Categoria : memoria e storia

“Memorie di vita contadina paesana e continentale” di Antonio Maria Murgia

 


 

A mia moglie
Maria Antonietta Seu
ai miei figli
Marco e Claudio
a mio nipote
Gabriele

Prefazione

L’autore delle Memorie è da circa nove anni che si trastulla col testo e con il desiderio di stamparlo, ma la sua grande passione per il mare da una parte e la triste vicenda della scomparsa dell’amata consorte hanno sempre rinviato ad altro tempo la pubblicazione. Quest’anno, quinto dalla stesura, ha finalmente deciso di realizzare i suoi desideri provvedendo alla stampa e pubblicazione e dedicando il libro all’amata consorte ai figli e al nipote.
La forma di questo lavoro è costruita a brani o a passi perché ognuno di essi è indipendente dall’altro. Il libro, tuttavia è suddiviso in  tre parti: vita contadina, vita paesana, vita continentale a seconda delle tematiche trattate. L’ordine è cronologico e legato alla biografia dello stesso autore che ha trascorso i primi otto anni della sua vita nelle campagne di Chiaramonti, successivamente con la famiglia ha abbandonato i campi per trasferirsi in paese dove ha frequentato i cinque anni della scuola elementare conseguendone la licenza. Sempre nello stesso borgo di  Chiaramonti ha svolto un lungo apprendistato presso uno dei migliori artigiani del paese, Salvatore  Sechi, terminato il quale, non essendoci molto lavoro, sufficiente per l’assunzione da parte del maestro e non avendo i mezzi, per mettere su un laboratorio di falegnameria indipendente, decise di prender nave e spostarsi in Piemonte dove potè contare sia sull’ospitalità di una zia paterna, Maria Giusta Murgia sia sull’orientamento al lavoro da parte dei cugini. In effetti, dopo svariati tentativi, riuscì ad essere assunto alla FATA, multinazionale metalmeccanica.
Riassumendo l’autore dalla nascita a otto anni è vissuto nei campi, dagli otto anni ai diciasette, è vissuto in paese e successivamente in Continente, precisamente in Piemonte, con l’intervallo di oltre  4 anni in Svezia, sempre dipendente da una multinazionale con sede nella stessa nazione estera.
I contenuti sono frutto dei ricordi dell’autore relativo ai tempi indicati: il periodo poetico dell’infanzia e della fanciullezza, quello più problematico dell’adolescenza e finalmente quello della giovinezza.
Col matrimonio i ricordi tacciono sia perché l’autore è preso dalla routine del lavoro sia per i diminuiti stimoli della scoperta del mondo.

Il libro lo si legge con una certa curiosità ed è quasi uno stimolo per riandare tra i ricordi variegati del passato. Nella vita contadina emerge lo stupore del fanciullo per tutto quello che accade intorno a lui tra gli uomini, gli animali e soprattutto nella natura. Il periodo della vita paesana o della socializzazione a contatto con i compagni di scuola e del borgo e i ricordi si fanno vivaci. Il successivo periodo mette in risalto la capacità dell’autore d’inserirsi nel mondo del lavoro nella grande città di Torino e con i 4 anni anni di vita in Svezia emergono gli stimoli per la conoscenza di  un popolo diverso da quello italiano, ma contrassegnato da una grande libertà individuale.
Le Memorie pur facendo parte di un piccolo mondo antico costituiscono una documentazione dei modi di vivere dagli anni quaranta agli anni sessanta del novecento nel territorio chiaramontese. Si nota il passaggio dal mondo contadino al mondo moderno, dalla vita di uno sperduto borgo della Sardegna alla grande città di Torino e di Goteborg, dove l’autore impara a muoversi ad adattarsi e ad integrarsi.

Il lavoro è interessante e anche da piccoli episodi si può penetrare nell’anima di quei tempi a tratti idilliaci, a volte giocondi, ma anche drammatici specie quando si parla di soldati e di guerra.

La lettura risulta stimolante perché ci fa rivivere un mondo a tratti scomparso e a tratti presente nelle problematica attuali.
Angelino Tedde

Chiaramonti 15 giungo 2018

Introduzione

Sono nato a Chiaramonti iI 24 dicembre 1938 in via Efisio Marini 8, da una famiglia di pastori. I miei genitori  si chiamavano Giovanni Maria e Maria Spanu ed erano entrambi chiaramontesi. Ho trascorso la mia prima infanzia a Sas Baddes presso il fiume Giunturas, distante un’ora di strada dal paese. Successivamente, ci siamo spostati in agro Nurache UI, in seguito a Sue Cantinu, presso il fiume Chirralza che, in quella località, prende il nome del fiume Filighesos. Lì ho trascorso il resto della mia infanzia.

Nel 1947, dopo che mio padre affidò l’allevamento del bestiame e la gestione del fondo alla famiglia Porcu di Pattada, ci trasferimmo in paese, a Chiaramonti, dove iniziai, con due anni di ritardo, a frequentare le Scuole Elementari. Il mio primo insegnante, per qualche mese, è stato il maestro Floris, di Ploaghe. In seguito, fino al conseguimento della licenza elementare, il maestro Gerolamo Casu, anche lui di Ploaghe.

Nello stesso periodo, nei momenti liberi dagli impegni scolastici, cominciai l’apprendistato presso il falegname Tetinu Seche (Pietrino Sechi), che mi tenne, anche dopo che finii le Elementari, fino al compimento dei 17 anni. Con lui riuscii a maturare una discreta preparazione nel mestiere, che mi sarebbe tornata utile in seguito.

Mi trasferii a Torino subito dopo, presso una zia paterna, in via Barletta 31, nei pressi di Piazza Santa Rita, dove svolsi varie attività di manovalanza, tra cui quella di addetto alla consegna di legna e carbone.

Sei mesi dopo, fui assunto in un’impresa edile, con la qualifica di calcinaio, ma in realtà svolgevo l’attività di manovale. Dopo un anno, fui assunto alla SNIA VISCOSA di Stura, come addetto al recupero di materiali speciali da inviare all’estero.

Dopo circa un anno, fui trasferito alla SNIA di Venaria Reale, nel reparto di produzione della cellulosa.

Compiuta la maggiore età, partii a fare il servizio militare, presso la Scuola di Guerra di Civitavecchia, con la qualifica di soldato semplice, addetto all’officina meccanica nell’Autodrappello, dove rimasi 18 mesi. Terminato il servizio militare nel 1962, rientrai nella Snia di Venaria Reale per pochi mesi e, successivamente, entrai alla RIV di via Nizza, in qualità di tornitore, nella produzione di cuscinetti meccanici.

Fui trasferito in Svezia a Goteborg, presso la SKF, produzione di cuscinetti, dove rimasi due anni e mezzo. Successivamente, fui trasferito per un ulteriore anno e mezzo, alla Carl Arson, nella produzione di attrezzi di filettatura (1964-1968).

Rientrato in Italia nella stessa ditta, fui mandato negli stabilimenti di Airasca (TO), col ruolo di collaudatore in linea e, in seguito, in laboratorio di analisi, per il collaudo e la certificazione dei cuscinetti.

Nel 1969 mi sono sposato con una compaesana, Maria Antonietta Seu, nipote del famoso poeta estemporaneo in limba, dalla quale ho avuto due figli: Marco nel 1971 e Claudio nel 1980.

Nel 1974 fui assunto alla FATA in qualità di disegnatore meccanico, dove rimasi fino al pensionamento. Nel corso di questi anni ho continuato a frequentare le scuole serali per il conseguimento della licenza media e il diploma di disegnatore meccanico.

Già nel periodo svedese, frequentai per due anni, in qualità di  uditore esterno, la Facoltà del corso di Meccanica nell’istituto “Leonardo da Vinci”.

PARTE PRIMA

Vita contadina

  1. Mio bisnonno “Su Berchiddesu”

Il mio bisnonno si chiamava Giommaria Murgia ed era nato a Berchidda, il 17 aprile del 1844; ma fu denunciato all’anagrafe col cognome di Scanu, per motivazioni che spiegherò più avanti. Un giorno, si trovò a transitare in agro di Chiaramonti, su un cavallo stellato. Sulla sella aveva una bisaccia di lana, che conteneva i due figli gemelli: Antonio Maria e Giuseppe, nati l’11 gennaio 1873. L’uomo proveniva dalle campagne di Perfugas, denominate Muru Pianedda, e avanzava in sella al cavallo, tra i viottoli accidentati, come erano le mulattiere di un tempo. Giunto nei pressi di Chiaramonti, chiese informazioni ad un pastore, dove potesse trovare la famiglia Madau. Il pastore, incuriosito dall’insolito utilizzo della bisaccia, dentro la quale si trovavano due bambini, uno a destra e l’altro a sinistra, prima di rispondere, gli chiese da dove venisse. Mio bisnonno rispose, sparandola grossa:

“Vengo da Berchidda!”

Cosi, rientrato in paese, il pastore informò i compaesani del nuovo arrivato da Berchidda. Per via della provenienza, gli rifilarono a vita il nomignolo di Berchiddesu, ‘Irchiddesu in sardo, che fu trasmesso successivamente a tutti i suoi discendenti. Nei paesi, allora, i nuovi arrivati venivano chiamati malacudidos, sostantivo intraducibile in Italiano, che si può rendere con l’espressione “non bene accetti”, insomma, gente di serie “B”, secondo quella antiquata mentalità. In seguito, constatarono che i malacudidos, col passare del tempo, si fecero apprezzare, stimare e voler bene da tutto il paese, dimostrandosi persone responsabili e capaci di offrire benessere a diversa gente. Col loro lavoro e il serio comportamento, dimostrarono di essere persone degne di vivere in quel paese, chiamato in sardo Tzaramonte e in italiano Chiaramonti.

Il mio trisaulo Salvatore Murgia, però, aveva più di uno scheletro nell’armadio. Mio nonno mi raccontò che suo nonno, quando viveva a Berchidda con la matriarca Scanu Murgia, ebbe degli accesi scambi di vedute con dei parenti stretti, seguite da  incomprensioni tra loro. Per evitare ulteriori grane con la famiglia, che avrebbero potuto sfociare in dissapori dalle conseguenze imprevedibili, un bel giorno partì di nascosto e raggiunse il territorio di Perfugas, Chiaramonti, dove si attribuì la falsa identità di Salvatore Scanu, anziché Murgia. Qui formò una famiglia, i cui discendenti, ovviamente, assunsero il falso cognome.

Uno dei suoi figli, mio bisnonno, tanto a Perfugas quanto a Chiaramonti, convisse con la compagna Giovanna Maria Pinna di Florinas, dalla quale ebbe sei figli. Di questi, ne sopravvissero cinque: Giuseppe, Antonio Maria, Salvatore, Giovanni Maria, detto Minniu, e Giommaria, ai quali, una volta riconosciuti, diede il falso cognome di Scanu, come, in un primo momento, il padre aveva registrato lui all’anagrafe.

Divenuto affittuario di Anna Maria Madau, preso possesso de su Cànnau, vicino a Nuraghe Aspru e a sas Baddes in Giunturas, avviò e mandò avanti l’azienda agro-pastorale familiare. Se di mio bisnonno sono riuscito ad avere la data di nascita, non conosco, né quanto tempo visse nelle campagne di Chiaramonti, né quando morì. So soltanto che alla sua morte, mio nonno Antonio Maria, prese in mano le redini dell’azienda agro-pastorale, che divenne una delle migliori di Chiaramonti, per numero di capre, di pecore e di maiali. Non solo, ma, tramite i suoi legali, promosse causa, presso il Comune di Chiaramonti, per ottenere il suo primitivo e vero cognome di Murgia, che suo nonno non aveva voluto utilizzare per depistare eventuali ricerche da parte dei suoi famigliari. Il riconoscimento dell’originario cognome Murgia avvenne con decreto del tribunale Civile di Tempio e la pretura di Nulvi nel 1890. Per cui, i sette familiari allora viventi, riebbero quel che la loro identità esigeva e cioè il loro vero cognome: Murgia. Mio nonno Antonio Maria contrasse matrimonio l’otto maggio del 1902 con Maria Leonarda Uneddu-Solinas di Chiaramonti e generò cinque figli: tre femmine, Giovanna Maria, Domenica e Maria Giusta; e due maschi, Giovanni Maria detto Billia, mio padre, e Giovanni. I due maschi lo aiutarono, crescendo, alla conduzione dell’azienda, per un certo periodo, in armonia con Madau, il locatore dei terreni. Le tre femmine contrassero matrimonio e abbandonarono l’azienda. Mio nonno campò a lungo, tanto che, essendo nato nel 1875 venne a morire nel 1958, a 83 anni, lasciando l’azienda ai due figli Giovanni Maria e Giovanni, che erano ormai adulti e con famiglia. Billia aveva 53 anni e Giovanni 47. Mio padre aveva sposato Maria Spanu–Lezzeri nel 1937, dalla quale nacqui io l’anno successivo, il primogenito. Successivamente nacquero Gavino nel 1940, Tomasina nel 1941, Mirella nel 1942, Lucio nel 1943, Francesca nel 1950, Carlo nel 1952 e Costantino nel 1954. Mio zio Giovanni si sposò nel 1938 con Margherita Canopoli di Perfugas, che gli diede due figli maschi: Mario e Guerino; e una femmina, Domenica. In tal modo, mio nonno ebbe a conoscere ben undici nipoti, tutti allegri e pimpanti e di buona salute. Gestì la sua azienda in buona pace con i Madau, finché mio padre, ritenuto il più perspicace dei due fratelli, non ebbe l’ardire, per quei tempi, di minacciare Gigi, il figlio più grande della ricca e potente famiglia, che era anche suo padrino, di portare le loro vacche a sa mandra, avendole trovate in località Sas Baddes, sui pascolativi di proprietà dei Madau, ma presi in affitto da mio padre. Dopo questa “offesa” al cittadino più in vista e più potente del paese, sos Birchiddesos, padre e figli, si dovettero forzatamente spostare su altri terreni. Ma di questo parlerò più avanti.

  1. Sos Renalzos e Santa Maria Maddalena

 

Mio nonno, negli anni dieci del Novecento, dimorò nei pressi di Santa Maria Maddalena, a sos Renalzos, in agro di Chiaramonti, tenendo, però, la residenza in paese, al n° 1 di Carrela Longa, con tutti i suoi familiari. Svolgeva con abilità e competenza varie attività, sempre legate all’allevamento e all’agricoltura. Alle sue dipendenze lavoravano molti operai giornalieri, zonorateris. Nonno e i suoi familiari, come datori di lavoro, si limitavano a dirigerli, controllarne l’attività di semina del frumento e, a suo tempo, la sarchiatura e la mietitura. Erano rispettosi verso gli operai, ne riconoscevano i meriti, dando loro l’opportunità di sostentamento alle famiglie. A quei tempi, la povertà era dilagante e la gente cercava di portare a casa un pezzo di pane, ringraziandone il Signore. La liquidità era posseduta da pochi e in genere si ricorreva al baratto: si scambiavano tra loro frumento, legumi, ricotta e formaggio. Era molto raro il pagamento per contanti. Anche i ricchi, più che denaro liquido, possedevano beni in natura; del resto solo i commercianti e le banche facevano circolare i quattrini. Mio nonno non li depositava in banca, ma li conservava in una cassetta di legno, tutta ben cesellata, chiusa a chiave con un piccolo lucchetto, che maneggiava con cura quando l’apriva per depositarvi i bigliettoni da cinquemila e diecimila lire. Queste banconote erano della stessa misura del fondo della cassetta, tanto da farmi pensare, nella mia innocenza di bambino, che lo Stato li coniava apposta per la piccola “cassaforte” di mio nonno. Io mi limitavo a guardare la bella cassetta piena di molti soldi. A quei tempi, quando una persona doveva cambiare banconote piccole in biglietti da cinquemila e diecimila lire, doveva recarsi in caserma per fare la denuncia. E mio nonno lo faceva spesso. Era un uomo molto parsimonioso e non regalava una lira a nessuno; i soldi erano la sua anima. Io, nonostante questa sua caratteristica, ne apprezzavo le doti, anche se sapevo che molti altri lo detestavano, attribuendogli la fama di atzicadu. La gente lo considerava avaro, ma, secondo me, considerati i tempi, credo che si potesse definire parsimonioso più che avaro.

  1. La sorgente di Santa Giusta

Mio nonno mi raccontò che un giorno del 1910, lui e suo fratello gemello lavoravano all’interno della chiesa di Santa Giusta, la chiesetta di campagna, dove in seguito si sarebbero sposati i miei genitori. Con l’ausilio di un argano manuale, dovevano ripulire il pozzo d’acqua, posto nel presbiterio della chiesa, proprio sotto l’altare maggiore. Scesi nel pozzo, mentre scavavano con picco e pala, ad un tratto, udirono una voce che chiamava:

“Antonio Maria! Antonio Maria!”

Pensando che fossero arrivati dei visitatori, i due fratelli risalirono dal pozzo e, ispezionata la chiesa dentro e fuori, non trovarono nessuno.

“Eppure chiamavano noi!” Ripeterono sorpresi e stupiti, la copia. In quello stesso istante, sentirono un potente boato provenire dal pozzo sottostante, dove, qualche istante prima, essi stavano lavorando. Andarono a controllare e videro che era crollata completamente una parete del pozzo. Si guardarono tra di loro smarriti e dissero:

“L’abbiamo scampata bella! Torniamo a casa, dove ci aspettano i nostri cari, magari in compagnia di quel buon angelo custode, che ci ha avvisato in tempo!”

La notizia si diffuse in paese velocemente, alimentando favole e leggende secondo le quali sos berchiddesos, scavando nel pozzo di Santa Giusta, avevano trovato su siddadu, un tesoro con chili d’oro.

In realtà, mio nonno e il fratello gemello avevano salvato la loro vita che valeva molto più di svariati chili d’oro.

 A seguito dello scampato pericolo, mia nonna Maria Uneddu, che era incinta, chiamò Maria Giusta la figlia che nacque, in onore della Santa che, con la voce misteriosa, aveva salvato il marito e il cognato. Zia Giusta, divenuta giovinetta, andò in sposa “a fuidura,” contro la volontà di mio nonno, ad un finanziere ploaghese, certo Francesco Serra. Questa coppia, che visse una vita felice, mi tenne a battesimo divenendo lui mio padrino e lei mia madrina. Mio nonno ci teneva ad avere un nipote che portasse il suo nome. Per cui, sia in chiesa che in comune, mi imposero il suo nome: Antonio Maria.

Matrimonio dei miei genitori Maria e Billia      (1937)

 
   
  1. Tia Nigoletta di Silìcaru

 Eravamo in periodo fascista (1941). Da bambino ero timido e silenzioso, ma, fin dalla più tenera età, sempre  attento ad ogni episodio che si verificasse in casa. Abitavamo in campagna con tutta la famiglia che, allora, era composta dai miei genitori, da me e da un altro fratellino, in località Sas Baddes, a qualche centinaio di metri dal fiume Giunturas, affluente del Coghinas, ad un’ora di cammino da Chiaramonti (Sassari), in terreni presi in affitto per allevare circa 200 pecore, una cavalla bianca, un asino e pochi maiali. Mio padre era coadiuvato dal servo pastore, teracu, Portolu della famiglia Serra-Spanu.

Nell’altra sponda del fiume, quella situata ad est, abitava una donna, che possedeva alcune capre che davano del buon latte. Questa persona, tutte le mattine, con meticolosa premura, portava il prezioso liquido in una bianca bottiglia tutta per me, attraversando il fiume nei tratti di secca.

 Mia madre, nei giorni in cui il fiume era in piena per le piogge autunnali, con me in braccio, raggiungeva la sponda del fiume e chiamava Nicoletta, la quale rispondeva prontamente e, presa la bottiglia piena di latte di capra, la lanciava sui giunchi verso la nostra sponda; mia madre ringraziava e raccoglieva la bottiglia. Spesso ci recavamo a casa di Nicoletta, in località Silicaru, dove abitava in una piccola pinnetta in cui allevava diversi porcellini d’india, conigli e galline. Era una brava donna che, non avendo nessuno, mi adorava come se fossi suo figlio, provvedendo a nutrirmi col suo buon latte di capra, poiché quello di pecora era di difficile digestione per un bambino della mia età.

 Il Signore ricompensi la sua premura materna, per avermi nutrito con il latte delle sue ruminanti capre, che ancora rammento tutte saltellanti, arrampicate sulle piante di cui mangiavano i teneri polloni, risparmiando alla donna il lavoro di potatura, mentre i loro capretti saltellavano alla ricerca delle loro mamme.

Ancora oggi m’intenerisco al ricordo della mia vita da bambino, orgoglioso di avere a mia disposizione capre e caprette per nutrirmi.

  1. I Rapporti con i Madau

 Dopo la fine del contratto d’affitto delle tanche dei Madau, verso il 1943, ci trasferimmo da sas Baddes, a sa tanca de su Puddu, presso sos Padros, dove prendemmo in affitto i terreni di Francesco Lezzeri, fratello di mia nonna materna. I terreni comprendevano sa tanca Brujada e sa tanca de sa Luzàna e altri appezzamenti sparsi, detti Tanchittas de sos Padres.

Il motivo che ci spinse a lasciare la località sas Baddes, era dovuto ad un diverbio tra mio padre e suo padrino Gigi Madau, che, come ho già detto, oltre a essere il suo affittuario era anche il più grosso possidente, nonché podestà del paese.

