando. La carità è feconda. Non temete di affrontare qualsiasi impresa. Non immaginatevi fin dall’inizio, aule, colonne, cortili cappelle. Si segua la Divina Provvidenza, man mano che si presenta un nuovo bisogno. Il resto verrà”.

Egli incominciava, poi coinvolgeva quelli che aveva più vicino, affinché esercitassero in prima persona la carità senza essere lui a egemonizzare la dire-zione delle opere. Ecco come lui stesso racconta il nascere della Casa San Giu-seppe:

“Povera Marietta! La tua bontà non ti avrà fatto giudicare male di me. Ma lo merita-vo. La mia vita a Sassari è un movimento continuo, e difficilmente trovo un’ora per settimana di stare in camera. Credi! Mi sento schiacciato dal dispiacere quando vor-rei rispondere alle lettere più pressanti, e invece non posso. Perdonami il ritardo. Mi son ritirato in una villa vicino a Sassari, e da qui, indisturbato, posso scrivere a tutti. Ti ringrazio della bella offerta per il mio 25° anniversario. Gesù te lo rimeriti. Quante belle opere potei fare con questo generoso soccorso. In quel tempo là, sembrava che Dio mandasse il bisogno man mano che venivano i soccorsi. Sai a che pensai applicare le 100 lire? A pagare l’affitto d’un locale per raccogliere i poveri uomini cronici abbandonati. Trovai nelle visite ai poveri un uomo, vecchio, malato, cieco, senza letto, pien di pidocchi. Mi mosse a pietà, e la carità cristiana richiedeva liberare quest’uomo da tanti mali. Proposi l’opera d’un istituto alla società dei Signori di san Vincenzo. Mi esibii io per l’affitto, essi concorsero con 200 lire, e si incominciò a ricoverarne tre, poi quattro. Due sono già morti, gli altri vi sono ancora; fra gli altri il maestro Ciarula Bartolomeo nato a Milis nel 1847. Questi venne alla porta di casa a chiedermi l’elemosina. Vecchio cieco e malato. Io chiesi: ove state di casa? Via, numero. Egli rispose: che via! che numero, sono per le strade sotto le porte e anche di là mi cacciano. Lo presi per un braccio e lo condussi nella Casa di san Giuseppe (così si chiama il nuovo istituto). Non aveva che un piccolo pagliericcio senza materasso e lenzuola. Poveretto come era contento! Si coricò bello e vestito su quel misero giaciglio, e non si alzò più. Si vede che il poveretto stava in piedi perché non aveva un luogo ove coricarsi. In seguito gli si diedero materassi, lenzuola, ma tutto alla buona perché io provvedo mano mano che la Provvidenza mi manda qualche cosa. E san Giuseppe mi manda ogni giorno un po’ di pane o un quadro o un po’ di zucchero o qualche lira. Il medico stesso che venne a visitarlo quand’era malato lasciò 5 lire di elemosina. Ecco Marietta, ove furono applicate le 100 lire. Ora poi si trovò una giovane infermiera orfana che si chiama Marietta, la quale si esibì per vocazione a servire questi poveri vecchi, senza stipendio. Essa, povera com’è dà tutta la sua biancheria per questi poveri. Casa san Giuseppe per gli incurabili, via S. Eligio 6”.

Per potere tenere vivo l’anelito alla carità nei vari gruppi, che evidentemente egli non poteva seguire direttamente, aveva creato nel 1923 il bollettino mensile “La Carità”, che visse fino al 1935 due anni prima della sua morte. Era dedicato “alle persone che si dedicano alla carità, specialmente per le Dame, le Damine e per i Signori delle Conferenze di san Vincenzo”. Era spoglio, senza pretese, ma sugoso e ricco di spunti sempre nuovi per gli operatori di carità: “Il modesto giornaletto La Carità – scriveva sul primo numero – nasce povero, piccolo, malfatto e scritto da una mano sola (…) buttato giù alla buona e senza pretese”. Era dunque un mezzo di educazione, mediante il quale ante litteram metteva in rete i nuovi gruppi che si aggregavano, spiegava il regolamento della Carità, riportava il pensiero caritativo di san Vincenzo, pubblicava i rendiconti annuali delle offerte date ai poveri e raccontava i gesti di carità compiuti, in modo che tutti potessero essere infiammati da quanto potevano leggere.

I gruppi nascevano sempre intorno a delle opere concrete così come si pre-sentavano. E la carità ai suoi occhi aveva una capacità propagazione che gli faceva vedere la mano della Provvidenza che era all’opera per aiutare i suoi figli. Un tempo propizio per la loro nascita era la missione popolare, come scriveva al Padre Generale inviandogli il Manuale della Carità che egli aveva preparato per l’animazione dei gruppi:

“Quando nelle missioni si parla della società della Carità per i poveri, il missionario desta in tutti, credenti e miscredenti e indifferenti, una certa simpatia. E’ amato da tutti. E la Missione subisce un sensibile miglioramento. Voglia il buon Dio benedire questo piccolo manuale e, per esso, dar modo a molti carissimi e zelanti fratelli di e-stendere l’opera della fondazione di questa società in tutti i luoghi ove predicheran-no”.