Un giorno, incontrandosi nei pressi di Santa Maria de Aidos, mio padre lo informò che le sue mucche, sos fiados bulos, avevano sconfinato nel nostro pascolo e gli preannunciò che, in caso di reiterazione, le avrebbe consegnate a sa mandra, recinto comunale, nei pressi del Convento dei Carmelitani, Cunventu, dove, per punizione, venivano portati gli animali vaganti o che avevano sconfinato. Portare gli animali a sa mandra era considerata un’offesa,  per cui, a seguito di tale diverbio, mio padre e mio nonno furono cacciati dai pascoli che avevano in affitto, ponendo fine così all’accordo lavorativo, che li aveva legati ai Madau e che era stato rafforzato anche dal fatto che, nel frattempo, uno di questi era diventato padrino di mio padre.

Nelle vicinanze della nuova sistemazione, abitava il conciatore di pelli e “caciaro”, Armando Fumera, anche lui proveniente da Berchidda. Suo aiutante era un certo Giuseppe Brundu, simpaticamente conosciuto col nomignolo di Giuseppone, uomo di buon carattere, di alta statura, forte e vigoroso, sposato con Caterina Spanu, nostra lontana parente da parte di mia madre. L’amicizia tra gli oriundi berchiddesi fu una cosa naturale. Alla fine, avevamo perso una potente amicizia, ma ne avevamo acquisito un’altra, che, col passare del tempo, si dimostrò molto più importante.

  1. Mio nonno domatore di puledri

 Mio nonno veniva a sas Baddes per domare il nostro puledro. Vestiva sempre in costume sardo, con la sua caratteristica berretta,  sa berritta, camicia bianca, su entone, il corpetto con tanti bottoni ai due lati, giacca e pantaloni dello stesso colore scuro, scarpe alte chiodate e rampini salvapunte.

Si avvicinava al puledro, gli passava dolcemente in bocca la mordacchia con le briglie e, quindi, lo costringeva, nel migliore dei modi, a percorrere un certo tragitto in linea retta. Dopo vari giri, lo faceva sostare per mettergli la sella, sotto cui piazzava una piccola trapunta, sa tramatzeta, e gli faceva rifare il percorso. Successivamente, lo accostava ad un masso, da cui prendeva lo slancio per sedersi in sella e, con dolcezza, nonostante le resistenze e gli scalciamenti del puledro, lo costringeva a rifare il percorso costellato da vari alberi di pero.

Per me, che guardavo questa sua particolare abilità nel gestire il puledro, era uno spettacolo insolito e affascinante. Mi tenevo sempre a debita distanza da loro e aspettavo che cavallo e cavaliere sbucassero tra un albero e l’altro; e mi sembrava che entrambi fossero fieri e contenti dei risultati ottenuti. Dopo un bel po’, mio nonno si fermava, scendeva di sella, faceva sostare il puledro accanto ad un pero, coglieva le pere e le offriva a me, al puledro, e poi le mangiava anche lui.

Io mi sentivo orgoglioso di avere un nonno domatore di cavalli.

  1. Il maiale da ingrasso

 Nonno veniva da noi in campagna anche nel mese di dicembre, per uccidere il maiale da ingrasso. Di buon  mattino, mia madre e mio padre accendevano un grande fuoco e, in seguito, vi sistemavano sopra il paiolo di rame vuoto, su un treppiedi, sa trìbide, e lo riempivano d’acqua, attinta dal fiume Giunturas, trasportata con un grosso recipiente di ferro smaltato, su lamone. Io e mia madre scendevamo il sentiero che portava al fiume,della fonte “dei banditi”, dove scorreva acqua limpida e cristallina, riempivamo il contenitore, che mamma sistemava nella sua testa, e tornavamo a casa. Nel trasportare l’acqua, per evitare che per strada ne perdesse un certo quantitativo, vi immergeva dei rami verdi di lentisco, strappati alla macchia, che, non solo ne agevolava il trasporto, ma dava anche equilibrio al contenuto. Per non farsi male alla testa, poi, usava per protezione un cercine di stracci, su tidile, su cui veniva appoggiato il grosso contenitore pieno d’acqua, per poi essere portato con più facilità a destinazione. Mentre il paiolo era sul fuoco, ogni tanto, riportavamo l’acqua alla temperatura d’uso, aggiungendo acqua fredda, in modo da renderla sempre pronta all’utilizzo per il lavoro di ripulitura della cotica del maiale. Si faceva grande attenzione alla temperatura dell’acqua, sia per non guastare la pelle, sa pedde, dell’animale, sia per non causare scottature alle mani dei suoi raschiatori.

Mio nonno, con l’aiuto di mio padre e del servo pastore, uccideva il maiale, che veniva precedentemente immobilizzato, legandolo bene ai quattro piedi con corde idonee, sas trobeas, procedendo a trafiggerlo sotto il collo, mirando al cuore della bestia. Di solito veniva colpito con un punteruolo o con un lungo stiletto. Una volta eseguita l’operazione, si toglieva l’utensile e si raccoglieva il sangue. Con l’utilizzo di un bastone lo si girava in continuazione, mentre sgorgava caldo dalla ferita, per impedire che si raggrumasse. Con costante insistenza si girava fino alla fine del procedimento, tenendolo sempre ben liquido. Per agevolare l’operazione dello scannare, il maiale veniva sollevato e deposto su alcuni massi in posizione rialzata, così si facilitava il defluire e la raccolta del sangue e il lavoro di pulitura. Il maiale senza vita, dopo aver perso tutto il sangue, veniva slegato dai lacci ed era pronto per essere passato alla fiamma, usciadu, cioè abbruciacchiato. Prima, però, si procedeva a togliere le setole più lunghe e resistenti dal collo della bestia, e venivano conservate accuratamente per l’utilizzo in vari lavori di cucitura del cuoio e di pellame di uso comune. Le setole che si usavano per la cucitura venivano preparate da mani esperte, spaccate all’estremità del bulbo, intrecciate alla punta di uno spago e consolidate con la pece, in modo da formare un unico filo. Per cucire la pelle, la si forava prima con la lesina, sa sula, e si procedeva subito a far passare lo spago sul foro praticato, per ottenere l’unione delle pelli. Si cucivano le corde di cuoio, dette sogas, selle per cavalli, scarpe, stivali, collane per campanacci da pecora, da capra e da mucca, borse in pelle, zainetti, tascapani e tanti altri oggetti utili all’uso domestico.

Il sangue raccolto veniva insaccato nell’intestino medio che, una volta legato ai due estremi, si immergeva in acqua bollente per consolidarlo; subito dopo lo si immergeva nell’acqua fredda per essere conservato. Inutile dire della bontà del sanguinaccio, vero e proprio cioccolato ante literam. La pianta che si usava per la bruciatura dei peli del maiale era l’euforbia secca, su laturighe sicu, la più adatta per dare alla cute del maiale un colore dorato e fargli conservare buoni sapori. Questa meravigliosa pianta, quando è verde, contiene un lattice acre e urticante, che fuoriesce se spezzi il suo stelo. Fiorisce formando anelli, da cui spuntano le foglie a forma di cavolo. Questa curiosa pianta, se ti avvicini,  si racchiude, come se volesse avvertire i passanti: “Passate lontano da me, che posso provocare ustioni.” I bracconieri di acqua dolce la usano per la pesca di frodo, inquinando l’acqua; per cui i pesci, prima vengono storditi, e poi muoiono. A questo punto, risalgono in superficie e così vengono raccolti per essere mangiati dai pescatori di frodo e dalla gente del loro ambiente familiare.

Il maiale pulito veniva adagiato su una scala di legno, legato con le zampe posteriori in cima alla scala ed in seguito, questa veniva sollevata di peso e appoggiata al muro di casa. In seguito si procedeva allo squartamento del maiale ancora caldo, con un coltello a punta. Veniva aperto dall’alto, nella parte anteriore, dalla coda fino alla testa. La prima ad essere asportata era la cistifellea, poi il fegato, i polmoni, il cuore, i reni, la milza, i nodini e, via via tutte le budella, avendo l’accortezza di raccogliere il restante sangue, rimasto all’interno del corpo del maiale.

La parte ossea veniva tagliata con l’utilizzo di una scure, centrando al midollo spinale, lungo tutta la colonna vertebrale. Questa operazione veniva eseguita da mani esperte, de bona manuza, perché le carni risultassero di buona qualità, e conservassero un buon gusto. Si diceva che le più qualificate ai lavori erano le persone, che avevano avuto il dono della macellazione, altrimenti le carni non risultavano buone. Queste devono presentarsi di colore rossiccio, non scuro. Il maiale squartato, dopo averlo asciugato ben bene, veniva portato in casa per essere disossato. Veniva deposto sopra il tavolo e si procedeva a staccare dalla carne il lardo, che veniva trasferito arrotolato sopra un altro tavolo. Poi si procedeva al taglio del dorso che veniva messo da parte sopra lo stesso tavolo in cui era stato depositato il lardo, per poi essere sezionato in parti uguali, sos ispinos, destinate a essere donate ai parenti, agli amici e ai vicini di casa. Il primo pezzo andava a mio nonno, che aveva diretto la tradizionale e consuetudinaria operazione. Si continuava a separare la carne per confezionare le salsicce; le costole venivano messe da parte sullo stesso tavolo, accanto al lardo e allo spinale in attesa di lavorazione.

La carne riservata alle salsicce veniva tagliata a pezzi piccoli per essere condita, mentre la parte grassa veniva tagliata a pezzettini e messa nel paiolo, per poi passarla al fuoco. Il calore scioglieva il grasso per la produzione dei ciccioli. Dopo che il grasso era sciolto, si prelevavano con un mestolo forato le scorie, per essere utilizzate in pieno inverno, per la produzione delle saporite focacce, sas còtzulas de ‘erda, condite con uva passa, sale e aromi che si usano in parte nel condimento delle salsicce. La carne per le salsicce, sa pulpuza, veniva mescolata con degli aromi: noce moscata, semi di finocchio selvatico, spezie e sale. Il giorno dopo veniva insaccata. Nella fase di insaccatura, i rocchi di salsiccia, di tanto in tanto, venivano forati con una spilla, per espellere l’aria; infine venivano appesi all’affumicatoio.

Anche sul budello di grosso diametro, appartenente allo stesso maiale, si insaccava la carne e lo si legava con lo spago alle due estremità, per confezionare il salame. Mio nonno la sera andava via, contento del suo lavoro, salutandoci col consueto: a un’ater’annu mezus; si spera di far meglio al prossimo anno.

Mia mamma gli consegnava la parte de s’ispinu, con aggiunta di carne fresca e gli augurava di tornare a casa tranquillo, andade in bon’ora.

Mio nonno era un tradizionalista, uomo di poche parole, rigoroso osservante delle consuetudini, sempre impeccabile in costume sardo. Era amico di tutti, fuorché delle persone che oziavano, alle quali dava il nomignolo di lacaios, lacchè. Detestava le persone che non si davano da fare nella vita, le vedeva come gente persa, che era buona a vivere sulle spalle altrui, senza nessun riguardo e rispetto al sacrificio del prossimo, soprattutto dei grandi lavoratori, che venivano derisi e considerati dei deboli

  1. La parsimonia di mio nonno

 Nel 1954, nel periodo del raccolto, in sa tanca de S’Ena, ammucchiammo il grano nell’aia per la trebbiatura, dove, puntuale come un orologio, arrivò mio nonno Antonio Maria.

La sera, mentre si cenava in festosa convivialità, mio nonno si scagliò contro di me, esclamando:

“Mi hanno riferito che hai rubato dei fagioli nel mio orto”.

Io, preso alla sprovvista stetti zitto, ma, in seguito, gli chiesi:

“Nonno, chi vi ha raccontato questa storia? È forse stato Fidigosu?”

A tale domanda non rispose, però mio zio Giovanni e la moglie zia Margherita gli assicurarono che io non ero di tale bassezza da rubare nel suo orto.

Per tale accusa mi balenò nella mente che tali falsità potevano averle raccontate solo il calzolaio Fidigosu, che, insieme all’amico Trudderi, lavorava nella trebbia.

Una mattina decisi di andare ad affrontarli entrambi e gli dissi:

“Vi prendete gioco di mio nonno, non è vero?”

Loro se la ridevano con aria di sfottò. Questo atteggiamento mi mandò in bestia e gli gridai in faccia: “Siete due persone indegne di questa terra; vergognatevi; arrivare a tale misera bassezza”.

Non risposero una sola parola, però una persona che aveva assistito al fatto gli disse:

“Vergognatevi, quando mai una persona adulta arriva a prendere in giro un bambino”.

Mio nonno, per parecchio tempo, mi guardò disgustato. E pensare che da lui non ho avuto o accettato mai niente, seguendo alla lettera i consigli di mia madre, che da piccolo mi aveva sempre raccomandato:

“Non accettare mai niente da nessuno!”.

Queste parole mi sono sempre risuonate nelle orecchie come di ammonimento.

Infatti, le poche volte che sono stato con lui nella vigna e nell’orto non ho mai assaggiato niente.

  1. Fichi saporiti, ma duri da digerire

Mio nonno aveva l’abitudine di recarsi tutti i giorni, di mattina presto, a ispezionare la sua campagna denominata Sas Piras.

Un bel giorno, arrivato sul posto, notò giù nella vallata, due ragazzi su una pianta di fichi, intenti a mangiare i dolci e gustosi frutti.

Mio nonno, che si trovava in una posizione ideale, raccolse da terra alcune pietre e le scagliò verso la pianta, per far scappare i ladruncoli, come se fossero uno stormo di uccelli.

I due ragazzi, vistisi scoperti dal padrone, scesero frettolosamente dalla pianta, dandosi alla fuga tra i cespugli spinosi.

Scapparono a piedi nudi, precipitosamente nella discesa, come due leprotti inseguiti da cani arrabbiati e feroci, dileguandosi a destra e a manca, tra spine e rovi. Le scarpe, infatti, se le erano tolte per arrampicarsi meglio sull’albero e, vista la fuga improvvisa, le avevano lasciate ai piedi dell’albero.

Nonno, dopo averli scacciati, scese giù verso la pianta per appurare il danno recato dai due sconosciuti ladruncoli e, ispezionando sotto la pianta, trovò le scarpe dei due fuggitivi e pensò che, prima o poi sarebbero venuti a prenderle!

Intanto, le raccolse e s’incamminò verso il paese, in groppa al suo asinello. Aveva appena percorso duecento metri, quando i due si presentarono a piedi nudi, con le gambe sanguinanti, implorando di riavere indietro le loro scarpe.

Mio nonno gli disse: “Andate a riprendervele in caserma.”

Visto che le cose per loro si mettevano male, i due ragazzi, in un primo momento, decisero di riavere le scarpe con le buone maniere, procedendo  a fianco dell’asino nello stretto passaggio.

Visto inutile il tentativo, improvvisamente, decisero di cambiare sistema e si piazzarono davanti al somaro, ostruendogli la strada.

Impossibilitato a procedere sul sentiero, mio nonno alzò la voce per dire: “Con questa bravata peggiorate la situazione! Non capite che solo in caserma potrete riavere le scarpe?”

Constatata la decisa cocciutaggine dell’uomo, che rifiutava qualsiasi tentativo di mediazione, si disperarono. Comunque non si rassegnarono lo stesso, nonostante capissero che non lo avrebbero convinto né con le buone maniere, né con le cattive. Pur tuttavia, con la forza della disperazione, insistettero con più risolutezza nell’impedire l’avanzare dell’asino e del suo  cavaliere, ma il nonno non mollava e continuava a ripetere: “Le porto in caserma, e sarà compito dei carabinieri restituirvele, sono stato chiaro? Rassegnatevi, ho deciso di portarvele in caserma,” ripeteva: “potrete ritirarle lì dal maresciallo dei carabinieri!”

Tenuto conto della determinata risoluzione di nonno, i due tentarono di farsi coraggio alzando la voce: “Noi non vi facciamo più passare, vediamo chi la vince, avete capito che non avanzerete di un metro?” Vedendosi bloccato, l’uomo non sapeva come fare; anche se ordinava alla bestia di procedere, tentando anche un’azione di sfondamento per continuare in direzione di casa, non ci riusciva, in quanto i due sembravano decisi a bloccarlo, in mezzo allo stretto passaggio, con tante pietre a portata di mano, magari da usare come minaccia estrema. Dopo un po’ di tira e molla, i ragazzi si guardarono in faccia l’un l’altro e, finalmente, rinunciarono ad usare la forza nei confronti di un vecchio.

E allora i due cominciarono a pregarlo: “Per pietà, non vedete in che stato siamo? Tutti doloranti e sanguinanti, restituiteci le scarpe, abbiamo pagato già abbastanza caro il nostro sbaglio”. E nel contempo mostrarono le numerose ferite alle gambe e ai piedi, riportate nella precipitosa fuga.

“Ridateci le nostre scarpe per pietà, vi supplichiamo zio Antonio Maria. Non vi facciamo passare se non ci restituite le nostre scarpe, non vedete come siamo ridotti per colpa vostra, abbiate pietà di noi.”

Mio nonno rispose con tono tranquillo e pacato: “Però i fichi erano dolci! Adesso, invece, provate a gustare in gola il sapore amaro delle ferite, vero? Ebbene, ascoltatemi con attenzione; io le scarpe ve le restituisco, se mi promettete di passare distanti dai miei poderi. Ho parlato chiaro? Vi restituisco le scarpe, sperando di non sorprendervi più a rubare e a danneggiare le mie piante da frutta.”

A quel punto gli restituì le scarpe, dopo averli messi alle strette e avergli impartito una severa lezione.

Mentre il nonno procedeva verso casa, aveva il cuore turbato per aver inflitto una punizione, forse, troppo severa ai due ragazzi. Anche se da un lato era contento di aver dato una lezione educativa, dall’altro si convinse di averli umiliati troppo, minacciandoli fino al punto di non farsi più trovare nel vicinato.

Li lasciò in preda al dolore, ma con le loro scarpe. In fin dei conti, ebbe tanta compassione all’atto della restituzione, mentre li avvertiva di non rubargli più i fichi. Cosi si ricompose la situazione. I due sfortunati ragazzi, malconci e derelitti, si riconciliarono con lui nel promettere che mai più sarebbero ritornati a rubare frutta. Fu una lezione per gli anni a venire. Ancora adesso ne parlano, ringraziando quell’uomo saggio, che li aveva aiutati a camminare sulla diritta via dell’onestà.

Credo sia un ricordo dolce riconoscere le manchevolezze nella vita.

  1. Il circo a San Giovanni

 Da diversi anni a Chiaramonti, in piazza San Giovanni arrivava il circo, con l’asino Formica, al quale il conduttore faceva eseguire con la zampa anteriore la somma di due numeri a richiesta del pubblico, battendo per terra tante volte quante erano le cifre del numero.

A fine spettacolo rientrai a casa, in attesa che mio nonno, il mattino iminente, mi venisse a prendere, per recarci, come tante altre volte, in campagna, a sas Piras, dove teneva al pascolo gli agnellini da allevare.

Mio nonno conosceva bene le abitudini dei contadini incujadores che, approfittando della buona erba, portavano al pascolo abusivo i loro buoi, nelle ore notturne, presso i tancati di proprietà di un altro.

Di mattina presto bussò alla porta della mia camera, situata a pian terreno, dove c’era un lettino, per le emergenze di famiglia. Era talmente presto che io non ero ancora andato a letto. Per cui, quando aprii la porta, ero ancora vestito. Mio nonno, credendo che io mi fossi già alzato e vestito mi disse: “Bravo, vedo che sei già pronto, cosi arriviamo in tempo per sorprendere i buoi al pascolo abusivo”.

Ci incamminammo nei sentieri sconnessi e raggiungemmo la vicina campagna, che dista dal paese qualche chilometro. Arrivati sul posto, mio nonno, accortosi che avevo bisogno di dormire, mi allungò per terra la bisaccia di lana di pecora, e disse:

“Dormi tranquillo; che io ispeziono il pascolo, per vedere se ci sono degli incujadores al pascolo”.

Appena fatto giorno, venne a dirmi che immancabilmente i clienti di pascolo abusivo erano presenti. Si arrampicò in una colossale pianta di suerva, sorbole, e cominciò a tagliare dei rami, che servivano come picchetti per i fagioli dell’orto. Mi raccontò che, mentre io dormivo, aveva colto in flagranza di reato di pascolo abusivo i buoi di un contadino del paese e, nel restituirglieli, lo aveva ammonito dicendogli che, se li avesse trovati un’altra volta, li avrebbe portati a sa mandra.

Vista la pacifica restituzione dei buoi, il proprietario non si mostrò riconoscente verso mio nonno. E, avviandosi con i buoi, ormai sicuro di averla fatta franca, gridò a gran voce, che li avrebbe portati ancora altre volte, a sua insaputa.

E mio nonno gli rispose:

“Se sono senza testa portali pure, cosi non mangiano il mio pascolo”.

Dopo anni scoprii chi era il personaggio del pascolo abusivo. Si trattava di mio suocero, che un giorno, forse per mettere in risalto la pazienza di mio nonno, raccontò l’episodio in famiglia.

  1. L’ industria di mia madre

 

A poca distanza dal nostro casolare, nei pressi del nuraghe Ui, abitava la famiglia Pileri, i cui componenti erano molto cordiali con noi. Tra costoro ricordo con piacere Matteo, Mario, Nigolosa, Mauccia, S’Osilesa di soprannome.

In quelle nuove tanche, oltre all’attività agro pastorale di mio nonno e di mio padre, è importante mettere nel dovuto rilievo il ruolo di mia madre, non solo come buona massaia di casa, ma per come conduceva qualche sua piccola iniziativa. In compagnia di zia Margherita, sua cognata, moglie del fratello di mio padre, che abitavano in un casolare di proprietà di mio nonno in Runaghe Aspru, Nuraghe Aspru, confinante in sa Luzzàna, si recava a raccogliere le bacche, listincanu, del lentisco, sa chessa, che, macerate e colate a dovere, fornivano un olio di semi, dal sapore particolare; forse leggermente asprigno, ma saporito.

Ma la sua attività non si limitava alla sola produzione dell’olio, ma lei provvedeva anche alla produzione del formaggio e della ricotta, non solo per le quantità necessarie alla famiglia, ma anche per la vendita all’ingrosso. Infine, ovviamente, trovava il tempo per riordinare la casa, mantenendone l’ordine e garantendone l’igiene. E poi, non ultima e meno importante attività, educare e provvedere ai bisogni di noi tutti, in particolare i miei, quelli di mio fratello e di mia sorella. Io quasi mitizzavo la figura di mia mamma, ritenendola una donna meravigliosa.

Quando, per qualsiasi motivo, si allontanava dal casolare, avrei voluto seguirla. Ma lei, con dolce fermezza, mi ordinava di restare nei pressi della casa, temendo che potessi farmi male tra gli sterpi e le macchie di cisto e lentisco.

  1. Un marchio di fuoco a vita

 

Eravamo attorno al camino, situato al centro della stanza; dal tetto di canne pendeva su cannitu, dove si metteva a stagionare il formaggio e la ricotta. Il fuoco era acceso ed io e mio fratellino, avrò avuto io cinque anni e lui tre, eravamo seduti su uno sgabello di sughero. A un certo punto, lui s’impadronì de su suladore,  il cannello di ferro che adoperavamo per soffiare sul fuoco per ravvivarlo, e cominciò a farlo arroventare. Io lo osservai mentre lui cercava di scherzare, facendo finta di toccarmi con la punta arroventata. Ad un certo punto gridò:

“Adesso ti brucio!”

Pensando che scherzasse, non mi mossi; ma l’incosciente appoggiò il tubo rovente sulla mia gamba destra, marchiandomi col fuoco a vita. Mia madre mi soccorse applicandomi sulla bruciatura sa prammutza, la malva, un’erba medicinale delle nostre parti. La bruciatura era enorme ed io provai un dolore cocente.

Mio fratello lo ricordo sempre esile, ma tenace. Nel mangiare era sempre schizzinoso. Per lui tutto era cattivo e sporco. Per mia madre era un’ossessione e lei si preoccupava molto per la sua salute, in quanto sembrava denutrito. In realtà, anche da grande si è mantenuto sempre magro, ma pieno di energie da vendere. Certamente, adesso, non gli viene in mente di marchiare qualcuno col fuoco.

  1. Sas Pinettas de Chirralza

 

Essendoci trasferiti nei nuovi terreni, nel 1943, in Chiaramonti, presso il nuraghe Chirralza, potevamo disporre dell’unico modulo grezzo di una casa rurale, senza intonaco interno ed esterno, con tetto spiovente anteriore e posteriore, a duas abbas. La casa fu ampliata successivamente con un modulo anteriore, con muri a secco ai tre lati, con tetto spiovente di paglia e con porta d’ingresso.

Quest’ultima costruzione era stata fatta per la produzione dei formaggi: pezze, perette, ricotta. Tutte forme che potevano stagionare, ricevendo il fumo, collocandole in un piano superiore fatto di canne. Il complesso costruttivo cambiava, rispetto al precedente, perché dotato di tre belle stanze tutte intonacate. Ma mia madre commentò:

“Siamo finiti come gli Abissini.”

Mio padre costruì anche quattro pinnetas; costruzioni circolari con muro a secco, fatto di grosse pietre di trachite di vario colore, col tetto a capanna di forma conica, supportato da tronchi di olivastro verticali e orizzontali e ricoperto con paglia di frumento, su restuju, su cui l’acqua poteva scivolare agevolmente senza penetrare all’interno. Nel fiume Chirralza abbondava il giunco, che veniva raccolto e lavorato per le legature, sia dei tronchi verticali che di quelli orizzontali, sia per trattenere la paglia di copertura. Ogni capanna misurava circa 30 metri quadrati, che potevano ben soddisfare le necessità della nostra azienda agro pastorale.

  1. Un’angheleddu in chelu

 

A mio padre si presentò l’occasione di prendere in affitto, da un certo Zappalà di Laerru, tra il 1942/43, un terreno confinante con i nostri. Fatto il contratto, pensò di aumentare il personale, assumendo due famiglie con i rispettivi figli e figlie, per un totale di venti persone. Essi svolgevano il compito di pecorai, caprai, contadini, perché coltivavano anche cereali e legumi; in particolare grano, orzo, avena e fave. Purtroppo, a causa della coltivazione delle fave, venne a morire mio fratello Carlo di tre anni. Il medico, probabilmente, non individuando la vera causa, gli praticò a sproposito un’iniezione, che lo portò dritto all’altro mondo. La mattina precedente, tutti insieme ci eravamo recati a giocare in mezzo alle fave in fiore e mio fratello avvertì un improvviso malessere; divenne pallido, si sentì subito male. Preoccupati, ci presentammo in casa per informare i nostri genitori. Mio padre sellò il cavallo e partì con mia zia Tomasina che teneva il bambino in braccio. Andarono in paese dal dottore e la sera, sul tardi, rientrarono senza mio fratello, che era volato in cielo, dissero a noi bambini.

  1. I porcari figli di Frearzeddu e le bardane

Nella memoria della mia fanciullezza, quando vivevo nella località Cantinu in Chirralza, negli anni Quaranta del Novecento, rimane impressa la famiglia Frearzeddu, composta da Frearzu mannu e i suoi due figli Luigino e Marianna: quest’ultima, a sua volta, aveva quattro figli: Bainzu, Roberto, Salvatore e Giovanna. Nella nostra azienda, dovevano occuparsi dei maiali. Di giorno vigilavano sulle bestie libere, allo stato brado nelle tanche. Per evitare che i maiali scavassero delle buche per terra alla ricerca di non si sa bene cosa, sul loro muso, avevano applicato un pezzo di fil di ferro, tipo piercing moderno, che impediva loro di danneggiare il terreno. Di notte, stando nelle postazioni, costituite da tre pinnetas, all’interno del recinto a muro a secco della porcilaia, i porcari vigilavano affinché i maiali non uscissero dal recinto. Le tre postazioni, equidistanti tra loro e poste in modo da formare un triangolo lungo le pareti interne del grosso recinto, venivano costruite con cura, posizionando le pietre in modo da farle combinare una con l’altra, senza l’ausilio di malta cementizia. Per questo fatto, la tecnica di costruzione viene chiamata in sardo: a pedra cumbinada.

La notte, i figli di Marianna, armati di fucile calibro 16, vegliavano sulla sicurezza dei maiali, per impedirne il furto. Una notte di primavera, però, arrivarono dieci uomini armati e portarono via tutti i maiali. I custodi tentarono invano di opporsi alla bardana, ma non ci fu niente da fare. Anzi, sul petto di Bainzu, lasciarono il segno della bocca del fucile, con cui lo minacciavano, spingendoglielo con impeto sul petto e lasciandogli un marchio profondo. I componenti della bardana erano sicuramente dei paesani dediti alla malavita, che rifornivano così i macellai, complici del furto, che lucravano su queste vere e proprie grassazioni.

Mio padre, tuttavia, non si scompose; denunciò il furto in caserma e, come accadeva nella maggior parte dei casi, i carabinieri non rintracciarono mai i briganti. Del resto, l’abigeato, all’epoca, in Anglona e in tutta l’Isola, era fiorente. Da quella volta, mio padre diede disposizione ai porcari di imbandire dei banchetti a base di porcetti, man mano che questi andavano verso lo svezzamento. I briganti capitarono altre volte, ma se ne andarono con le pive dentro il sacco, perché trovarono la porcilaia vuota. I macellai di paese cominciarono così a combinare meno affari sulle spalle di mio padre, che, insieme ai porcari e alla famiglia si beffava di loro.

  1. Assegnazione del maiale da ingrasso per la famiglia Frearzeddu

 

Nel 1944, avevo sette anni, mi fu affidato il compito di percuotere con un bastone i secchi appesi in un’apposita forca, per richiamare dal pascolo brado e dal fiume i maiali e dar loro da bere il siero della ricotta, sa giota.

Mentre i maialetti consumavano il pasto, mio padre mi disse di sceglierne uno tra i tanti allineati con la testa uno di fronte all’altro, mentre mangiavano con ingordigia e prepotenza, gli avanzi di scarto della lavorazione del latte. Subito indicai a mio padre il maialetto scelto per Frearzu Mannu, riservato all’ingrasso e destinato alla sua numerosa famiglia. Dopo qualche giorno, mio padre decise di separare dal gruppo il maialetto prescelto e mi disse tutto sorridente:

“Adesso dove sarà il maialetto scelto?”

Ed io risposi pronto: “Eccolo!”

“Come hai fatto a riconoscerlo?”

“Ha lo stesso colore del fumo della pipa di Frearzu Mannu” risposi.

“Bravo”! Aggiunse mio padre.

Prese il maialetto e lo consegnò a Frearzeddu per l’ingrasso, da macellare a tempo debito per le provviste della famiglia del lavoratore. Il predestinato fu rinchiuso in sa cherina, nel recinto.

Frearzu Mannu fumava in disparte e, accortosi che io stavo a debita distanza, un giorno m’invitò ad accostarmi a lui.

“Perché non vieni mai vicino a me?” Ed io gli risposi:

“Perché non mi piace il fumo della vostra pipa”.

Ma lui, imperterrito, continuava a fumare come se niente fosse, gustando con passione il trinciato male odorante e sbattendo, di tanto in tanto, il lamierino del coperchio che si sentiva in lontananza.

E poi faceva un’altra azione piuttosto sgradevole: sputava a lunga distanza, come facevano i fumatori dei film western.

  1. Il furto dei capretti

 

In seguito toccò ai fratelli Antonio e Gavino Marrazzu, ai quali i soliti briganti portarono via più di 100 capretti, sistemati in s’ascone, una enorme baracca a forma di capanna, col tetto a due caditoie; una specie di costruzione somigliante alle tombe dei giganti.

Per costruire s’ascone, si conficcavano dei pali per terra, convergenti tra di loro ad angolo acuto, legati con del giunco secco, due da una parte e due dall’altra. Poi, trasversalmente, tra l’una e l’altra coppia di pali, si sistemavano delle pertiche, su cui si appoggiavano le frasche verdi, da tenuta, ricoperte di terra da cima a fondo, con i fianchi inclinati a 45 gradi. Sul davanti si sistemava la porta d’accesso. Il pavimento veniva ben tappezzato di materiale tenero verde, mudeiu, cioè, cisto che mandava lezzi da far starnutire. Mi sembra di sentirlo ancora tra le narici.

I capretti chiusi nella baracca starnutivano in coro. Immancabilmente, ogni anno, venivano rubati da ladri non tanto sconosciuti. Subivamo passivamente queste ruberie, che danneggiavano tutti gli onesti allevatori, e qualcuno cominciò a scoraggiarsi. Mio padre, malgrado tutto, manteneva l’ottimismo e tentava di trasmetterlo agli altri, incoraggiandoli  e dicendo loro:

“Teniamo duro; prima o poi la smetteranno di rubare il nostro bestiame”.

Che tristezza. Si lottava facendo sacrifici di ogni sorta, lavorando sodo tutto il giorno, senza orario, ci si dibatteva per procurarsi da vivere, ma, purtroppo, spesso, tutto andava in fumo, a danno degli innocenti e degli onesti.

  1. La cavalla baia

 

Pascolava in un prato, nei pressi del fiume Filighesos, la nostra cavalla baja. Ma, un grigio mattino, scomparve nel nulla. Mio padre avanzò dei sospetti su un latitante abigeatario, proveniente dalla montagna, che stazionava nella nostra zona, e ne parlò col suo amico Alosso, Alfonso Tedde. Questi, da uomo capace e deciso qual era, prese per il bavero il sospettato e gli contestò il furto della cavalla.

Dopo alcuni giorni dall’intimidazione dell’amico, arrivarono nel nostro casolare due montagnini a cavallo. Sembravano due cavalieri dei film Western.

Mio padre li fece accomodare, offrendo agli ospiti, sos istranzos, del formaggio e della salsiccia, come era consuetudine allora.

Nel bel mezzo del desinare, i due uomini sollevarono gli occhi verso il soffitto, notarono una damigiana, che pendeva dalla trave di mezzo e chiesero che cosa contenesse. Mio padre rispose che conteneva il vino da bere nei giorni della trebbiatura del grano.

E uno di loro disse che, se avesse offerto loro di quel vino, entro una settimana, avrebbe riavuto la sua cavalla baia. Mio padre non ci pensò due volte, tirò giù la damigiana e quelli bevvero con grande avidità e soddisfazione.

Dopo una settimana, ritrovammo la cavalla baia al pascolo, nello stesso prato da cui l’avevano prelevata. Era molto dimagrita e ammalata. Pregammo tanto il buon Dio perché si rimettesse in stato di salute, per riprendere il suo ruolo di mezzo di trasporto dei sacchi di grano verso il mulino del paese e per riportarli pieni di farina bianca, con la quale mia madre sapeva ricavare il pane profumato, cibo essenziale per noi tutti. Purtroppo non si riprese dallo stato di prostrazione in cui era stata ridotta e morì, lacerandoci il cuore.

Oh, come ricordo le splendide albe tra i fiumi in piena e il fragore della cascata! L’impeto delle acque che scendevano in processione nel fiume Filighesos che alternava le piene alle secche. Nel ricordo di questi spettacoli mi turbano ancora le ombre dei malviventi che non tenevano in nessun conto la proprietà di chi lavorava per il sostentamento della famiglia e che onestamente svolgeva il suo lavoro.

Compiuti 17 anni emigrai dal paese verso il Piemonte e di lì, per 4 anni, la mia ditta multinazionale mi mandò in Svezia, dove un giorno incontrai un altro corregionale.

  1. Un sardo “svedese”

 

Quando ci presentammo la prima volta, mi chiese di dove fossi; gli risposi che ero di Chiaramonti. Allora mi raccontò:

“Quand’ero ragazzo, venni un giorno nelle campagne di Chiaramonti a prelevare una cavalla per il trasporto delle castagne”.

Al che gli domandai:

“Chi ti ha ospitato?”

“Zio Pietro P. che mi indicò di persona la cavalla da prendere per portarla via”. Mi rispose pronto. Poi continuò:

“Presi la cintola dei pantaloni come corda, essendone nel momento sprovvisto, e portai al richiedente la cavalla”.

Io, nascondendo la rabbia gli dissi:

“Quella cavalla era di mio padre. Quando ce la restituirono non riuscimmo, dopo tante cure a salvarla”.

“Per forza” rispose:

“I complici del posto, prima che la lasciassimo in libertà, le bucarono gli intestini con del giunco appuntito, di modo che il padrone non la potesse più utilizzare”.

Come è la vita! Dopo 25 anni conoscevo uno degli autori del reato e, per ironia della sorte, ne diventai amico in terra straniera, accomunati entrambi dal desiderio di guadagnare un tozzo di pane.

E pensare che, dimenticando il torto fatto alla nostra famiglia, gli feci pure scuola guida in Svezia, rovinandomi la Fiat 1100 D di colore rosso. In quella circostanza mi comportai come mio nonno e mio padre, che si sottomettevano sempre, come Giobbe alla volontà del Signore, perdonando la cattiveria dei malviventi. “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia fatta la volontà del Signore”.

Una volta andato in pensione, quest’individuo, alcuni anni or sono, venne a Chiaramonti ad acquistare dei vitelli. Si presentò con un tipo dall’aria sospetta, vestito alla montagnina, con indumenti di lavoro, mentre lui era più presentabile.

Quando mia moglie lo vide, le fece una brutta impressione. Questo personaggio ci invitò a casa sua a Galtellì, dove affermò di possedere un grosso supermercato con annessa macelleria. Era, inoltre, alla ricerca di una ruspa per poter bonificare i suoi terreni. Fui nuovamente molto cortese con lui, secondo le consuetudini della mia famiglia di origine Berchiddese. Certo, il ricordo della cavalla rimane integro. Se n’è andata come le fresche acque del fiume Filighesos! Ma i responsabili della sua morte, invece, sono finiti in acque torbide e puzzolenti, carichi di putridume, tormentati dal ricordo meschino.

  1. Fantasmi di guerra: soldati amici e aerei nemici

 

Un giorno della primavera del 1944, mentre le rondini si rincorrevano in volo nel piazzale della casa rurale, dai cespugli di macchia mediterranea, spuntarono una trentina di soldati affamati, che chiedevano del latte appena munto, di pecora o di capra. I miei genitori, vedendoli in tale stato pietoso, si premurarono di somministrare loro del latte caldo. Per tutti noi era una novità incontrare dei militari in una terra selvaggia e abbandonata come la nostra. Non potevamo che applaudire a quell’insolito avvenimento. Ci sentimmo sicuri dai malavitosi con quei militari armati, che finalmente ci proteggevano. I soldati si presentavano come brave persone, che vedevano in noi gente povera, ma ospitale. Nei nostri riguardi si comportarono con riconoscenza, in quanto abbiamo fatto in modo che si sentissero a casa loro. Vista la nostra generosità, cercarono di ricambiare rendendosi servizievoli e aiutandoci nei lavori domestici e agricoli. Provarono subito un’istintiva simpatia per me; mi prendevano in braccio e mi sollevavano come un bambolotto. Le stesse coccole fecero pure ai miei fratelli Gavino e Lucio e alle mie sorelle Tomasina e Mirella. Vivevamo tutti in festosa armonia, anche perché non facevano mai mancare la legna da ardere al focolare di casa.

Tutta questa festa fu interrotta, un giorno, quando, al posto delle rondini, apparvero nel cielo, un certo numero di rumorosi aerei militari nazisti, con una svastica sulla tela di entrambe le ali. I militari, a tale apparizione, si nascosero nella folta vegetazione, finché gli aerei non scomparvero. Mio padre, in quei giorni, fu costretto a recarsi più spesso in paese col carico di grano da macinare presso il mulino del dott. Marcellino, gestito da tiu Raffaelle Seche, per ottenere abbondante farina da sfamare noi e i militari.

Tutto il tempo che mio padre impiegava per andare a portare il grano al mulino e ritornare con la preziosa farina, il nostro puledro, ancora non svezzato dal latte materno, se ne stava tutto solo in un recinto.

Una mattina, riapparvero minacciosi i soliti aerei, che volavano bassi, quasi volessero scovare i nemici. Il cavallino, dopo aver sentito il rombo pericoloso di quegli aerei, spaventato, saltò fuori dal recinto fratturandosi una gamba anteriore.

Mio padre, al ritorno dal paese, trovò questa inaspettata iattura del puledro, invalido e ormai condannato a morte sicura. Indignati e dispiaciuti da questo triste avvenimento, i militari prepararono le loro armi, con l’intenzione di abbattere gli aerei nazisti. Ma mio padre negò loro il consenso ed essi misero da parte le belliche intenzioni che prevedevano l’abbattimento degli aerei nemici. Io, benché bambino, capii che mio padre aveva deciso di agire a quel modo, per evitare una probabile rappresaglia, che sarebbe stata tragica per tutti noi.

Il cavallino, dietro ordine di mio padre, fu abbattuto con la pistola di ordinanza del comandante, in quanto non guaribile a causa della rottura della gamba ormai fratturata irrimediabilmente. Cosi il grazioso e utile animale fu abbattuto al posto di quegli aerei nemici venuti dal nulla e scomparsi nel nulla. Quella località detta su Cantine, luogo impervio e selvaggio, era il regno incontrastato di volpi, cinghiali e capre che, scendevano dalle rocce sconnesse nel vallone di Oloitti, dove c’erano i possedimenti della famiglia Brundu, che parlavano il Gallurese, gente semplice, laboriosa ed onesta e amica della nostra famiglia.

  1. Pedru sa Radio

 

Nella valle di Oloitti, in Su Sassu di Chiaramonti, nei pressi della novecentesca chiesetta di San Giuseppe, località di abbondante macchia mediterranea, lavorava il carbonaio Pietro Spanu, conosciuto col soprannome di Lumbardu. Era un uomo ben voluto e apprezzato da tutti, in quanto era un gran lavoratore. Col suo asino, trasportava, di norma, tre sacchi di carbone per volta, percorrendo l’unico tratturo comunale, con impreviste insidie nel percorso accidentato da buche, salite ripide e altrettante discese, fiumi in piena e frasche di ogni genere, che rallentavano il passaggio del carico. L’uomo e la bestia arrivavano a destinazione sfiniti dai diversi imprevisti, incontrati lungo il disagiato percorso, per la consegna del carbone, che era il combustibile per far girare l’antico mulino a vapore, che macinava il grano di una parte delle massaie di Chiaramonti. Il vecchio mulino a vento, la cui costruzione resiste ancora sul colle miocenico di Codinarasa, a 462 metri sul livello del mare, era stato sostituito da tempo. Questa vecchia costruzione sembra sfidare i ruderi del castello dei Doria, che gli si para di fronte a 467 msm.