Conclusione: la spina dorsale dell’opera caritativa di Padre Manzella

Ciò che abbiamo raccontato non sono che briciole dell’attività caritativadi padre Manzella. Occorre tracciare, a conclusione, uno sguardo che sia come un fendente che scende nella sua anima, per vederne l’intimo costrutto. Può sembrare strano, ma la sua carità non era fondata su una sua caratteriale spinta all’attivismo. Non avrebbe retto per 37 anni senza quasi nessuna sosta. Nasceva piuttosto da un movimento spirituale dell’anima. Questo movimento era composto di umiltà e abbandono alla Provvidenza. E questi due atteggiamenti spirituali erano così ben coniugati da farne una spiritualità: un modo di pensare e di sentire, di atteggiarsi e di credere e, infine, di agire.

Tale spiritualità si nutriva della consapevolezza della propria debolezza e povertà; non però fine a se stesse, ma rapportate all’alleanza con il Signore. Coscienza di povertà e di debolezza che si aprivano spontaneamente ad ab-bracciare la suprema presenza del Signore che presiedeva alla sua vita. Nell’episodio del suo essere deposto da superiore, nel 1912, trapela luminoso questo sentimento di profonda umiltà raggiante, in cui emerge quanto poco gli appartenesse una qualche visione dominativa sulla realtà:

“M’imbarcherò giovedì venturo e giungerò a Dio piacendo venerdì mattina. (…) Il mio nuovo superiore mi aspetta. Io ritardo perché possa impratichirsi del suo ufficio senza domandare nulla a me. Così vengo a Sassari e trovo un superiore già fatto. Vedi la grazia che mi ha fatto Gesù. Non so come ringraziarlo. Mi ha liberato dal superiorato e mi ha dato la grazia di sentire ardente bisogno dell’obbedienza. E obbedirò tanto più di cuore, in quanto che il signor Scotta fu mio novizio molti anni fa”. “Gesù mi fece la grazia di tornare a Sassari ove prevedevo avere maggiori difficoltà che altrove. N. S. G. C. premiò la mia venuta col darmi tale tranquillità di cuore che da molto tempo non gustavo. Amo il mio superiore (egli fu un tempo mio novizio) lo rispetto, vedo Dio in lui, e lo obbedisco con tale facilità che mi sembra essere uscito oggi dal noviziato. E non ti pare una grazia grande questa? Mi fan ridere quelli che sentono dispiacer perché non sono più superiori, rido di cuore. E’ pur buono Gesù! Dà la croce, toglie la croce, ne dà un’altra, e sempre son leggère”.

Padre Manzella si sentiva indifferente alle cose che gli accadevano, perché il suo spirito poggiava sulla certezza dell’amore di Dio. E perciò il suo animo viveva della gratuità stessa di Dio. Diceva che “Dio ama come vuole e quando vuole”. Per cui egli si sentiva afferrato da quest’amore che non poteva predeterminare, a cui poteva solo tenersi aperto, comunque esso fosse. Un amore comunque fedele da cui si sentiva investito nei momenti di letizia e nei mo-menti di tristezza e di aridità.

“L’uomo a parole non può spiegare le cose che entrano nello spazio e si possono mi-surare; entrano nel tempo, ore, minuti; nei suoni colle rispettive vocali, consonanti, note musicali; nei sapori, dolce amaro etc.; nel tatto molle, duro, freddo caldo; nell’odorato buono o cattivo; nella luce rosso, bianco verde. Fuori di questi strettissimi limiti non può far nulla, come uno in prigione, non ha che cinque finestre dalle quali scorge sempre lo stesso panorama. Non ha mai visto altro e crede che il mondo sia tutto lì. Talvolta considero quei piccolissimi insetti che trovo nei libri; specie se son vecchi, essi nascono vivono e muoiono in quel libro. Così noi limitati ai nostri sensi. Ma noi abbiamo un’intelligenza per la quale siamo simili a Dio. E quando a lui pare ci apre altri orizzonti. (…) Il buon Gesù ama come gli pare e piace. Ama l’apostolo Paolo quando lo assume fino al terzo cielo; e credo che lo avrà amato dello stesso amore quando angustiato, afflitto perseguitato, lapidato, vergato, naufrago, gli viene persino a tedio la vita”.

Proprio perché la verità su di sé era di essere delimitato da confini ben precisi, che solo Dio poteva sciogliere, l’importante era stargli sottomessi, accogliendo dalle sue mani ogni circostanza della vita. Anche perché da noi non possiamo realmente nulla. Ma questo sguardo non aveva nulla di pessimistico, perché era corretto dalla convinzione affettivamente matura che Dio saturava tutto lo spazio lasciato libero dall’amore al proprio niente.