Era un freddo mattino invernale e Lumbardu, col suo solito carico di carbone a dorso d’asino, si recava in paese. Ma, nell’attraversare il fiume Filighesos, che confluisce sul fiume Chirralza, l’impeto delle acque era talmente forte che, improvvisamente, l’asino trovò grosse difficoltà ad attraversare, al punto che fu trascinato dalla corrente. Il bravo carbonaio, vedendo la sua bestia in pericolo, prontamente tentò di tirarla fuori con tutto il prezioso carico che trasportava. Si immerse nelle fredde acque e, dopo tanti tentativi, riuscì nella difficilissima impresa di salvare l’asino e il carico di carbone. A operazione riuscita, scaricò dall‘asino i sacchi impregnati d’acqua e, tolti i finimenti, lasciò libera la bestia al pascolo. Quel giorno, il Lumbardu dovette rinunciare alla consegna del prezioso combustibile, in quanto lo sparse sul prato, lontano dal fiume, perché asciugasse e riacquistasse il peso tarato. La stessa operazione non poté essere eseguita per i suoi vestiti fradici, in quanto sarebbe dovuto restare all’aria aperta nudo come quando la mamma lo fece nascere.

A causa di questa vicenda, l’uomo si ammalò alle corde vocali, che gli s’infiammarono in modo cronico al punto che, quando parlava, dava l’impressione che facesse uscire la sua voce da un apparecchio radio gracchiante. Per questo motivo, si beccò il soprannome di Pedru sa Radio.

  1. Carbone a buon mercato per tutti

 

I militari chiesero a mio padre se potevano rendersi utili, collaborando alla produzione del carbone. Avendo visto al lavoro il carbonaio della zona, ritenevano di riuscire a fare lo stesso lavoro. Mio padre diede il consenso e, presi gli accordi con Pedru sa Radio, cominciarono a lavorare alacremente. Il carbonaio, che era cugino in secondo grado di mia madre, ermanueru, iniziò il lavoro con i militari, tagliando con l’accetta, sa ‘istrale, la legna dal bosco, come materia prima necessaria alla produzione del carbone. Successivamente, furono predisposte varie carbonaie, sas cheas. Nel giro di dieci giorni, il carbone vegetale fu preparato e trasportato nei luoghi di utilizzo. E così, nei pressi del nostro casolare, si videro enormi mucchi di carbone, accatastati per poi essere trasportati al mulino del paese. Nei miei ricordi di bambino, attento osservatore, giocoso, sempre alla ricerca di nuove emozioni, vista la catasta alta di carbone sul piazzale, vi salii sopra e, dall’alto di quel balzo artificiale, notavo il passaggio dei viandanti del tratturo comunale: chi con asini, chi con cavalli, di rado col carro trainato da buoi galluresi, carichi di mercanzie o di sacchi di grano, che giornalmente transitavano per recarsi al mulino del paese. La fila indiana dei viandanti, ad un tratto, scompariva a causa di una discesa con una forte pendenza e poi riappariva sul dosso della strada per avviarsi più agevolmente verso il paese. Tra questi viandanti, alcuni provenivano dalla Gallura, a dorso di cavallo o asino, altri procedevano appiedati, con le bestie al seguito, fiancheggiando il fiume in piena nei giorni di pioggia e tenendosi lontani dalla cascata, s’istrampu, per poi guadare il fiume Filighesos più a valle,  i cui terreni appartenevano ai Brundu di Oloitti.

Il carbone, prodotto con l’aiuto dei volenterosi militari, veniva sempre più accatastato, ancora fumante, nella vicina casa, formando un mucchio sempre più grosso. Pedru sa radio, col consenso di mio padre, fu autorizzato a vendere  quel carbone. Si rallegrò non poco di quel permesso, perché il nostro carbone si trovava al di qua del fiume Filighesos, da cui si poteva procedere direttamente verso il paese. Questo ben di Dio, però, durò poco, in quanto accadde una vicenda imprevista. Il carbone venne tutto secuestrato dal regime Fascista, venne trasferitoto presso la stazione ferroviaria più vicina, per essere utilizzato a far viaggiare i treni a vappore.

  1. Il nostro branco di buoi a pascolo abusivo

 

Un giorno i nostri buoi, che in genere pascolavano nelle tanche di Chirralza, di proprietà di Zappalà, sconfinarono nei pascoli delle mucche dei Madau, ricchi notabili del paese e nostri ex locatori. Il loro vaccaro, in compagnia di un suo collega, venne nel nostro casolare ad avvisare mio padre, perché ritirasse i suoi buoi. Io, allora, nonostante avessi appena sei anni, volli partecipare e andai con loro, cavalcando in groppa al cavallo del compagno del vaccaro. Quest’uomo, nonostante anche lui fosse fattore dei Madau, era un grande amico di mio padre. Appena arrivammo nel luogo, mio padre si avviò, a cavallo, verso il branco dei buoi e, con dei semplici richiami, riuscì ad allontanarli dalle mucche e dal pascolo altrui. C’è da osservare che i buoi erano castrati, altrimenti la cosa sarebbe stata sicuramente più difficile. D’altra parte, mio padre, uomo di buone maniere, con atteggiamento corretto verso gli animali, era riuscito con facilità a metterli in movimento e a separarli dal branco delle mucche, che continuarono a pascolare tarde e lente. Egli parlava ai buoi con la sua solita cadenzata litania e gesticolava con atteggiamento amichevole e scherzoso dicendo:

“Siete in cerca di trovarvi nuove compagne di avventura? Capisco che siate al pascolo in solitudine a Chirralza, mah . . .”!

A tale commento benevolo, rispondeva il vaccaro dei Madau con frasi minatorie, riferendosi alla probabile vendetta del proprietario delle mucche.

Nonostante fossi piuttosto piccolo, capivo bene che non erano frasi di buon auspicio verso mio padre, al quale rimproveravano persino il fatto di avere una fede d’oro al dito. Come se un pastore non potesse portare al dito il segno che caratterizza un uomo sposato. Questi erano i tempi e questa era l’ignoranza.

Al rientro col branco dei buoi, mio padre diede ordine di ispezionare la recinzione del muro a secco e fu constatato che non c’erano segni di interruzione o varchi che consentissero l’uscita degli animali. Mia mamma, a quel punto gli disse:

“Devi stare attento ai tuoi buoi, quei vaccari sono capaci di prelevarli apposta per farti dei dispetti! Per questa volta legati il fazzoletto al dito, per ricordartene, ed evitare così una prossima bravata! Devi badare al vicinato, quella è gente invidiosa e riporta i fatti al padrone, che li paga con una forma di ricotta mustia, secca”.

Mia madre conosceva bene quel proprietario, che, quando lavoravamo nei suoi terreni, le controllava mensilmente il formaggio posto ad essiccare in su cannittu. Ci era consentito di consumare il formaggio gonfio e la ricotta di scarto, perché non commerciabili.

Ai rimbrotti di mia madre, mio padre rispose:

“Che cosa possono volere da me?”.

  1. Al posto delle caramelle promesse

 

Il nostro collaboratore, su teracu, Pietro Spanu, noto Zancanu, uomo molto stimato da mio padre, si sposò e lasciò il lavoro e, al suo posto, venne assunto un giovane montagninu, che, nonostante avesse finito di fare il servizio militare, ne vestiva ancora gli indumenti: camicia, pantaloni, scarpe, cappotto, che, quando rientrava, appendeva al bidente di legno, su furcarzu, il fòrcolo, fissato davanti al casolare e che fungeva da attaccapanni, ma, soprattutto da sostegno per il paiolo quando non lo utilizzavamo, su cui cagliavamo il formaggio la mattina successiva.

Il servo pastore, ogni quindici giorni, di domenica, si recava in paese per fruire, secondo contratto, del meritato riposo.

A noi bambini su teracu

prometteva sempre  che, al suo ritorno, ci avrebbe portato le caramelle. Ma lui, sistematicamente, quando rientrava, si scusava dicendo che si era dimenticato e ci assicurava che la volta successiva avrebbe mantenuto la parola.

Uno dei giorni in cui, come al solito, non aveva mantenuto la promessa, pensai di arrampicarmi sul palo e di frugare nelle tasche del suo cappotto, da cui tirai fuori un oggetto ovalizzato splendidamente colorato. Chiamai i miei fratelli e le mie sorelle, i nostri cugini e cugine, invitandoli a seguirmi, perché avevo trovato un contenitore con le tanto sospirate caramelle. Ci sedemmo tutti dietro il casolare ed io mostrai la meravigliosa palla ovale, cercando di tirare una linguetta di pelle che fuoriusciva dal centro di essa; ma, fortunatamente, non ebbi la forza di strapparla. Mia zia Tomasina, notando la nostra insolita assenza, venne a scovarci dietro la casa, e, vista la palla multicolore me la tolse dalle mani urlando: “Che cosa fate! Via, via, queste non sono caramelle! Guai a voi se mettete le mani nelle tasche altrui!”

Mia zia, appena arrivò mio padre, gli raccontò il fatto e lui, constatato che si trattava di una bomba a mano, tra l’altro, illegalmente detenuta, licenziò in tronco il servo montagninu.

E pensare che se fossi riuscito a tirare la linguetta avrei rischiato la vita io e avrei ucciso tutti i miei fratelli e i miei cugini. Forse un Angelo ci ha protetti da quell’evento nefasto.

  1. Il mondo rurale dei fanciulli

 

Spesse volte mi allontanavo dai miei fratelli e dagli altri cugini, tenendomi a distanza tra le vicine pietre piane, dove, con giochi fatti da me, mi stendevo nella morbida pietra coperta di muschio, a pancia in giù, trainando il carrettino da me costruito con stecche di usciareu, asfodelo, materiale leggerissimo come i miei pensieri. Guardavo divertito, con gli occhi dell’infanzia, il mondo che mi attorniava. A una certa distanza vidi due grosse bisce che sulla punta della coda, ritte, si sbattevano tra di loro facendo uno schiocco, come quando i bambini battono le mani. Restai meravigliato da tale spettacolo. Dietro di me c’era vicina la tomba dei giganti; più giù, il nuraghe semidistrutto, separato da un muro a secco, che arrivava fino al posto in cui mi trovavo.

Col carrettino da gioco, mi alzai e mi recai in casa, dove raccontai tutto lo spettacolo a mio padre, il quale mi spiegò che era il modo con cui le bisce fanno l’amore e, allo stesso tempo, mi ammonì che se mi fosse capitato un’altra volta, di non molestarle, perché potevano aggredirmi e farmi del male.

  1. L’upupa, sa culipùdida, fuggiasca

 

Un altro giorno, con mio fratello Gavino, decidemmo di recarci in cima al monte dove si trova sa terra iffundada, terra sfondata, per visitare un nido di Upupa, culipùdida, che covava le uova in una pianta di olivastro secolare.

Arrivati sul posto, mi arrampicai sul vecchio albero e infilai la mano nel buco del tronco dove c’era il nido, che già avevo ispezionato alcuni giorni prima, accertandomi che l’uccello covasse le uova; ma, in quell’occasione, l’animale, sentendo la mia presenza, volò via. Questa volta, però, riuscii a prenderlo e a tirarlo fuori, ma trovai difficoltà a scendere dall’albero. Stringendo in mano la preda, avvisai mio fratello di tenersi pronto che gli avrei lanciato l’uccello tra le sue mani. Cosa che feci subito, ma l’upupa, liberata dalla stretta, prese il volo e, sotto il nostro sguardo smarrito, riacquistò la primitiva libertà, lasciandoci entrambi con un palmo di naso.

  1. Il picchio nero e verdone

 

Esistono due qualità di picchio: il primo è quello nero con bianche macchie, piume splendenti, becco ben affilato, che gli consente di scavare un buco nella pianta rinsecchita, come farebbe la punta di un trapano di grosse dimensioni. Può raggiungere anche quattro centimetri di diametro. Dopo aver terminato il nido, lo utilizza per un solo anno, e poi lo abbandona. Negli anni seguenti, questo nido viene utilizzato da altri uccelli di diversa specie. In pratica, lo cede a chi lo vuole occupare, come per dire che lui non avrà problemi a costruirsene uno nuovo. Non si sa il perché di questo suo altruistico comportamento. Così ne vengono in possesso passeri ed altri uccelli della stessa specie riempiendo di paglia il buco.

Anche i nidi di sorighita, fringuello minuto, possono essere occupati abusivamente dal cuculo, che, eliminate le uova esistenti, vi depone le sue, che fa covare alla stessa proprietaria del nido. Solo appena nati i piccoli, l’uccello riconosce che non sono i suoi e li abbandona, lasciando all’invadente cuculo il compito di alimentarli.

Il secondo è il picchio verdone, che, invece è piuttosto mal fatto; quando vola sembra ubriaco, in quanto spicca slanci in avanti per continuare a volare continuamente; sembra dire ciao, ciao, sta passando l’uccello ubriacone.

  1. La rondine e il rondone

 

La rondine è di colore nero e di bella fattura; elegante e sempre allegra, costruisce i nidi di fango, ricuperandolo nei punti di rifornimento dei materiali idonei per la costruzione del nido.

Il rondone è simile alla rondine, ma più tozzo; non si posa mai a terra, perché le gambe troppo corte gli impediscono di riprendere il volo. Si posa soprattutto nei fili elettrici o nei cavi telefonici; oppure su grondaie e altri siti elevati, che gli consentono di spiccare facilmente il volo, lasciandosi cadere nel vuoto. La natura ci riserva moltissime inaspettate sorprese, che tanti ignorano sulla vita degli abitatori del nostro pianeta. Gli studiosi di ornitologia studiano da secoli le abitudini e le stranezze comportamentali degli uccelli, per arrivare a spiegarsi il perché ciò accada.

  1. L’astore

 

Il capraio Giovanni, un giorno, decise di catturare un astore, che nidificava in alto sulle rocce. Predispose una trappola con della carne, in modo che il falco, ghiotto di carni in genere, se ne servisse per alimentarsi. Il giorno seguente, il pastorello si arrampicò nella parete rocciosa e, con grande sorpresa, trovò nella trappola un tipo di roditore sconosciuto. Si presentava completamente bianco, con delle chiazze rosacee e una coda pelosa come quella dello scoiattolo. Lo portò in casa, dove, legato con dello spago, lo tenevamo al guinzaglio come un cagnolino. Ma, in un momento di distrazione, l’animaletto ne approfittò e, tagliando lo spago coi suoi denti aguzzi, in pochi secondi, riacquistò la sua meritata libertà. Non abbiamo mai capito di che animale si trattasse.

  1. Le sevizie contro un gatto impiccione

 

Nel periodo della semina del grano, un certo Nicolino Casella si presentava ogni tanto a casa per tagliare i capelli a tutti noi, bambini compresi. Si dilettava a fare il “parrucchiere” nei periodi d’intervallo tra l’aratura della terra e la semina, lavori che operava sul terreno avuto in concessione da mio padre.

Poiché con quest’uomo avevamo molta confidenza ci lamentavamo con lui dicendogli che il nostro gatto era disubbidiente nel gioco.

Per accontentarci disse: “Volete che il vostro gatto vada via di casa? Visto che non vi permette di giocare, mandatelo via!”

In coro rispondemmo che eravamo tutti d’accordo.

Allora prese il gatto, se lo mise tra le ginocchia e, tenendolo stretto, gli afferrò i baffi arricciandoglieli e tirandoli con forza. E concluse quest’azione sputandogli in faccia. Infine, lo lasciò libero. Il gatto, con un salto, sparì fuori come il vento e non rientrò più in casa! Tutti spaventatissimi ci chiedevamo se il nostro gattino ci avrebbe perdonati perché, in cuor nostro non volevamo che si allontanasse da noi. Con chi avremmo giocato se lui fosse andato via?

  1. Impiccagione ingiusta di una gattina

 

I miei genitori, un giorno, dovendo fare delle compere di generi alimentari in paese, ci lasciarono soli in casa, con la raccomandazione di fare i bravi bambini fino al loro rientro, che sarebbe avvenuto a pomeriggio inoltrato.

Ci dissero di mangiare a pranzo le uova fresche, depositate in un recipiente posto sotto il letto matrimoniale.

Lasciarono un bel focolare acceso con tante ardenti braci, dove avremmo potuto sotterrare le uova fresche di galline ruspanti per cuocerle bene.

Ci insegnarono che le uova, prima di metterle sotto la brace, bisognava bagnarle con la saliva, per evitare che al calore scoppiassero. All’ora di pranzo, ci disponemmo in cerchio attorno al focolare, seduti su sgabelli di legno e di sughero, pronti a gustare le buone uova di giornata, belle calde, appena tirate fuori dalla cenere ardente. Tutti contenti, ci dividemmo le uova sode giustamente salate e accompagnate da pane fino, casalingo, cotto al forno a legna.  Ad un certo momento, mia sorellina Angela si alzò dal suo sgabello di sughero, per venire tra le mie braccia. Nello spostarsi, mise il piede sulla coda del gatto, facendolo infuriare, tanto che, con un gesto assolutamente istintivo, le morsicchiò la gamba.

Tutti d’accordo decidemmo di punire il gattino, informando mia sorella che lo avremmo impiccato al centro del piazzale di casa. Abbiamo fatto finta di usare un fil di ferro col nodo scorsoio, ma senza concludere la terribile operazione, progettata al solo scopo di tranquillizzare mia sorellina, che continuava a piangere. Dopo un po’, rappacificatasi, smise di strillare e aspettammo in paziente attesa che arrivassero i nostri genitori. Durante tutto questo periodo, progettammo di fare uno scherzo ai nostri genitori, nascondendoci sotto i letti.

Babbo e mamma, arrivati a casa e non vedendoci, si preoccuparono e si precipitarono alla nostra ricerca.

Insieme a zia Tomasina, entrarono in casa e non tardarono a scoprire il nostro scherzo innocente, che, però, li aveva fatti preoccupare. Per cui ci sgridarono fortemente, chiedendoci il perché ci fosse venuta in mente un’idea così strampalata e noi, piuttosto intimoriti, demmo tutte le colpe al gattino che aveva morsicato Angela. Loro non riuscirono a spiegarsi quali colpe avesse il gattino per costringerci a nasconderci sotto i letti. Ci chiesero, piuttosto, dove fosse il piccolo animale e noi dicemmo che era morto, per convincere Angela che era stato punito. Ma, come per incanto, il gatto si presentò miagolando attorno alle gambe di zia, quasi a voler dire che era risuscitato. A quel punto dissi tutta la verità; che l’azione era stata concordata per far smettere di piangere la piccola Angela. E il gattino, inconsapevole di tutto, passeggiava libero da ogni preoccupazione.

“Ma cosa avete inventato, sciagurati” ripeteva zia senza darsi pace. “Avete fatto credere a vostra sorella di averlo ammazzato, da oggi in poi non vi lasceremo più soli”.

Io ribadivo la mia tesi, ripetendo ancora che senza quel sotterfugio Angela non avrebbe smesso di piangere. Una ulteriore sgridata chiuse le vicende di quella giornata di trambusto tra mia sorella e il gattino che, anche in seguito, parteciperà con gioia a renderci felici e contenti.

  1. Addio alla vita dei campi

 

Dietro consiglio di un amico di nome Buccirussu, che nel periodo di latitanza aveva conosciuto a Pattada una brava famiglia di pastori, convinse mio padre, che aveva intenzione di cedere la campagna, ad assumere come soccidaria la famiglia Porcu di Pattada, con tanti figli e collaboratori, teracos.

Prima di affidare le sue proprietà in soccida a questo pastore, mio padre avvertì tutti i suoi fedeli lavoratori, caprai, pecorai, porcari e garzoni, di trovarsi un nuovo lavoro presso altre aziende e di far posto ai nuovi arrivati della famiglia Porcu. Tutti noi abbandonammo la campagna e rientrammo in paese a piedi da Chirralza, in fila indiana, salutati a s’istradone, nei pressi della curva de Carigaju dalle sorelle Soddu, Maria e Nicolina, che, felicitandosi per il trasferimento definitivo in paese, facevano festa con noi.

Al saluto dei paesani rispondevano i miei genitori, mentre noi, timidi bambini di campagna, ci limitavamo ad osservare con curiosità l’accoglienza.

Nel mio animo di decenne, però, si agitavano emozioni causate da quanto avevo dovuto lasciare e, quasi spontaneamente, mi sgorgarono dal cuore gli addii ai prati della mia infanzia.

“Addio, mia selvaggia campagna, che mi hai arricchito nei teneri anni di bambino timido e rispettoso di quegli eventi mirabili, che nel ciclo dell’anno si rinnovano sempre in primavera, in estate, in autunno ed in inverno. Eventi mirabili che difficilmente cancellerò dal mio animo.

Addio alle saltellanti caprette, che, durante la pastura incontaminata, popolavano la vallata ricca di alberelli ricoperti da rami con teneri polloni, che come per incanto, con vigore, germogliavano, per essere gustati dai ruminanti che, secondo il ciclo della vita, con cadenza si riproducevano.

Addio, fiume Chirralza, che infinite volte mi hai dissetato con le tue fresche acque sorgive e tante volte mi hai accolto nelle tue limpide piscine naturali.

Addio, piante di lentisco, che, nei giorni di calura, mi lasciavate giocare nei generosi rami flettenti.

Addio, ancora, fiume, che dissetasti bambini, uomini e bestie con generosità senza limiti.

Addio, pascoli generosi per il nostro numeroso gregge di pecore e di capre. Non vi dimenticherò mai e per quanto vivrò sarete con me nel segreto del mio cuore”.

Rientrati in paese, i miei genitori decisero di mandarci a scuola. Così, nel settembre del 1948, iniziammo a frequentare la prima elementare, io, Gavino, Tomasina e Mirella. Per i primi due mesi, ebbi come insegnante il maestro Floris, soprannominato maestro Ciliegia che, però, per motivi di salute, fu sostituito da un suo compaesano di Ploaghe, Gerolamo Casu, che mi seguì dalla prima elementare fino alla quinta. In seguito, frequentai la scuola serale con la maestra Quadu. Avrei frequentato successivamente la scuola serale nel periodo di leva a Civitavecchia, col professor Brunori e sua moglie professoressa di Filosofia. In pratica continuai con le scuole serali fino al 1970.

Parte seconda

vita paesana

  1. “I miei primi giorni di scuola Elementare”

L’apertura della scuola la ricordo sotto il palazzo di Antonio Maria Schintu, a Chiaramonti, con una trentina di alunni tutti maschi, il nostro maestro un certo Floris di sopranome Ciliegia. Noi alunni vestivamo con grembiule Blu, al petto sinistro, la striscia con la scritta (I°) prima elementare, il grembiulino era dotato con un collarino bianco chiuso con apposito fiocco celeste annodato a farfalla, che ci faceva presentabili alla gente, ci sentivamo scolari eleganti.

A quei tempi io ero l’alunno più preparato della classe, in quanto essendo giunto in età avanzata, ed avendo acquisito prima lezioni private, in campagna, avevo agevolata la frequenza: i primi giorni mi facevano fare le aste ed i gancetti ad ombrello ai quaderni, a righe e a quadretti, che io tenevo ben ordinati e senza orecchie, al contrario di altri alunni. Ricordo che alcuni alunni arrivavano in classe senza quaderni e cartella, mentre pochi erano muniti di cartella. Io soffrivo nel vedere i miei compagni sprovvisti di matita e cancelleria idonea. Devo dire che a scuola mi ero inserito molto bene, contento di frequentare con profitto e ambizione, con un buon maestro che stimavo, con gioia. Ma, passati tre mesi, l’insegnante si è dovuto assentare per malattia, a causa di un intervento chirurgico alla gola, tornato riprese l’attività per poche settimane, in attesa di essere sostituito da un suo collega, anche lui proveniente da Ploaghe.

Arrivato in classe, il nuovo insegnante, ci prese come strofinaci nella sua morsa brutale, scombussolando il lieto vivere di noi alunni. Alcuni non frequentarono più la scuola, e altri si ribellarono ai suoi metodi troppo punitivi e maneschi, per noi la situazione si pose molto male, abituati alla tenerezza del primo insegnante. In quel tempo dopo scuola mi recavo in campagna per stemperare la rabbia del cambiamento a scuola. In quei giorni si presentò un mio zio, in compagnia di cacciatori, mi chiese se potevo portarli nei posti dove potessero cacciare delle pernici. Mi disse: “attento che devo fare bella figura con questi Signori..” personaggi molto altolocati; chi Giudice, chi avvocato di alto grido, a Sassari. Ebbene li portai sul posto delle pernici, e notai che partecipava anche gente della vicina  campagna, miei parenti di secondo grado. Arrivati sul posto indicai il volo delle pernici, che subito mio zio con abilità e precisione abbatteva, col fucile, che a storni si alzavano in volo. Nel  mentre informavo mio zio, che nelle vicinanze c’era  una lepre, ma egli si disimpegnò, dicendomi di andare a scovare la lepre io ed uno dei miei parenti, a quel punto dissi al mio parente Fiore: “andiamo a scovare la lepre!” Lui tutto contento mi seguì, col suo fucile, mentre io munito di un bastone, che utilizzavo come se fosse un fucile, ci recammo sul posto della lepre. Avvertì fiore: “Attento! che la faccio partire!” Mi disse pronto: “vai”, ed io col bastone colpì il cespuglio, la lepre con balzo partì dalla sua tana, malgrado le due fucilate, del cacciatore principiante,  andarono a vuoto, notai più avanti un suo fratello appostato a ridosso di un muro a secco, che sparò una sola fucilata, che la colpì. Nel mentre a distanza notai due Carabinieri a cavallo, che si orientavano verso di noi! A quel punto dissi: “Fiore! Nascondi il fucile!” Sapendo che era sprovvisto di porto d’arma per caccia. Noi ci allontanammo raggiungendo tutto il gruppo. Ma all’arrivo dei Carabinieri, chiesero a Fiore, dove aveva nascosto il fucile, che prima aveva sparato i due colpi. Io mi intromisi in sua difesa, informando che ero stato io col bastone ad aver fatto partire la lepre che da tempo sapevo essere li allocata. Pensavo che il gruppo dei cacciatori confermasse la mia difesa ma, notai, che nessuno si pronunciò; a quel punto ho costatato la malignità di quella gente, che io prima stimavo come fossero veri  amici, sapendo che li avevo favoriti ad averli messi sui passi delle pernici, e della sfortunata lepre. In conclusione sequestrarono il fucile di Fiore: notai come i Carabinieri non chiesero al resto dei cacciatori la licenza di caccia.. in quel momento intuivo che erano arrivati solo per punire il giovine, e se ne andarono con l’arma sequestrata. Visto il disimpegno di questa gente rientrai a casa rattristato e demoralizzato, promettendo di non aver mai più in seguito invitato nessuno dei cacciatori, e di accontentarmi di praticare, come prima, la finta caccia, col mio solito bastone, sempre usato da me come fosse un fucile vero. Così facevo il cacciatore: con la bocca pronunciavo lo sparo “pum, pum” e, in compagnia del mio cagnolino, sempre attento ai miei ordini, e lui che scovava la selvaggina nascosta tra i cespugli, passavo liberamente la giornata, con tante pernici, lepri, fra la meravigliosa macchia Mediterranea di quei tempi che furono, in me bambino campestre, finto cacciatore per gioco.

La scuola a quel punto mi girava le spalle, gli amici ed i parenti non mi soddisfavano, all’ora pensai: “vado da mio padre e le faccio una proposta! Mi ritiro da scuola, e vado a fare il capraro..”, con le poche capre rimastegli e sapendo che era sprovvisto di capraro.

Mi presentai il mattino alla mungitura, e dissi a mio padre, e a mio zio, che alle capre ci pensavo io per farle pascolare. Appena munte le diedero il largo, e mi incamminai dietro di loro, ma ad un certo punto sparirono dietro la vegetazione, e smarrito mi dileguavo tra la alta vegetazione per trovarle al pascolo, ma in tutto il giorno non ne vidi una!

 La sera al tramonto mi avvicinai a casa come un cane bastonato, con la coda tra le gambe e l’umore a pezzi. Mi chiedevo: “devo presentarmi a casa o no?!” Mentre il mio umore era a terra, con meraviglia sentivo avvicinarsi il tintinnio dei campanacci che mi cambiavano l’attesa in positivo. Finalmente!! Le volevo ringraziare una ad una, perché mi avevano salvato la giornata. Rientrato a casa vedevo che mi accoglievano con festoso sorriso, chiedendomi come avevo passato la giornata presso le capre; Io in quel momento non sapevo da che parte nascondermi, ne rispondere alle loro domande. Mio zio si fece avanti, e mi disse; Antonio Maria! Continua a scuola perché le capre sono abituate a vagare sole senza essere disturbate.. non è cosa da bambini! A  quel punto mi sentivo annientato; finalmente capivo che mio zio aveva ragione, il mio intuito si riempì della bassezza di un bambino immaturo. Invano provavo a salire su di un albero.. non riuscendoci!! Mi rattristava l’idea di essere sconfitto tornando a frequentare la scuola, ma la montagna era più grande di me!! Vedevo svanire i miei sogni, conditi di buoni propositi, del bambino che ero: volenteroso, insistente, ed allo stesso tempo innocente.

  1. Cesto di ciliegie

Un giorno il nostro maestro chiese a noi alunni se qualcuno potesse procurargli, pagando il dovuto, un cesto di ciliegie, belle e mature. Si resero disponibili i fratelli Ottavio e Vittorio, che il giorno dopo si presentarono con su coinzolu cioè il cesto, pieno di splendide ciliegie, facendo venire l’acquolina in bocca a tutti i componenti della classe.

Ottavio e Vittorio comunicarono al maestro l’importo da pagare, ma il maestro fece finta di niente: prese con delicatezza il cestino e lo pose nella predella, alle sue spalle dietro la cattedra e riprese la lezione.

All’ora dell’uscita vidi Ottavio e il fratello, avvicinarsi alla cattedra, prendere il cesto e uscire indisturbati dall’aula.

Io mi ero intrattenuto perdendo tempo nel chiudere la mia cartella di fibra di cartone; il maestro notò la mia presenza e mi chiese come mai tardassi ad uscire. Io accelerai, allora, la mia operazione e mi apprestai ad uscire. Lui si voltò per prendere il cesto delle ciliegie nel luogo dove lo aveva deposto con cura e constatò che una magia lo aveva fatto sparire. Con occhi increduli, mi guardò e mi domandò chi avesse osato nascondere le ciliegie.

“Vittorio e Ottavio”. Risposi pronto, tentando di nascondere la mia contentezza per l’azione dei miei due compagni.

 35. Bottega di alimentari

 Nel negozio di Mureddu Giovanni, mio padre  andava a fare la spesa alimentare per la nostra casa, a pagherò, cioè, man mano che comprava le derrate alimentari, il costo veniva segnato su un libretto e, in seguito, fatti i conti, babbo saldava l’ammontare tutto in un’unica soluzione. Questo negoziante informò mio padre che il nostro pastore, un certo Porcu, non aveva ancora versato i soldi dovuti per la spesa a credito di un intero anno.  Il Mureddu lo pregava affinchè intervenisse e comunicasse al pastore che era ora di saldare il debito.

Mio padre si recò in campagna per accertarsi meglio e, visto che era lì, spinto da un pensiero angosciante, ritenne opportuno controllare il bestiame lasciato in conduzione alla famiglia Porcu, al momento del contratto e, accortosi che mancava buona parte degli animali dati in consegna, domandò che fine avessero fatto i capi non presenti quel giorno.

Il pastore rispose in dialetto pattadese, dicendo  che i capi mancanti  erano morti.

Mio padre, accortosi della inaffidabilità del Porcu, immediatamente lo mandò via insieme alla sua famiglia, masticando rabbia e veleno per il fatto di essere stato turlupinato come un ingenuo qualunque.  Arrivato in paese, informò mia madre di quanto era accaduto. E lei gli ricordò si aver avvertito subito la cattiva predisposizione di quell’amico che gli aveva presentato il Porcu come una persona onesta. Bucirussu, così si chiamava l’amico, non era una persona chiara e leale. E aggiunse: “Hai visto? Ti sei fidato di Bucirussu, adesso impara la lezione; e che sia una volta per sempre, caro Billia”.

Mio padre, dopo tale lezione di rimprovero da parte di sua moglie, decise di recarsi in campagna per ritirare il bestiame.  Mi portò con sé in quell’occasione e, in effetti, ne erano rimasti piuttosto pochi.

Le capre, circa settanta, le trasferimmo nelle terre di mio nonno, i cui pascoli erano condotti da zio Giovanni, fratello di mio padre. Io collaborai nell’operazione, ma, per inesperienza, non riuscivo a condurre le bestie al pascolo come invece sapeva fare mio padre. Capii che ero molto inesperto e che avrei dovuto prima studiare e finire almeno le elementari.

Le pecore rimaste erano un centinaio e i maiali appena dieci; e trasferimmo tutto nei pascoli presi in affitto dalla famiglia Ultei.

Per la conduzione delle pecore e dei pochi maiali fu assunto come servo pastore Vittorio Tolis, uomo di provata onestà e fedeltà.

36. Una casa piena di dolore, ma non maledetta

 Nannedda, una nostra prozia materna, era rimasta sola, dopo la morte di mia nonna. Per cui mi chiedeva in continuazione di andare a dormire da lei per farle compagnia. Aveva paura in quanto credeva che la sua via fosse una strada maledetta, a causa di un fatto di sangue, avvenuto nella casa adiacente alla sua. Poiché io non me la sentivo di andare da lei, ci chiese la cortesia se poteva venire lei a dormire a casa nostra.

Dopo qualche tempo, l’abitazione incriminata fu acquistata da mia nonna materna, Maria, che era già stata colpita per ben due volte dalla tragica perdita di due mariti. In occasione di una mia visita, mi chiese la cortesia di controllare il lampadario al centro della camera da letto. Mentre mi adoperavo per aggiustarlo, stando su una sedia, al centro della camera da letto, entrò a casa una conoscente, che, con una certa agitazione m’invitò a scendere dalla sedia, perché, proprio in quel punto, si era suicidato un uomo e il fatto avrebbe potuto procurarmi qualche scossa, visto che stavo manipolando fili elettrici, con possibilità di rimanere fulminato.

Qualche tempo dopo, ebbi l’occasione di conoscere uno dei componenti della famiglia che aveva vissuto quella tragedia familiare. E scoprii che lui non pensava affatto che la sua casa paterna fosse maledetta e, tanto meno, che portasse sfortuna. Vi aveva trascorso un’infanzia serena  e felice con i genitori e le sorelline, a parte il triste evento, ma addirittura aveva scoperto che quella casa risaliva ai primi dell’ottocento ed era stata costruita dal bisnonno Antonio, che, con la moglie Filomena, vi aveva vissuto fino alla sua morte. E anche il nonno e la nonna con i figli vi avevano trascorso dei lunghi periodi sereni. Non sono le case o gli oggetti che emanano energie malefiche, ma piuttosto sono gli uomini che tante volte perdono il lume della ragione compiendo misfatti.

37. La mia Cresima

 Il 10 giugno del 1956 mi recai in chiesa per la Santa Cresima, in compagnia dei miei genitori, gli altri componenti della mia famiglia e con il mio futuro Padrino, l’avvocato Giovanni Binna.

Fu un giorno indimenticabile, l’evento era di notevole importanza, anche perché vissuto in compagnia di tante personalità. La chiesa di San Matteo era zeppa di gente, con gli sguardi su di noi che ci scrutavano, forse un po’ gelosi di vederci tutti ben vestiti e affiancati da personaggi, che avevano fiducia in noi, giovane e giovani cresimandi, in presenza del nostro Arcivescovo di Sassari, venuto appositamente per l’importante ufficio.

Il nostro Parroco, Don Giommaria Dettori, mi chiese, già da una settimana prima, chi fosse il mio Padrino. Io risposi che era l’avvocato Giovanni Binna.

“Secondo me, disse, non può essere che venga a Chiaramonti per quest’evento!”

“Si, viene”. Risposi con sicurezza.

La maggior parte dei cresimandi aveva scelto gente del paese, nella cerchia di persone conosciute dai famigliari.

Dopo la cerimonia, uscimmo dalla chiesa e la maggior parte di noi aveva al polso un orologio, o una catenina, regalati dal padrino o dalla madrina.

A me fu regalato un orologio in acciaio, con diciasette rubini, che tenni per diverso tempo al polso. Per l’occasione, c’era in paese il fotografo Tonino Cucciari di Nulvi ed io mi feci fotografare, stando seduto in una panchina dei giardini del monumento ai caduti. Fotografia che conservo ancora. L’orologio invece, fece una fine ingloriosa. Spinto dalla curiosità infantile, volevo constatare di persona come fossero organizzati gli ingranaggi interni e soprattutto dove erano posizionati i famosi rubini. Lo smontai e non riuscii più a rimontarlo. Erano più numerosi i pezzi che mi avanzarono di quelli che riuscii malamente a sistemare. Resomi conto che non serviva più a niente, lo abbandonai in un cassetto del comò di casa. Però ebbi l’accortezza di riprodurlo in un disegno che appesi al muro del caminetto, in modo che tutti potessero vedere l’ora che segnava al momento del mio maldestro intervento.

  1. Il Bambino col pallone

 Un bambino giocava col pallone davanti all’ufficio postale del paese. Io, come al solito, guardavo i suoi movimenti e, in silenzio, partecipavo al gioco con impacciati movimenti da ragazzo di campagna.

Il pallone, per effetto di un tiro maldestro, si diresse verso un varco della spalliera in cemento, priva di protezione e il bambino, seguendo il pallone, precipitò nel vuoto del terreno sottostante. Un cantoniere e la moglie, che passavano di là, spaventatissimi, si diressero nel punto dove il bambino era precipitato, cosa che feci anch’io, e insieme, lo vedemmo stramazzato a terra a dieci metri di profondità. Subito i due, dietro mia indicazione sulla strada da fare per arrivare sul posto, lo raggiunsero e lo raccolsero per portarlo dal medico.

Ispezionando dall’alto, avevo capito cosa era accaduto di preciso. Il bambino, cadendo, aveva urtato il muro dove passava lo scarico dell’acqua della grondaia e, proiettandolo sul prato, ne aveva attutito la caduta, frenandone la corsa ed evitando che continuasse rovinosamente a precipitare fino a raggiungere il fondo dello scavo. Udito il pianto disperato e visti i gesti di implorazione e di disperazione dei signori che lo tenevano in braccio, mi sono chiuso in casa tutto tremante dallo spavento.

Questo bambino era nativo di Martis e la sua famiglia abitava all’ingresso est del paese nei pressi di Punta ‘e Mesanotte vicino al rione Codinas.

Ho sempre desiderato riabbracciare quel bambino, per ricordare con gioia lo scampato pericolo dopo quella brutta caduta e la fortunata ripresa. Recentemente mi sono informato, per avere sue notizie. Si chiamava Battista Budroni e, diventato adulto, andò a vivere a Porto Torres, dove ricoprì anche la carica di assessore comunale per alcuni anni. Purtroppo, da poco, ho appreso anche la notizia della sua morte, avvenuta alcuni anni fa.

  1. L’orgoglio di zio Martino

 

Nel nostro borgo agro pastorale, dal settecento al novecento, capitarono svariati fatti di sangue: omicidi, suicidi, cadute da cavallo e altri gravi incidenti che portarono alla mote di numerose persone. Di questi mi sono rimasti impressi soprattutto due episodi.

Nei pressi della località su Murrone, viveva una famiglia, nota per onestà e laboriosità. Il capofamiglia, un certo zio Martino, era considerato una brava persona, gentile e cortese con tutti e da tutti stimato. Un triste giorno, però, gli uccisero proditoriamente il fratello, che aveva assistito al furto di un maiale ingrassato. Gli autori del latrocinio, temendo che lui potesse parlare e fare i loro nomi, lo fecero fuori.

Gli assassini furono presi e condannati all’ergastolo; ma, più tardi, graziati e rimessi in libertà.

La moglie di uno di questi aveva aperto un bar e il marito, uno dei graziati, spesso si intratteneva stando tranquillamente seduto sul gradino della porta d’ingresso dell’esercizio ricreativo.

Un giorno, mentre ero appostato nel marciapiede di fronte, guardando la gente che passava, vidi passare zio Martino, come al solito elegante, in costume, seduto sul suo cavallo, che stava rientrando ai suoi poderi.

L’ergastolano graziato, pur sapendo d’avergli ucciso il fratello, si permise di rivolgergli il saluto dicendo:

“Buona sera zio Martino!”

Per tutta risposta l’uomo a cavallo gli lanciò un’occhiata feroce e spronò il cavallo che partì al galoppo. L’uomo ci rimase male, ma io, che avevo assistito alla scena, pur essendo ragazzo, mi chiesi come fosse possibile che l’assassino di un uomo onesto potesse sfacciatamente rivolgere il saluto al fratello della vittima, come se fra i due non ci fosse stato niente.

  1. Patti matrimoniali e verdura a buon mercato

 

Eravamo nel 1946 e mio padre e Sebastiano Casu, marito di secondo letto di Maria Lezzeri, con la complicità di mia nonna paterna, volevano sistemare con un secondo matrimonio, una mia zia materna, che era rimasta vedova con un figlio. Per cui cominciarono a fare le tradizionali trattative con la famiglia Scampuddu, originaria di Laerru e dimorante presso il casolare de su Murrone, per farla sposare con uno della famiglia; uno scapolone cui la donna non dispiaceva e per la quale aveva sempre dimostrato simpatia e affetto.

Una sera, mio padre e il patrigno si recarono dalla famiglia Scampuddu per sancire i “patti matrimoniali”. Partirono a cavallo dal nostro casolare presso Chirralza per raggiungere su Murrone dove abitavano gli Scampuddu.

Conclusero i patti e, dopo aver cenato e giocato a carte, furono sistemati per dormire in una stanza riservata agli ospiti.

Mio padre prese sonno, mentre il patrigno, avendo visto che l’orto degli Scampuddu era ben coltivato e ricco di ortaggi: carote, sedano, finocchi, lattughe, cetrioli, prezzemolo e melanzane, pensò bene di alzarsi cautamente, fare un ricco bottino e prendere, insalutato ospite, la strada del ritorno.

Giunse al nostro casolare verso le quattro del mattino e chiamò mia madre: “Mariedda, Mariedda!”.

Mia madre si alzò un po’ spaventata e chiese il perché di questo rientro anticipato!

Il patrigno rispose:

“Credi che io sia persona che può intrattenersi tra gente babbalea? Billia può far festa con quegli stupidi, ma io lo sai, non mi trovo con gente così! Sveglia i bambini che ho portato della roba buona da mangiare”.

Mia madre gli chiese:

“Come mai Billia non è venuto con te?”.

E lui ispose

“Tuo marito ha preferito restare, io no! Uno come me non resiste con quella gente”.

Così tutti ci svegliammo e mangiammo i teneri ortaggi a buon mercato che il provvido nonno aveva sottratto dall’orto degli Scampuddu.

Mia madre, osservando la scena, esclamò:

“Che vergogna, sei proprio matto Buccianu, vai a dare in sposa una figlia e ti metti a rubare nell’orto della famiglia del pretendente!”

Ma Buccianu ci esortava:

“Bambini, mangiate, mangiate, vostro nonno non vi fa mancare niente!”

Il matrimonio, nonostante la stravaganza del patrigno, si combinò, anche perché gli Scampuddu erano ben lontani dal pensare che uno dei duemandadarzos, “ambasciatori”, avesse potuto saccheggiare il loro orto.