“Noi, checché ne pensino bene gli altri, siamo quel che siamo avanti a Dio. Se c’è del buono è di Dio, se del cattivo è nostro. Poco ci deve importare che altri ci lodi o ci biasimi”. “L’amor proprio s’infranga contro la pietra solida dell’umiltà, che importa ragione o torto, bello o brutto, alto o basso, sano o malato, lasciamo che il mondo giri con le sue infinite variazioni; ogni volta che vi si attacca ritorna vuoto …”.

Questa concezione di vita non si colorava dunque di qualche forma di sudditanza, ma era abbandono nella consapevolezza che Dio con la sua Provvidenza avrebbe soccorso. L’esistenza così si rassicurava e rasserenava con i suoi fastidi e le sue pene. La serenità della vita, pur dentro alle tribolazioni, per Padre Manzella era una costante, prodotta come conseguenza di questa coscienza del limite da cui si sentiva impastato, ma che in lui viveva consegnato all’amore provvidente di Dio. Scriveva ad un seminarista, parlando di sé:

“Sii umile diffida di te, obbedisci. Sempre conobbi l’importanza dell’umiltà e dell’obbedienza. Ma in questo tempo lo sento talmente che potrei dubitare del sole, non di questo. Tribulazioni ne avrai sempre. (…) Sei incolpato senza colpa (…) guarda il crocifisso e finiscila. Quando saremo degni di patire un po’ per Lui? E come Lui? (…) Per gli umili non vi son lotte, per quelli che prendono tutto dalle mani di Dio non vi son lotte. Vi son pene. Questo sì. Ma le pene son dolci “Il mio giogo è soave”: ecco le pene dei santi”.

La spiritualità di Padre Manzella fu dunque una spiritualità dell’abbandono filiale, fiducioso e persino spregiudicato (secondo le misure di chi non è così purificato nell’amore soprannaturale come era lui), alla Provvidenza di Dio in una totale docilità, che plasmava il suo cuore e lo rendeva mite ed umile, capace di farsi prossimo con gli ultimi con tenera amabilità per far sì che anche loro che si potessero sentire amati.

Per questo ha saputo trasformare la spiritualità in opera, senza mai sottrarsi ad alcuna richiesta di aiuto che gli venisse da un povero; anzi rispondendo sempre generosamente e confidando in Dio. Padre Manzella, appariva lieve nel suo agire, perché traeva la sua forza ponendosi sempre come allo sbocciare dell’azione. Non si intestardiva su un progetto, né avanzava di testa propria più di tanto. Iniziava e, se non riusciva, ricominciava prendendo spunto da altre circostanze e dando alla vita altre destinazioni secondo che la circostanza, cioè Dio, dettava. E quel suo iniziare era così semplice (agli occhi altrui persino “ingenuo”), che era gradito agli occhi di Dio, per cui quasi sempre riusciva.

Di conseguenza le sue opere di carità non nascevano da una progettualità volontaristica. Non era lui il soggetto di quelle opere. Egli si viveva come uno strumento, come uno che accendeva la fiammella: ma la legna non la metteva lui, e l’alimentazione del fuoco veniva fatto da altri. Di conseguenza, padre Manzella era libero nell’animo. Appunto come la gratuità della carità. Questo era il segreto della riuscita delle sue opere. Egli sapeva che appartenevano a Dio e perciò Dio aveva l’obbligo di sostenerle: ed era quello succedeva.

“Alla fine dei conti non si può far nulla senza di Lui. Se Lui vuole, la cosa è fatta. Dio talvolta lascia i suoi servi fedeli in angosciose incertezze, perché riconoscano da Lui il soccorso allorché giunge. (…) Io povero religioso col voto di povertà non posso né guadagnare né ritenere. Coll’aiuto del sacro Cuore e di Maria Immacolata feci molte opere, e gli aiuti mi giunsero quasi sempre come per incanto. Un po’ prima non sapevo dove sbattere il capo, un po’ dopo mi trovavo esaudito. (…). Tenta di raggiungere il tuo scopo, e mi sembra buono. Però non inquietarti di troppo se non riuscirà subito come desideri. In tal caso considera la mano della divina Provvidenza. Adora i suoi disegni. Dio è sempre buono. E’ buono in tutto, per tutto, fa tutto per nostro bene. Anche quando ci sembra tutto perduto. Dio è sempre là che ci assiste e vede le nostre pene. Coraggio e speranza. Se mi si presenterà l’opportunità farò di tutto, intanto preghiamo”.

Il più profondo orientamento della spiritualità di padre Manzella è stato quello dell’umiltà coniugato con la fiducia in Dio provvidente. Il suo intimo era abitato da una sensazione reale di piccolezza e debolezza di fronte a tutto quanto Dio gli metteva davanti, ma nello stesso tempo dall’audacia proveniente dal suo sentirsi al sicuro in Dio. E possiamo davvero dire che tutte le sue opere di carità, proprio per questo spirito, che le ha sostenute e dirette, sono state un inno di lode alla Provvidenza:

“Stiamo alla Divina Provvidenza, alla divina volontà. La divina volontà è buona, ca-ra, santa, amabile, propizia, tutta a nostro vantaggio”.

E l’opera della “ Casa Divina Provvidenza per cronici e derelitti” non a caso ne porta il nome.

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