  1. Una mia parente si sposa in seconde nozze

 

La mia parente, rimasta vedova con un figlio, si era risposata con Vincenzino Scampuddu. Dopo il matrimonio lei,  insieme al figlio, si trasferì nella casa del nuovo marito. Costruita al centro di un ampio podere, questa casa rurale era a pian terreno, con due camere ben intonacate a calce viva ed imbiancate all’interno e all’esterno. Il podere insisteva nel territorio di Chiaramonti, vicino alle case delle Fate, Domus de Janas, in località chiamata Murrone, lungo la strada per su Bullone.

Il podere era ben recintato, con cancelli in legno eseguiti da personale di competenza; i muri a secco, in pietra, alti circa due metri, per impedire al bestiame di uscire all’esterno. Ai piedi della casa scorreva un fiume di acque sorgive, ma alimentato anche da acque piovane. Nelle immediate vicinanze, una recinzione in pietre a secco delimitava un orticello, s’apitu, per i bisogni della famiglia. c’era anche una vigna, ben recintata da un muro a secco anche questa, dove c’erano numerosi alberi da frutta, che facevano da cornice al muro di cinta ben squadrato. Insomma, il tutto si presentava con un’ottima sistemazione, anche perché la vista spaziava sun un panorama incantevole.

Anche la casa aveva una bella recinzione indipendente dalle altre, che era stata fatta per gli amici che vi si recavano in visita, che potevano sistemare confortevolmente cavalli, asini e muli, in modo che fossero pronti al momento della partenza. Tutti gli ospiti che vi si recavano gradivano molto e apprezzavano queste comodità.

La nuova famiglia era ben vista e apprezzata da tutto il vicinato.

Si viveva, allora, di pastorizia, allevando pecore, galline, conigli, maiali. Come mezzi di trasporto, avevano un cavallo, due buoi e un carro, col quale provvedevano anche alla provvista della legna da ardere per cucinare i cibi e la cottura del pan; nei giorni freddi si accendeva il fuoco, sul camino posto al centro della camera, che riscaldava tutta l’abitazione. In più disponevano di un’ottima attrezzatura agricola per l’aratura del terreno,  per la semina del frumento e il successivo raccolto, s’incunza. Si coltivava il frumento.

Nove mesi dopo il matrimonio, nacquero due gemelli maschi, seguiti, successivamente, da altri figli, maschi e femmine. Il figlio grande, nato dal precedente matrimonio, decise di trasferirsi da una zia sposata, ma senza figli, che viveva in una tenuta a pochi chilometri da Sassari, di proprietà di un ricco possidente del luogo. Dopo la morte della zia, si trasferì in una via del centro di Sassari, dove lo zio si risposò con una donna di Benetutti. In seguito, conobbe una ragazza del luogo e si sposò anche lui ed ebbe due figli: un maschio e una femmina.

  1. I terreni di Conca de Ossu

 

Mio padre, per poter trasferire l’altro bestiame che aveva ricuperato dal pastore pattadese Porcu, prese altri terreni in affitto da Conca de Ossu. Prelevato il bestiame dalla nostra campagna, mio padre, io e il nuovo garzone che avevamo assunto per l’occasione, ci recammo in campagna per completare l’operazione. In un momento di pausa, mentre stavamo seduti su un muretto a secco, tra il nuraghe e una tomba di giganti, passò un certo Peppino Spatacchione, più conosciuto col nomignolo di Matzoneddu, per la sua presunta furbizia, e chiese a mio padre se era vera la notizia che andavamo via dalla campagna, lasciando i terreni, non nascondendo la sua allegra soddisfazione per quanto era accaduto. Aggiunse anche che il proprietario del fondo gli aveva promesso che, qualora fosse andata via la nostra famiglia, sarebbe subentrato lui al nostro posto. Mio padre gli rispose per le rime, dicendogli: “A quanto pare hai raggiunto il tuo scopo. Hai tramato nell’ombra per far si che ciò si avverasse. Complimenti! Da domani potrai occupare questi pascoli”.

Era una guerra tra poveri, combattuta senza esclusione di colpi, senza badare ai danni che si procuravano ai loro vicini.

Noi continuammo il nostro lavoro, riunimmo tutto il bestiame e ci dirigemmo verso la nuova destinazione: sa tanca de sa Ide di proprietà della famiglia Scampuddu. Io non mi resi conto allora della trama che Matzoneddu aveva perpetrato ai danni di mio padre per costringerlo ad andare via da quei terreni. Anzi, ero molto contento, in quanto nella nuova sistemazione ero vicino alla famiglia di mio cugino, col quale potevo passare tutto il tempo. E poi, la vicinanza delle famiglie facilitava le riunioni tra parenti che si intensificarono molto.

Dopo diversi mesi, decisero di affittare il resto dei terreni concedendo la semina di sa tanca de sa Ide acquisita in un primo momento, come terreno pascolativo.

  1. Semina di grano in tanca de Ide

 

Mio padre ricevette altri terreni in affitto dagli Scampuddu e un giorno decise di seminare a grano Sa tanca de Ide, con autorizzazione del proprietario. Il grano era bello e abbondante, che tutti si complimentarono con noi, compresa la famiglia Ultei. Mio padre si recò per pagare l’affitto del terreno, con l’intenzione di offrire al proprietario un po’ più del pattuito, visto che il raccolto si prevedeva abbondante. Presentatosi dal proprietario, gli disse che era pronto a pagare l’affitto del terreno, manifestando la sua idea di pagare qualcosa in più di quanto era stato contrattato, vista l’abbondanza del raccolto che si prevedeva. Il patriarca della famiglia, nominato Conca de Ossu, uomo strambo e decisamente all’antica, invece, disse: “E no, non fare il furbo: tu mi devi pagare quanto abbiamo stabilito”.

Mio padre pensò tra sé che era propria vera la diceria che quest’uomo era veramente uno strano personaggio.  Perciò, senza ulteriori discussioni, consegnò gli scudi pattuiti, lasciando soddisfatto il l’anziano proprietario.

Il figlio più piccolo, Settimio, sempre all’erta nei momenti in cui sentiva odore di soldi, si recò dal padre per ottenere la sua parte di affitto. L’anziano e strambo genitore lo informò che Billia Berchiddesu voleva fare il furbo e, giunta l’ora del pagamento, gli voleva dare poche lire, che lui non accettò assolutamente, in quanto non era quella la cifra che avevano stabilito al momento del contratto. Settimio, però, si accorse che l’offerta dell’affittuario era superiore a quella ricevuta da suo padre e, mettendo in essere la sua fama di uomo colto e furbo, ideò una maligna pretesa.

Il fondo era stato affittato come terreno da adibire a pascolo, non a semina; per cui ordinò ed ottenne il sequestro conservativo del grano che era ancora da mietere, trebbiare e insaccare nell’aia di raccolta.

  1. L’aia di grano. S’arzola

A quei tempi l’aia si faceva con i buoi, che trascinavano una grossa pietra, legata al giogo con una robusta corda. Sopra questa pietra, come zavorra, stava una persona in piedi. Si faceva strisciare la pietra sopra il grano maturo su trigu cappelli, sgranocchiando i chicchi dorati della spiga e staccandoli dalla paglia in cui erano avvolti. Per separare, poi, la paglia dai chicchi, si aspettava una giornata moderatamente ventosa e, con l’ausilio di pale di legno, si prendeva il prodotto e lo si lanciava in aria. I chicchi, più pesanti della paglia, cadevano in linea perpendicolare, quasi sui piedi dell’addetto, mentre la paglia, molto più leggera dei chicchi, veniva trasportata dal vento, che la depositava un po’ più lontano, separandola in modo determinante e definitivo dal grano.

E cosi avveniva che la paglia, posandosi delicatamente a terra distante dal grano, alla fine delle operazioni, formava un enorme mucchio, molto più grande di quello di grano posto nelle immediate vicinanze.  Questa operazione viene chiamata in sardo triulare su trigu e, da essa, prende nome il mese in cui si procede, trìulas, cioè, luglio

II grano veniva immediatamente introdotto nei sacchi di iuta e portato nei magazzini del proprietario, mentre la paglia faceva bella vista di sé in mezzo all’aia. Mentre i miei, finita l’operazione, si accingevano a mettere il grano nei sacchi, si presentarono i Carabinieri, informando che dovevano sequestrare tutto il grano.

Per cui, il frutto del duro e lungo lavoro, venne portato in un deposito, presso il magazzino di Anna Maria Truddaiu, a pochi passi da casa nostra, nella numerazione dispari della via Efisio Marini.

Settimio non si accontentò del solo sequestro e si recò in caserma, lamentando il fatto che il grano era troppo a portata di mano di Billia, in quanto il magazzino era nella stessa via in cui abitava. Per cui, chiese ed ottenne che i sacchi di grano venissero traslocati in un magazzino di fronte al suo negozio di alimentari, dove mia mamma andava ad effettuare acquisti di prodotti che non trovava nel negozio di Giovanni Mureddu.

A quei tempi, in quella via, lavorava il calzolaio Cicciu Boe,  con l’apprendista Antonio Maria Corzolu. Questi, accortosi del via vai, che Settimio operava quasi quotidianamente, riuscendo ad eludere la sorveglianza delle forze dell’ordine e prelevando furtivamente notevoli quantità di grano dal deposito, nonostante sapesse benissimo che il grano era sequestrato, avvisarono mio padre, che, a quel punto si recò in caserma e denunciò il fatto. I Carabinieri, recatisi da Settimio, gli chiesero delucidazioni circa i suoi movimenti da e per il deposito dove era custodito il grano. Gli contestarono anche il fatto che alcuni testimoni lo avevano visto prelevare quantità di grano sequestrato. Egli negò categoricamente, affermando che lui non aveva portato via niente, aggiungendo anche che non possedeva neaqnche la chiave del magazzino. Il maresciallo insistette, gli fece aprire il deposito e fu facile rendersi conto che mancavano alcuni sacchi di grano.

Mio padre, indignato dal comportamento di un simile personaggio, chiese di entrare immediatamente in possesso del suo grano, senza aspettare la decisione del pretore di Nulvi.

Le parti si accordarono e il caso si concluse in modo sbrigativo e definitivo. Resta, però, il comportamento indegno e maligno di Settimio, che, alla fine, si trovò tra l’incudine e il martello.

  1. Pietrineddu e Giuannicu

 

Spesse volte i due fratelli Pietrineddu e Giuannicu mi portavano con loro, quando andavano alla fonte, per l’approvvigionamento dell’acqua fresca. Caricavano l’asino di barilotti e, tutti e tre ci recavamo alla sorgente, attraversando impervi e tortuosi sentieri fino ad arrivare a sa tanca de sa Ide.

Arrivati sul posto, dove la sorgente sgorgava da sotto i massi di pietra posti a una certa altezza, sotto il canale di passaggio delle acque piovane, l’asino si fermava da solo nella giusta posizione per facilitare il riempimento dei contenitori, che erano stati caricati sul suo dorso. Il povero animale, se ne stava tranquillo e paziente, rassegnato a sopportare il peso del carico senza fiatare. Ogniqualvolta si arrivava alla fonte, assistevo alle stesse operazioni e sentivo sempre le stesse informazioni, già ripetutemi dai due fratelli come una litania e, soprattutto, come se li accompagnassi per la prima volta. Sempre la stessa storia. Mi indicavano il grosso pioppo, allineato con gli altri, ripetendo la stessa frase in dialetto: “A che lu ‘ides cussu fustialvu, abbàida bene, mi? Dai cussa pianta faghimus sa linna pro su baule de Conca de Ossu, babbu nostru. (lo vedi quel grosso pioppo, osserva bene, però. Col legno di quella pianta, dal falegname facciamo fare la bara per Testa d’Osso, nostro padre).

In pratica, non vedevano l’ora che il padre morisse per acquisire l’eredità. Ma importante è il modo con cui si adoperavano per riempire d’acqua le botti di rovere. Giuannicu con un secchio pescava  l’acqua dalla fonte con un piccolo recipiente, che passava subito a Pietrineddu; e questo la versava nell’imbuto fino al riempimento dei recipienti. La bestia, sempre ferma, sopportava il carico che andava mano mano aumentando e, appena sentiva il rumore dei tappi che venivano inseriti nelle botti, si apprestava a ripercorrere il tragitto fatto prima all’inverso. Arrivati a casa, scaricavano i barili e versavano l’acqua nell’apposito catino, su cadinu, in legno di rovere, adibito a contenere l’acqua da bere. La rimanenza veniva deposta in altri recipienti, destinata agli usi domestici più svariati: lavare i piatti, i pavimenti, per l’igiene personale e così via.

Terminato il lavoro, levavano il basto all’asino, liberandolo al pascolo, in attesa di essere utilizzato il giorno successivo, per la stessa incombenza.

Malgrado la noia che provavo nel sentirli ripetere sempre la stessa storia, mi divertivo lo stesso e li seguivo volentieri.

Quando andavo da mia zia, raccontavo la storia dei due fratelli, che avevano già scelto il legname con cui fare la bara al proprio genitore. Mia zia ci rideva sopra e aggiungeva: “Sono due mattacchioni incoscenti; augurare la morte del padre!”

Il vicinato si divertiva molto e ci scherzava sopra sul fatto che i due fratelli pensavano sempre alla morte del loro padre come a un evento importante per la loro sistemazione. Ma anche per la loro indipendenza e libertà; con la morte di Conca de Ossu, si sarebbero liberati finalmente dalle disposizioni ferree di un padre padrone assoluto.

Il genitore, ormai anziano, decise di trasferirsi in paese, perché bisognoso di cure ed essere così assistito meglio dal medico condotto. Un giorno, un uomo che abitava in paese, passò a casa loro e li informò che il loro padre era molto grave.

I figli pensarono che era ormai giunta l’ora della morte e partirono contenti al capezzale del povero malato, convinti di trovarlo morto. Ma, giunti in casa, constatarono, invece, che era in buona forma, al punto che li rimproverò perché non si erano più fatti vedere per informarlo sullo stato dei lavori della campagna.

I due uscirono da casa del padre e, piuttosto delusi e turbati, si recarono dall’informatore e lo minacciarono malamente, perché li aveva informati male e non c’era alcun bisogno di recarsi da una persona che godeva di una salute di ferro.

In seguito, il padre morì veramente e si divisero l’eredità contenti e appagati! Non so, però, perché non hanno mantenuto la promessa di fargli fare la bara col legname del pioppo della sorgente. L’eredità non durò molto, anzi. Poco tempo dopo, vendettero tutto al primo offerente e si trasferirono, lasciando per sempre la campagna. Pietrineddu si trasferì in un piccolo paese della provincia di Sassari, libero da qualunque impegno, realizzando così il suo sogno di sempre, grazie alla morte del padre Conca de Ossu, testa di solo osso. E Giuannicu si trasferì in paese a Chiaramonti.

La cima del grosso pioppo sventola ancora, cullata dal vento, sul canale vicino alla sorgente, ringraziando di non essere stato abbattuto. Sono stati cancellati, invece, i sogni dei due fratelli, lungo il cammino di una vita grama e poco produttiva; poiché il genitore, morendo, come era nei loro desideri, li abbandonò al loro destino, che era quello riservato a due persone impotenti e incapaci di poter realizzare un qualsiasi piccolo progetto, a partire da quello che prevedeva l’abbattimento dell’albero per la costruzione della bara del proprio genitore.

  1. Il cesso di Conca de Ossu

 

Dopo che mio padre aveva ceduto  i terreni presi in affitto dagli Scampuddu, arrivò la famiglia Mureddu, che ne prese possesso con tutta la famiglia, sistemandosi nella stessa casa dei proprietari, che erano prossimi al trasferimento a Laerru.

Gli Scampuddu informarono i nuovi arrivati che esisteva un cagatoio riservato solo al capo famiglia Conca de Ossu e, finchè abitava lì, imposero loro di non servirsene assolutamente. Uno dei nuovi arrivati, piuttosto curioso di capire il perché di quest’ordine così perentorio, andò ad ispezionare il cesso e, con sua grande sorpresa e meraviglia, vide una banconota, adagiata sulla merda appena depositata. La raccolse e, zitto zitto, l’intascò, dopo averla accuratamente pulita dagli  escrementi maleodoranti.  Credendo, probabilmente, che il divieto riguardasse i soldi che vi si potevano trovare facilmente, quel ragazzo si recò altre volte a ispezionare quel posto pieno di buone sorprese, ma non trovò più niente da intascare.

La famiglia Scampuddu era famosa in negativo nel paese; la gente perbene, infatti, amava tenersi a debita distanza da loro, per paura di essere contagiata da quello che in sardo viene chiamato su machìne, la scemenza. Girava un detto, allora, in paese che diceva così:

Iscampuddu su mannu est castigadu

E issu  est su mezus de sa rèntzia.

Ca su machine est chei s’influèntzia,

coltzu a chie lu giughet pitzigadu.

Essere amigu issoro est cosa dura,

ca andat su machine a cundidura.

Traduzione:

Scampuddu è scemo come una bottiglia

però è il migliore della sua famiglia.

Colui che per compagna ha la scemenza

è come aver sposato  l’influenza.

Essere amico loro è dura cosa,

perché quella scemenza è contagiosa.

Il biglietto da visita non era dei migliori; erano persone di poco comprendonio e si comportavano in modo strano, a volte con insidiosa malignità e con atteggiamenti imprevedibili e incomprensibili agli occhi di una persona normale, abituata, cioè, a convivere pacificamente col resto delle famiglie vicine.

Accettavano qualunque ragionamento, purché non fosse contrario a quello che dicevano loro, giusto o sbagliato che fosse.

La loro abitudine quotidiana era quella di alzarsi tardi e di trattenersi in piedi fino a notte fonda giocando a carte. Erano permalosi e non avevano fiducia in nessuno. Per cui, il loro terreno era tutto ben recintato con muri a secco, lungo tutto l’asse territoriale, che si estendeva per circa trecento ettari.

In pratica, si erano costruiti il loro territorio al sicuro da insidie esterne.

In famiglia erano quattro maschi, una sorella sposata, con due figli, un maschio e una femmina. Questa sorella abitava a Chiaramonti con la sua famiglia, dove, con suo marito, gestiva un’attività commerciale. Uno dei fratelli, anche lui sposato con figli, gestiva un negozio di generi alimentari. Questo suo fratello era conosciuto col nomignolo di Radeschi, perché possedeva un motorino di marca tedesca, il cui equipaggiamento era simile a quello del famoso generale. Lui lo guidava con estrema gagliardia, percorrendo lo stradone, a quei tempi, non ancora asfaltato, pieno di polvere e di ghiaia che il cantoniere cospargeva settimanalmente, dopo aver pulito le cunette, per facilitare il deflusso dell’acqua piovana.

La gente del paese lo prendeva in giro, perché in effetti, quando accelerava, sembrava di sentire la musica viennese della marcia di Radeschi.  Ma lui era impenetrabile nella sua condotta di motociclista munito con tanto di divisa e occhialoni, chiedendo largo ai passanti per non rendergli ancor più difficile il percorso, che era già abbondantemente accidentato dalla presenza di mucchi di ghiaia e di numerosi avvallamenti e dossi.

  1. Pietrineddu e l’asino

Il paese dove si trasferì Pietrineddu Scampuddu con tutta la sua famiglia era Laerru. Se ne andò abbandonando per sempre la sua diletta e tanto sospirata campagna. L’aveva desiderata a tal punto che, pur di ottenerla, aveva più volte augurato la morte al suo genitore.

Un giorno, mentre andavo a visitare mia zia Tomasina, dalla quale ero stato invitato a pranzo, camminando in su turighinu, una servitù comunale di passaggio, sentii chiamare a gran voce: “ Ehi tue, ehi tue!” (ei tu, ei tu!). Mi fermai per udire meglio e per rendermi conto da che parte provenisse quell’accorato richiamo.

A Nord avevo la visuale coperta da un alto muro. Risentii la voce, ma non riuscii a rendermi perfettamente conto da quale parte arrivasse. Supponendo che essa provenisse da dietro l’alto muro, mi arrampicai velocemente e, arrivato in cima, vidi Pietrineddu che era intento a caricare la legna sul basto posto sul dorso del suo asino.

La legna era ben disposta in due fascine uguali di peso e di misura, ma, nel caricare la prima nel lato sinistro del basto, non provvedeva a mettervi sotto un sostegno per reggerla provvisoriamente, prima di passare sul lato destro e caricare l’altra fascina della legna. Imperterrito, continuava a sistemare il carico di sinistra e, mentre passava a destra, la fascina si rovescuava, mettendo in guai seri il povero animale, che non poteva parlare per spiegargli che l’operazione di carico non si doveva compiere a quel modo. E il bello è che lui si arrabbiava e non riusciva a intuire perché il basto si rovesciasse dalla parte del carico, lasciando cadere per terra la fascina appena sistemata. Chissà quanto tempo c’era, tentando un’operazione assolutamente impossibile da realizzare. Probabilmente c’era dalle prime ore del mattino, con insistente testardaggine.

Lo chiamai ad alta voce diverse volte, ma sapevo che era mezzo sordo fin dalla nascita. Difetto, o malattia, comune a tutta la famiglia, per cui tutti i loro vicini li prendevano in giro e li canzonavano apostrofandoli: “Abba’ inoghe abba’ inoghe”, (guarda qua, guarda qua) attribuendo loro, oltre alla sordità, anche una scarsa capacità di comprendonio, dovuta a una totale assenza d’intelligenza.

Ad un tratto, non si sa come, si voltò verso di me, notò la mia presenza ed esclamò: “Calchi Santu ti nd’at batidu”. (Qualche santo ti ha mandato).

Scesi dall’alto muro, mi recai da lui e gli spiegai che il carico doveva essere puntellato con apposito bastone a forchetta, prima di passare dall’altra parte del basto e provvedere a caricare la seconda fascia di legna. “Ora l’asino è carico”, ripeteva contento. “Senza il tuo aiuto, mia moglie a Laerru non avrebbe potuto cucinare il pane”.

Non sapeva come ringraziarmi per il sostegno datogli. Lo lasciai col suo asino, raccomandandogli di ricordarsi come si carica la legna sul basto dell’animale.

Arrivato da mia zia, le raccontai il fatto. Lei, sorridendo, mi disse che la moglie lo avrebbe aspettato invano con quel carico di legna e, se non fossi intervenuto io, il pane non lo avrebbe cotto di certo. E infine aggiunse: “Buoni a niente! Anche un bambino arriva a capire le cose che loro ignorano totalmente. Quella è gente veramente ottusa e non c’è nessun rimedio che possa migliorare”.

Mia zia apparecchiò la tavola e, in compagnia di altri parenti, abbiamo pranzato lautamente, con bell’armonia di tutti i presenti, non mancando di scherzare sull’episodio del carico di legna.

Mio cugino che lo conosceva bene, scherzava spesso sulla totale mancanza di furbizia ed esperienza dei fratelli Scampuddu. Diceva che erano tutti della stessa razza. “Se non sono assistiti, non arrivano a saper fare niente nella vita”. Concludeva sempre.

Io tentavo di prendere le loro difese, cercando di attenuare il dibattito, dicendo che sapevano arare la terra, caricare il carro di legna ecc. ma neanche io ci credevo molto e capivo perfettamente che, senza l’aiuto di qualcuno, nessuno dei fratelli era capace di fare qualcosa di buono.

  1. La mia cavalla venduta a Chicco

 

Mio padre un giorno ebbe l’opportunità di comprarmi

una puledra e me la consegnò dicendomi:

-Adesso tocca a te addomesticarla!-

La puledra, essendo stata svezzata dalla madre, mi seguì e col tempo si affezionò a me. Era docile e potei addestrala con facilità. Spesso percorrevo i nostri poderi cavalcandola e divertendomi un po’.

Un giorno però, a mia insaputa e in mia assenza, mia madre, per fare una cortesia alla sorella Tomasina, visto che al marito era morta la cavalla, la barattò con cinque pecore di cui due sterili.

Io ne soffersi molto, ma dato il carattere pacifico non ne feci un dramma.

Un giorno mentre mi recavo in campagna a raccogliere l’aglio in località S’Ischizzone, in bicicletta, con mio fratello Lucio, seduto sul telaio, e percorrevamo la discesa, nella sterrata di Santa Maria de Aidos, mio fratello, cercando di sedersi meglio sul tubo della bicicletta, infilò inavvertitamente il tallone tra i raggi della ruota anteriore, causando l’arresto del mezzo e disarcionandomi in modo maldestro a terra. Egli cadde in piedi senza farsi un graffio, mentre io caddi bocconi sfregando  la faccia sulla sterrata, tranciando la parte anteriore della lingua. Un compaesano di passaggio, certo Mariano Carboni, che calvacava il suo asino,  mi portò al vicino abbeveratoio di Santu Miale,  per lavarmi il viso dalla polvere e dal sangue.

Nel mentre arrivò il marito di zia Tommasina cavalcando quella che era stata la mia cavalla.

Conosciutomi si fermò, sbuffandomi vicino come per  dirmi che avevo preso davvero una bella caduta.

II mio samaritano, lo esortò:

-Carica tuo nipote e portalo in fretta dal dottore, perchè il mio asino è lento!-

Rispose:- Non posso, non vedi che mi sporcherebbe la cavalla!-. Il Signor Mariano ribatté: – Sapevo che eri scemo. ma non a questo punto!-

Senza dare risposta  in sella alla mia cavalla, che mi leccò le braccia senza chiedere permesso al nuovo padrone, se ne andò,

comportandosi come il levita e il sacerdote della parabola evangelica.

Cosi, col volto tumefatto e la lingua tenuta a stento dal nervo centrale, ci avviammo con l’asino per raggiungere l’ambulatorio del medico condotto dr. Stefano Catta, il quale, dopo avermi ben disinfettato viso e lingua penzoloni fece un’operazione di cucitura perfetta.

Una Signora, addetta ai servizi, vistomi in tale condizione cadde a terra  svenuta, a quel punto il medico chiamò gente per soccorrerla non volendo smettere la delicata operazione sulla mia lingua.

Mio zio pochi anni dopo morì, lasciando la mia cavalla libera al pascolo e triste, ma per me, la puledra vive ancora nel ricordo e nel cuore.

Forse, davanti al Signore, si sarà accorto della gravità del mancato soccorso e Dio non voglia che abbia fatto una brutta fine eterna.

Io, guarito perfettamente, non misi più piede nella casa di mia zia.

  1. Tiu Giuannemaria Salipa, camionista e socio di Billia Murza

 

A Chiaramonti, un paese metà in discesa e, naturalmente, metà in salita, abitava un brav’uomo piuttosto sfortunato, che si chiamava tiu Giuannemaria Salipa. Abitava in via delle Balle, in pieno centro storico. In giovane età, quest’uomo, mezzo zoppo e con la passione di condurre automobili, comprò una delle prime Balilla, passando successivamente ad un camioncino Fiat, acquistato di seconda mano. Sia la balilla che il camioncino erano spesse volte dal meccanico o dal carrozziere per riparazioni da incidenti causati per i lenti riflessi del proprietario nel governare i comandi. Molte volte finiva nelle cunette o urtava ostacoli fermi, nonostante a quei tempi  i veicoli in circolazione fossero pochi; diciamo che si potevano contare sulle dita di una mano.

Non riuscendo più a far fronte al peso delle costose riparazioni, il buon uomo si rivolse a mio padre Billia perché lo aiutasse a pagare le somme accumulate, con l’intento di scontare, poi, con viaggi ed altri servizi.

E così capitò che mio padre, col tempo, paga oggi e paga domani, aveva accumulato notevoli crediti nei confronti del camionista, per cui, tentando di riuscire a ricuperare qualcosa, gli chiese di trasportare del sughero, da un tancato in un cortile, in zona Codinas, dove, attualmente, si trova la chiesetta della Madonnina della strada.

Il sughero doveva essere prelevato in zona sa travessa, di proprietà Lumbardu. Salipa doveva recarsi col suo camioncino sul posto, dopo aver provveduto ad aprire un passaggio nel muro a secco, adiacente alla strada Statale 132, nella zona di su Tuvu. Io e suo figlio Loreddu ci recammo sul posto e aprimmo il passaggio.

Dopo aver eseguito il lavoro con cura, chiamammo Salipa, che arrivò puntualissimo. Io e suo figlio gli indicammo il punto dove doveva entrare col camioncino, avvertendolo di procedere cautamente in quanto il posto dove era depositato il mucchio di sughero da caricare era piuttosto sconnesso.

Appena il mezzo lasciò la strada bianca varcando il passaggio e procedendo in direzione del carico, notammo che, a causa del fieno alto, il veicolo non rispondeva più né alla sterzata e tanto meno al freno. La conseguenza fu che, senza desiderarlo, la povera macchina andò dritta dritta contro una pianta secolare di quercia, la urtò violentemente e, insieme al rumore dell’urto, si vide una nuvola di fumo tra la pianta e il muso del mezzo, dove colava l’acqua calda del radiatore. Il conducente aprì la porta e, scendendo a strascico con la gamba cionca, piazzatosi tra il tronco della pianta e il muso anteriore del camioncino, esclamò: “Tando gia ti frimmas”. (Hai visto che alla fine ti sei fermato?).

Constatato il danno, decise di chiamare Battista, il meccanico del paese.

Dopo un’oretta, arrivato sul posto, il meccanico consigliò di cercare un paio di buoi per trascinarla nella sua officina per la riparazione.

Il proprietario del sughero mise a disposizione il suo giogo di buoi per trasportare il camioncino danneggiato in officina.

Si preparò l’occorrente e, agganciato il mezzo dalla parte posterore, cominciammo l’operazione di ricupero.

I buoi cominciarono il loro lavoro e staccarono il camioncino dal tronco della pianta secolare di quercia, dove era andato ad adagiarsi. Noi li vedemmo allontanarsi e percorrere lentamente la distanza che separava l’albero dal passaggio che consentiva l’accesso alla strada principale, per poi raggiungere l’officina di Battista. Ma, arrivati sulla strada, accadde l’imprevedibile: si ruppero le corde di traino ed il camioncino, in compagnia del conduttore, che era seduto in cabina, iniziarono una corsa al contrario, che ebbe termine dove aveva iniziato: sul tronco della stessa pianta.

A quel punto, Salipa, ripetendo la manovra del precedente impatto sulla quercia, uscì dalla portiera, con la solita gamba ciondoloni, e si fermò tra la pianta ed il mezzo, dicendo: “Torrada ti che ses?” (Sei ritornata al posto di prima?).

Le cose si complicarono, arrecando maggior danno al veicolo e alla povera pianta.

A quel punto prese le redini del veicolo il figlio, che, essendo più abile nella manovra, recuperò finalmente il camioncino danneggiato, portandolo con gli stessi buoi fino all’officina meccanica di Battista.

E finì che anche il sughero fu trasportato col carro trainato dai buoi rossi del Signor Multineddu.

Parlando col meccanico, Salipa disse: “Per questo danno dovrai avere pazienza, se Billia potrà rifinanziarmi per il pagamento delle riparazioni, perché il mio portafoglio è prosciugato da diversi anni ed è più asciutto del sughero che dovevo trasportare. Mia moglie, povera donna, dovrà lavorare sodo in paese per causa mia e iutarmi a ricuperare soldi per pagare i debiti”.

 Mio padre, rammaricato per non aver potuto usufruire del servizio del suo socio, si rassegnò a pagare le spese, in attesa di ricuperare i soldi con altri servizi eseguiti da Salipa.

  1. Affitto sedia in parrocchia

-Avevo informato che per motivi scolastici nel 1947 rientravamo dalla campagna,  andando ad abitare a casa di mio nonno, alloggiando a pian terreno, mio nonno con la sua “inserviente”, con i miei cugini: Mario, Guerino, Domenica sistemati al primo piano.

-Io con i miei fratelli e sorelle, assieme con i miei cugini e cugina, la Domenica si andava a messa, mentre mio nonno si recava di primo mattino in chiesa tutti i giorni: per questo mio nonno pagava un affitto della sedia che occupava per via di non aver acetato di comprare un banco per la chiesa.

-Io e Mario essendo più adulti alcune volte servivamo Messa: ricordo, entravamo in Sacrestia indossavamo il camice bianco e, a fine messa, lo depositavamo piegandolo con cura.

Un giorno finito di aver consegnato il bianco grembiule, mio cugino consegnò al parroco “Don Dedola” l’affitto della sedia per parte del nonno.

Il parroco prese i soldi, notavo che mise la mano nella sua grande tasca, e contava tastando le monete ricevute come compenso.

Ad un certo momento estrasse la mano aprendola verso mio cugino.

Vidi che mio cugino scappò fuori come una lepre inseguito dal prete.

Io non capivo il motivo ma corsi anch’io dietro i due.

Nel correre notai che il grosso grembiule del prete si gonfiava agganciando il mucchio delle sedie depositate ai fianchi della navata in uscita lato destro, ove si posizionavano i Signori del paese compreso mio nonno; le sedie crollarono una dietro l’altra travolgendomi, impedendomi la corsa.

Mi liberai dalle sedie e raggiunsi l’uscita della chiesa ove trovai il prete che rincorreva mio cugino,   sentì dire frasi immonde nei riguardi di mio cugino, insultandolo con  parole e  percosse, graffiandolo con le sue unghie sulla  faccia.

Ripetendo maledetto avaro di un bambino!

Io e mio cugino ci allontanavamo consultandoci tra noi!

Accordandoci che al rientro in casa dovevamo dire ai nostri che all’uscita dalla chiesa era inciampato nei gradini facendosi male.

Prima di entrare in casa mio cugino disse: “vai e guarda se ce qualcuno di sotto”.

Entrai, guardai nelle camere, uscì persino in cortile, e non vidi nessuno, mi recai fuori e, dissi a mio cugino, “puoi entrare che in casa non c’è nessuno”.

Entrati nel corridoio vedemmo uscire dal sottoscala l’inserviente di mio nonno con un contenitore d’olio d’oliva.

Visto Mario tutto sanguinante e pieno di graffi disse: “con chi ti sei menato, fai vedere”.

Spiegavamo che era caduto all’uscita della chiesa, ma lei disse questa non è caduta.

“Vieni subito sopra che ti curo le ferite con l’alcol”.

Per il giorno la cosa finì così col medicamento, ma il seguito lo può raccontare mio cugino.

La domenica successiva decidemmo di non frequentare la Santa Messa in quella chiesa, ma ci venne un’idea di recarci all’asilo ove Don Cristoforo dava messa, visto la nostra presenza ci fece delle domande amichevolmente rendendoci facile aprirci a lui, sfido era un vero prete.

A quel punto raccontammo tutto che nel pagare l’affitto della sedia del nonno, percosse Mario per non avergli consegnato tutti i soldi dovuti che si aspettava.

Dopo il racconto ci rassicurò che lui ci avrebbe protetto invitandoci a partecipare alle Sante Messe nella sua modesta cappella.

Ci incoraggiò facendoci ben accetti, e si chiedeva tra sé, se un prete potesse molestare dei bambini per poche lire: in totale, disse mio cugino, 5 lire.

Mi informò che voleva sdebitarsi con me comprandoci un gelato, in cambio della settimana prima consumammo un gelao offerto da me, con soldi datimi da un mio zio.

  1. Deposizione di Gesù Cristo inchiodato sulla Croce

-Ogni Santa Pasqua nel mio paese assistevo alla passione di Cristo in croce.

Avveniva che Gesù tramite gli Apostoli col camice bianco, muniti di scala tenaglie e appositi martelli, toglievano i chiodi dai piedi e dalle mani per poi avvolgere con un lenzuolo il corpo di Cristo e, deposto in parte come nel sepolcro, le statue venivano ricoperte con lenzuola fino alla resurrezione.

-Un tale si presentò di buon mattino da mio padre che conoscevo come partecipante alla passione di Cristo, nelle vesti di Apostolo, chiese a mio padre se per cortesia le poteva vendere un agnello per la ricorrenza Pasquale.

Mio padre rispose vedo se ti posso accontentare vieni domani e vedo di riservatene uno.

La mattina si presentò sua figlia conosciuta con il nomignolo “Gelati” Nina, mio padre dopo aver servito gli altri clienti le disse: “vedi è rimasto questo, ti va bene” la ragazza rispose si.

Venne pesato e le disse: “di a tuo padre che deve darmi tante lire…..” ed andò via con l’agnello avvolto in un bianco telo e trasportato con un canestro postosi sulla testa.

Mi trovavo passando in piazza quando mi sento chiamare da un Signore che notai essere accovacciato nel muretto del giardino, richiamandomi: “vieni che devo parlarti”!

Mi avvicinai e riconobbi il Signore che aveva ordinato un agnello da mio padre, mi informò: “puoi venire in casa che devo parlarti”, risposi: “dove è che abita Signore”?

Rispose: “abito a San Giovanni vicino alla chiesa appena avanti”, le risposi: “questa sera passo a casa sua le va bene”?

-Rispose “si ti aspetto”.

La sera recatomi all’appuntamento trovai alla porta sua moglie che mi disse “si accomodi mentre mio marito arriva subito”.

Arrivò il marito con una stadera tra le mani informandomi che doveva pesare l’agnello che mio padre le aveva venduto.

Risposi “guardi che mio padre ha già pesato in presenza mia e di sua figlia”.

La moglie usci da una camera adiacente con l’agnello pulito senza testa senza piedi e mancante la frittura: composta da fegato, coratella, cuore, rognoni, e trippa per fare il (tatallio) involtino.

Notai che le cosce dell’agnello erano spolpate, cosa che le feci subito notare.

Rispose è stata mia figlia ad asportare la polpa mancante, piace farsi le bistecche.

Risposi caro Signore sua figlia ha visto che i clienti che ritiravano l’agnello prima di lei, lo anno  portato via intero e non pulito.

Con ciò; ribadiva ma così mancano 2 Kg di carne.

“Allora la prossima volta si rivolga al macellaio che lo compra con due Kg in più”.

Salutai e usci da quella casa chiedendomi se fosse gente mancante di qualche rotella.

Arrivato a casa raccontai a mio padre la storia spiegando ciò che le contestavano quella famiglia.

Mia madre disse la sua: “vedete quella famiglia suo marito era Finanziere abituato a non pagare la spesa, di conseguenza anche in paese pensano di fare lo stesso gioco”.

  1. “La trebbiatura”

Mio zio Giovanni mi acconsentì di seminare dell’orzo ove mai nessuno aveva coltivato la terra. Acconsentì anche se minorenne, l’età era di 16 anni. Mio padre mi arò la terra, io con la zappa completavo il lavoro di sarchiatura. Alla fine aratura e semina, ogni tanto mi recavo sul posto per vedere l’orzo spuntare e vederlo crescere, bello, verde, compatto. Il mio orgoglio saliva alle stelle, mi dicevo: “adesso faccio invidia ai miei amici e parenti, per aver seminato, e raccolto l’orzo”, attendevo la mietitura.

Al tempo della raccolta mi recai con mio padre per tagliarlo con la “messadosa”, essendo maturo. Recatici sul posto, notavamo che ogni stelo era composto di due spighe, appaiate dal colore dorato! Mio padre si commosse abbracciandomi teneramente! “Bravo figlio, i tuoi cugini adesso al vedere questa meraviglia saranno invidiosi, e cosi anche mio fratello”. Dopo la raccolta lo caricammo sul carro trainato da buoi, per portarlo all’aia ove arrivava la trebbia gallurese, presso Nuraghe Aspru. Infine arrivò, l’attesa trebbia che iniziò per prima il grano, e in seguito l’orzo poi l’avena. Ma l’attenzione era rivolta al mio orzo, che si presentava vistoso nel mucchio di rara novità. Alla fine del lavoro nella nostra aia, i datori di lavoro, della trebbia mi chiesero se ero disposto a seguirli nel lavoro fino a fine stagione, offrendomi una buona paga giornaliera di mille lire, per tutta la durata della stagione. Accettai seguendo la trebbiatura in vari appostamenti, tutto procedeva bene, e mi sentivo soddisfatto per il lavoro che svolgevo, impegnandomi al massimo nel lavoro, con cura e attenzione. Un giorno tutti decisero di partecipare ad una festa a Perfugas distante pochi chilometri da Erula. Invitarono anche me, però non accettai, e rimasi solo nella trebbia, per poter riprendere al mattino il lavoro. Arrivarono dalla festa tutti contenti e raccontavano le avventure della festa, a me dicevano: “peccato che non sei venuto a divertiti con noi”.

Tutti ripresero il lavoro, ognuno al suo posto. Il lavoro era appena cominciato, ad un tratto sentì uno strano urlo di dolore sopra la trebbia! Di intuito afferrai il bastone per disarcionare la cinghia di trasmissione, a quel punto la trebbia si fermò! Alzai lo sguardo al disopra della trebbia e notai l’addetto all’alimentazione del grano, che aveva la gamba mezzo maciullata, dal battitore della trebbia!! A quel punto presi uno spavento che decisi abbandonare il posto di lavoro, e mi decisi a riprendere la strada di rientro a casa. Per i sentieri incontrai un mio parente che era di rientro dalla sua fidanzata, cavalcando il suo cavallo baio, notandomi appiedato, mi invitava a sedere in groppa del suo cavallo, per rientrare a casa, ma rifiutai, preferendo continuare a piedi per circa venti chilometri di cammino.

Arrivato a San Giuseppe decisi di visitare mio zio Paolo Antonio, fuori casa di mio zio si trovava diversa gente, in maggioranza miei parenti, e con loro il papa della moglie di mio zio, che subito tento di farmi diverse domande; da dove arrivavo, e che cosa facessi in quella zona da solo. Io tentavo di assecondarlo ma lui insisteva, finché mio zio vistomi in difficoltà disse: “lascialo tranquillo che é stanco”. Dopo essermi rasserenato e riposato dallo zio, salutai i presenti, e ripresi la strada di casa verso Chiaramonti. Arrivato a casa, mia madre mi chiedeva se la trebbiatura era finita. Io risposi che la trebbiatura era finita, perché è successo un grave incidente al fratello del socio della trebbia. Mia madre conosceva bene quella famiglia, e la notizia la rattristò.

Raccontai per bene come era successo l’infortunio e mia madre divenne triste, per un cosi giovane lavoratore.

Io avevo lavorato tre settimane, e non pensavo di intascare quei soldi, ma dopo una settimana in casa si presentò il fratello, spiegandoci l’accaduto, e che suo fratello era all’ospedale di Sassari, ricoverato; a quel punto gli dissi che intendevo fargli visita.. lui mi fornì l’indirizzo, la scala, il piano, ed il numero del posto letto. Disse: “questo è il salario ben meritato per il lavoro che ai svolto”, consegnandomi ben quindicimila lire. Dopo una settimana mi recai a Sassari per far visita al mio amico infortunato ma, recatomi sul posto, mi mancò il coraggio di vederlo in condizioni che mi mettevano in serio disagio. Così sono rientrato a casa senza fargli visita, tuttora non so niente di lui, mi sarebbe piaciuto rivederlo, ma mi è mancato il coraggio. A me fa male trovarlo in stato mutilato.

Ebbene quei soldi dopo poco li ho utilizzati per migrare a Torino, ricordo che diecimila lire li ipiegai per bene e li infilai nella fodera della cucitura dei pantaloni, ove mia zia/Madrina, prima di lavarli, si accorse dei soldi nascosti nella fodera della cintura dei pantaloni, facendomi una romanzina in merito a ciò.

Io li avevo nascosti per ogni evenienza di bisogno, solo che non capivo che prima o poi i pantaloni dovevano essere lavati.

Parte terza

vita continentale

  1. Riflessione Pasquetta Pinerolo 22/04/14

Ieri per Pasquetta ci siamo recati a Balbutè  ad una altitudine di 1500 metri. Approdammo alla casa adiacente al ristorante nido dell’aquila N° 3, in 19 persone della comunità Spirito Santo di Pinerolo.

Li si partecipò alla Santa Messa, in seguito si banchettò tutti in allegria. Al pomeriggio io e uno della compagnia con mio figlio Claudio ci recammo a Sestriere, altitudine 2.300 circa.

Arrivati sul piazzale difronte al ristorante di mio fratello, Ristorante Pizzeria Costa…. si scese dalla macchina per entrare nel locale che trovammo chiuso, a quel punto a piedi raggiungemmo il locale sotto la torre Principe di Piemonte, ove arrivati mio figlio additò: “ecco tuo fratello”! Si trovava dentro un gazebo chiuso all’infuori del locale di sua gestione, ci fece accomodare dopo esserci salutati, offrendoci delle bibite calde prima di aver salutato Daniela, la moglie. In seguito salutammo sua moglie e rientrammo al ristorante che trovammo chiuso ove salutammo sua figlia con il suo fidanzato.. si parlò seduti e, salutando, rientrammo a Balbutè per prendere mia moglie e la moglie del partecipante, e si rientrò a Pinerolo.

  1. La partenza per Torino

 

Dopo alcuni mesi partii per Torino, precisamente il sabato del 29 ottobre dello stesso anno, e arrivai, il giorno dopo, domenica, a casa dei miei zii Maria Giusta e il marito, che erano anche mia madrina e mio padrino di Battesimo.

Avevo preso l’autobus diretto ad Ozieri, dove trovai la coincidenza per Olbia che mi portò diretto al porto dell’Isola Bianca, da cui partiva la nave per Civitavecchia. Ero in compagnia di un caro amico. Dopo una traversata notturna di sette ore, arrivammo la mattinata successiva al porto di Civitavecchia. Io scesi con la mia pesante valigia, insieme a Pietrino prendemmo il calesse per la stazione ferroviaria, e salimmo sul treno per Torino.

Sistemai la mia valigia e mi recai nel corridoio per poter guardare fuori dai finestrini. Notavo la luminosità del giorno che mi accompagnava portandomi in un mondo a me sconosciuto.

Lasciata la stazione di partenza, notai tanti campi appena mietuti che, a perdita d’occhio, coprivano vaste estensioni; quasi mi si inteneriva il cuore, rafforzando in me la speranza di andare verso il benessere, lasciando dietro di me la povertà.

L’amico con cui viaggiavo era Pietrino Soddu, un poliziotto chiaramontese, che faceva servizio a Torino, dove si era distinto come grande atleta di lotta giapponese, diventando un vero campione.

Il giorno volse al termine ed a quel punto il mio amico e compagno di viaggio, mi comunicò che a Genova sarebbe sceso per vedere la partita della Juventus.

 “Adesso, tu continua il viaggio da solo. Ci vediamo a Torino, dai tuoi zii. Mi raccomando, arrivato alla stazione di  Porta Nuova, prendi il tram che ti porta in Piazza Santa Rita e cerca di non perderti, altrimenti i tuoi zii se la prendono con me che ti ho lasciato solo”.

Lo rassicurai che non mi sarei perso e proseguii il viaggio senza difficoltà, fino a Torino.

Appena arrivato alla stazione scesi dal treno con la mia valigia, mi recai alla fermata del tram e ne attesi l’arrivo. Salii e chiesi informazioni ad un passeggero per sapere a quale fermata sarei dovuto scendere.

“In piazza Santa Rita”, rispose con gentilezza”. E subito aggiunse: “Stia tranquillo! L’avviso io quando deve scendere.

Dopo diverse fermate mi avvertì dicendomi:

“Si prepari, alla prossima fermata scenda”.

Lo ringraziai e mi diressi all’uscita. Scesi sulla panchina, chiesi a una signora dove fosse via Barletta e m’indicò la via di fronte. Mi recai al portone, suonai il campanello e mi rispose mia zia invitandomi a salire su. Con la mia pesante valigia salii le scale fino al secondo piano e mi presentai in casa dei miei parenti, dai quali fui accolto con festosa gioia di tutti, zii e cugini.

Mio cugino il giorno dopo mi presentò ai suoi amici in un bar, nelle vicinanze di piazza Santa Rita, e in seguito, mi portò all’oratorio che dà il nome alla piazza. Poi andammo allo stadio comunale di calcio, in piazza D’Armi, fino a visitare buona parte di Torino, passando nei bei viali alberati, che conducevano al centro della città.

Notai che Torino era facilmente percorribile a piedi e con i mezzi pubblici; la trovavo ordinata, con punti di riferimento notevoli e caratteristici, come monumenti, piazze, palazzi monumentali, caserme bene in vista e, come una meravigliosa cornice, la collina. Insomma, la trovai di facile esplorazione.

Tutte le mattine mia Madrina mi mandava a prendere il pane ed il latte nei negozi del vicinato, raccomandandomi di non perdermi; ero orgoglioso di sentirmi utile, di poter dare una mano alle faccende domestiche, in attesa di trovare un lavoro. Avevo 17 anni e stavo appena cominciando le mie peregrinazioni di emigrante.

  1. La mia prima assunzione al lavoro

Da via Barletta, i miei zii si trasferirono in via Caprera 4. In seguito, cominciai a lavorare in un cantiere edile diretto dal geometra Picolis, in qualità di calcinaio, con tanto di qualifica, libretto di lavoro e assicurazione. In un secondo tempo venni assunto dall’impresa Bottoli, dove mi trovai a disagio e meno remunerato; per cui mi licenziai e ritornai dal geometra Picolis.

Nei pressi della nuova abitazione degli zii, vi era la cappella della Guardia di Finanza. Il tenente cappellano mi chiese di procurargli delle tavole idonee per predisporre un palchetto dove sistemare il presepio della caserma. Io sapevo che nel cantiere c’erano delle sotto misure non ancora usate e chiesi all’impresario se poteva prestarmele per fare un bel presepio nella cappella. Egli acconsentì e, con un mezzo della Guardia di Finanza, caricammo il legname occorrente.

Mio zio, che ricopriva il grado di maresciallo capo della Guardia di finanza, abitava in una villa con un bel giardino, dove mi dilettavo a seminare dei prodotti orticoli, che mai riuscii a raccogliere, perché seminavo fuori stagione. Ma un giorno, mentre lavoravo con la vanga, trovai una grossa pistola, che, anticamente, i finanzieri attaccavano alla sella del cavallo, in un apposito occhiello fissato anteriormente, di modo che fosse pronta per un’eventuale necessità. Questa pistola era a tamburo, e mio zio l’appese al muro della camera da pranzo, in bella vista.

Nell’anno stesso in cui allestimmo il presepio nella caserma della Guardia di finanza, su consiglio di mio zio, feci domanda e fui assunto alla SNIA Viscosa, in qualità di addetto alle presse. Iniziavo, così, una nuova vita di lavoro e di remunerazione. Trovai una piccola abitazione a Venaria e mi ci trasferii, riuscendo a realizzare quello che avevo sempre desiderato: il lavoro, l’indipendenza economica e la libertà individuale, senza dipendere da nessuno. Avevo appena compiuto 19 anni.

 

  1. L’addio a mio nonno

 

Ero a Varese, in visita di cortesia da mia zia Giovanna, quando giunse la notizia che mio nonno ci aveva lasciati. Telefonai subito a mia Madrina a Torino, avvisandola che dovevo recarmi in paese per vedere per l’ultima volta mio nonno. Decise di venire anche lei. C’imbarcammo da Genova e, dopo la traversata notturna, arrivati a Porto Torres, col treno giungemmo a Ploaghe. Arrivati a Chiaramonti, visitammo la salma di mio nonno e assistemmo alla sua inumazione nel Camposanto del paese.

Era la prima volta in vita mia che vedevo un defunto. Provai una grande emozione e una forte nostalgia per quel nonno che, nonostante tutto, amavo intensamente.

Avvertii i famigliari che dovevo raggiungere presto Torino per riprendere il lavoro e lasciai il  cimitero, nonostante mio zio Giovanni mi implorasse di rimanere ancora qualche giorno. Ma io non potevo restare e andai via lasciandoli tutti nel dolore.

A un secondo funerale partecipai nel 1960. Era proprio quello di mio zio Giovanni, che così affettuosamente mi aveva implorato di restare ancora qualche giorno dopo i funerali di nonno. Vi partecipai con affetto ed emozione, perché zio Giovanni era un uomo mite, affettuoso e mi aveva sempre dato fiducia.

Quello che ho sempre notato, fin da bambino, nei confronti dei miei cari, era la profonda stima che nutrivo per loro, ritenendoli persone rispettabili e rispettose, oltre che affettuose nei miei confronti.

  1. Un primogenito mancato

Sapevo  soltanto che mia madre non trattava bene col patrigno, ma non ne conoscevo la causa: né lei né altri in famiglia me ne avevano parlato. Io d’altra parte ero convinto d’essere il primogenito. Un giorno però, un calzolaio noto in paese, ebbe a raccontarmi che mentre mia nonna materna s’intratteneva a parlare per la strada con lui,  vide arrivare il secondo marito, cioè, il patrigno di mia madre, tutto agitato e armato di pistola. Il calzolaio capì al volo che l’uomo voleva fare una strage e invitò mia nonna ad entrare in casa e chiuse la porta. L’uomo giunse sempre agitato e, vista la porta chiusa, scaricò tutti colpi che erano nel caricatore sulla porta e andò via sicuro d’aver compiuto un duplice omicidio. L’uomo volendo poteva scappare e darsi alla latitanza, invece sentì il desiderio di sfogarsi con la figliastra e si recò da lei ormai madre al quarto mese di gravidanza del vero primogenito. Entrò in casa sempre agitato e gridò:

 -Mariedda Mariedda; oggi ho ammazzato tua mamma insieme al calzolaio (…).-

Mia madre, a sentire dire che le era stata uccisa la madre, si spaventò, quasi svenne, e perse il primogenito che attendeva. Il calzolaio mi raccontò il fatto davanti ad altre persone quando, emigrato ormai da dieci anni, tornai in paese a visitare i mie parenti. Mi avvicinavo ai vent’anni  e siccome mettevo in dubbio il racconto, il calzolaio mi fece notare i buchi delle numerose pallotole nella porta, appena coperte dallo stucco verniciata sul verde. All’improvviso e da un estraneo appresi così di non essere stato il primogenito, che mia madre era stata terrorizzata da quello sciagurato patrigno, che spesse volte diceva di non voler essere sepolta nella tomba di famiglia, accanto del patrigno. L’assassinio mancato, nonostante si fosse salvato grazie alla destrezza del calzolaio, che gli aveva impedito  di compiere un duplice omicidio, fu, a sua volta, eliminato dodici anni dopo da ignoti, al rientro nel suo casolare di campagna. La mia povera nonna, rimasta vedova del secondo marito, non pensò più a risposarsi, ma allevò come poté i due figli natigli dal marito ribaldo. La sfortuna non era stata dalla sua parte dal momento che, purtroppo, le era stato ucciso anche il primo marito. Tanto mia madre quanto mia nonna non vollero darmi queste notizie, per evitarmi un grande dolore e sicuramente con questo segreto se ne sarebbe andata nella tomba.
Mia nonna visse compiendo il suo dovere di madre, affrontando grandi sacrifici, e si spense serenamente al suo novantunesimo anno di età.

Parlo ancora di mia Mamma:

Di mia mamma, sapevo di avere dei dissapori col secondo marito di sua mamma, ma non sapevo la motivazione; finché no ho saputo di un avvenimento mostruoso commesso dalla tale persona, secondo marito di nonna, nel 1937 mia madre essendo in attesa del primo erede fini per abortire a causa  di uno spavento causato da quest’uomo violento. Rientrando in casa vide la moglie dialogare per strada col calzolaio di fronte, ove di solito era il suo posto di lavoro, fuori casa. Il calzolaio visto arrivare suo marito informò la donna di rientrare dentro casa sua, e mettersi al riparo, in quel frattempo anche lui pensò di mettersi al sicuro chiudendo il minaccioso personaggio fuori. Però l’uomo armato di pistola decise di usarla scaricando tutto il caricatore contro la porta del calzolaio. Il personaggio credendo di aver fatto fuori i due, si recò subito dalla figlia informandola che aveva freddato sua mamma e il complice calzolaio, con semplici parole, “Mariedda oggi ho ammazzato tua mamma, e il calzolaio (…..). Mia madre essendo in avanzato tempo di gravidanza, di mettere al mondo il neonato, si sentì male che perse la creatura, che aveva in grembo. Infatti negli anni 1967 tramite il calzolaio in presenza di altri mi informò del terribile fatto, e mi fece vedere le impronte delle pallottole nella porta verniciata di color verdastro. All’ora mi venne in mente quando mia mamma avvertiva di non essere deposta nella tomba di famiglia dopo morta. Questo personaggio a questo punto era da richiudere nelle patrie galere o internato nella casa criminale, a mio avviso. Io di tutto questo non ne ho mai fatto sapere a nessuno, ma mi pesa nell’avvenire non sfogarmi e farlo presente a delle persone di buon senso. Certo in seguito anche lui ha avuto il suo castigo di essere ammazzato nel 24 marzo 1949, al rientro di casa in campagna, dove viveva con sua moglie e due figli avuti con lui, uno maschio e femmina, Vittorio e Francesca.

Mia mamma la ritengo una non tanto prestigiosa madre, di non aver mai parlato a noi figli del caso.

Comunque pace all’anima sua la perdono lo stesso, ma con franchezza dare certe informazioni ai figli, forse servirebbe. A questo punto ho saputo di un simile avvenimento capitato al figlio Vittorio, che il proprio figlio ha ripetuto lo stesso scenario del nonno. Sono ho no personaggi pericolosi questi? Lascio a voi giudicare. Il figlio si è rifugiato in Corsica per non essere percorso dal padre. Altra combinazione il figlio della sorella Francesca, ha scannato una povera donna mentre dormiva nel suo letto, cose dell’altro mondo, avere dei parenti così violenti e criminali. La mamma di questo che sarebbe una mia zia, quando mi vedeva in paese mi invitava a casa sua in campagna, dicendomi vieni a trovarmi in campagna. Io le rispondevo si zia, vengo a trovarla quando passa il fuoco e disifetta la sua casa. Mi raccontava di possedere milioni di €, e miliardi di lire, non ho mai messo piede nella sua casa anche se lei insistesse a sua volta. Da poco è deceduta e le auguro che il Signore la conservi, bene e sia a debbita distanza nei miei confronti. Penso di non essere stato tanto crudele nei confronti di questa zia, zio, e suo padre, e i parenti mi perdonino, ma io son fatto così. Nella vita ho amato il mio paese tant’è vero che tutti gli anni mi reco a passare le ferie estive, ma non tollero le persone violente che, credono di spuntarla con la violenza. In pratica amo le persone miti e che, non fanno del male a nessuno, rispettando i dieci comandamenti del Nostro Signore Gesù Cristo.

61. Muore mio cuginoTommaso Spanu

Nome d’arte Tom Spanu, l’artista chiaramontese delle pipe d’erica “Tom Spanu (1.944-2.015)”

Il 26 agosto se n’è andato prematuramente il grande Tommaso Spanu, artigiano e artista delle pipe d’erica, originario della Gallura che fu già chiaramontese. Sentiamo l’esigenza di riprendere e ripubblicare un articolo che pubblicammo su accademiasarda l’11 luglio 2.011 dopo una visita al fratello Augusto nel laboratorio dove si preparano le basi per fabbricare le pipe d’erica e dove per tanto tempo vi lavorò col fratello anche Tom che vi giungeva periodicamente per acquistare i pezzi d’erica pronti per la lavorazione. Porgiamo ai fratelli di Augusto e Franco la più calorosa vicinanza.

“Nei pressi della chiesa di San Giuseppe de su Sassu, piccola enclave di quello che fu il territorio di Chiaramonti, ceduto al neonato comune di Erula (13 Kmq di monti e colline folte di boschi e di pascoli) vivono e lavorano i due fratelli Spanu, Franco e Augusto. Il primo segue l’arte di fabbricare coltelli, il secondo prepara la materia prima per il fratello Tommaso che dirige la fabbrica e la rivendita a livello nazionale e internazionale in Sassari. Tre fratelli e tre artisti si può dire a due passi da Chiaramonti e da Erula. Rinviando a parlare di Franco in altra occasione, mi soffermerò a pochi cenni su Augusto e Tommaso, i due fratelli impegnati nella fabbricazione delle pipe.

I due fratelli, appena adolescenti, partirono per Varese e cominciarono a 14 anni a frequentare la bottega artigiana di un fabbricante varesino, sviluppando in breve tempo un’abilità d’eccezione nella lavorazione della pipe, le cui radiche provenivano da diverse località. Un giorno, divenuti giovanotti, s’informarono sui luoghi di provenienza delle radiche e scoprirono con meraviglia ed orgoglio che le migliori provenivano dalla Sardegna e che la lora Gallura era ricca di materia prima.
Rifletterono per un pò e poi decisero di lasciare la Lombardia per tornare nell’isola e impiantare ivi una fabbrica di pipe. Si divisero i compiti per abilità e così il primo si dedicò alla preparazione della radica che va ricercata, con le dovute autorizzazioni, sradicata, sbozzata, e, quindi ammassata al buio e innaffiata per parecchio tempo. Quando quest’operazione è portata a termine nei tempi programmati, va ripulita e quindi fatta bollire in acqua per un certo tempo e quindi rimessa in un apposito magazzino per la stagionatura, ripresa e preparata in apposite dimensioni e dopo anni utilizzata per essere ridotta a pipe con svariati trattamenti. Il processo di preparazione non è semplice, la mia descrizione è sulle generali. Testimoni di questo lavoro sono due alberi millenari di olivastro, presumibilmente di tremila anni, che indifferenti assistono alla storia che passa alla loro ombra. Tanto Augusto quanto Tommaso sono abili nella lavorazione, ma non potevano entrambi dedicarsi ad una fase del ciclo, per cui il primo si dedica al primo e il secondo alla fabbricazione delle pipe. L’abilità di Augusto nella lavorazione del legno è encomiabile e la sua bottega offre tante piccole sorprese. La crisi economica ha toccato anche gli artigiani, ma pare che le banche tirino ad alzare gli interessi e la Regione Autonoma della Sardegna poco si curi di questi artisti artigiani con contributi speciali in questo tempo in cui l’economia è in crisi. Non so fino a che punto i giovani dei due paesi contigui (Erula e Chiaramonti) guardino allo spirito imprenditoriale di questi pionieri che meriterebbero d’essere conosciuti e apprezzati e sovvenzionati dai tanti progetti e progettini che predisporrà il Gallura – Anglona per rilanciare le zone rurali.

Alla valorizzazione delle macchie di mirto, di elicriso e di tante essenze della macchia mediterranea ci penseranno come al solito quelli che verranno da fuori, visto che i nostri giovani diplomati o laureati o senza un lungo corso di studi stentano ad accendere la fantasia per valorizzare quanto il territorio offre e a lanciarsi in avventure imprenditoriali come i fratelli Spanu de su Sassu all’ombra della chiesetta di San Giuseppe e di due olivastri plurimillenari. A questo punto tengo presentare un breve profilo di Franco Spanu, artista in coltelli.”In pratica una famiglia di artisti da prendere in considerazione.

  1. Mia moglie Antonietta Seu, nota Tetta.

Prima della pubblicazione di questo libro ho avuto la sfortuna di perdere la compagna della mia vita: mia moglie Maria Antonietta Seu.

Chiaramontese come me, aveva solcato il mare per il Piemonte a 14 anni con l’intera famiglia (1.958) e aveva raggiunto Pinerolo dove aveva potuto lavorare nell’industria per 15 anni. Io ebbi modo di conoscerla da ragazzo in paese, ma la conoscenza più profonda ebbi a farla a Pinerolo.  Ero amico della famiglia e di tanto in tanto mi recavo a salutare i genitori, ed è in questo contesto che potei parlarle e conoscerla al punto che me ne innamorai. Non tardai a chiederla in sposa ai genitori secondo l’uso di paese e così a  24 anni lei e ventinove io ci sposammo il 29 giugno del 1969 nel Santuario Madonna della Grazie a San Maurizio di Pinerolo.

Da lei ebbi due figli maschi, Marco e Claudio, rispettivamente nel 1971 e nel 1980.

Dopo la nascita del primo figlio lasciò il lavoro di fabbrica  e così poté dedicarsi alla casa e occuparsi anche della parrocchia soprattutto nel coro parrocchiale.

 Grazie a questo entrammo come coppia nella comunità parrocchiale dove lei insieme alle altre pie donne dava una mano al parroco sia nel catechismo sia nel coro parrocchiale, mentre io ero sempre disponibile quando c’erano interventi artigianali da fare nella chiesa dove frequentavo il gruppo del Vangelo Lection Divina.

La vita di mia moglie fu contrassegnata dall’impegno per i figli e per me, per la casa e per la comunità parrocchiale dove ad un certo punto  man mano che i figli crescevano poté dedicarsi anche col gruppo amicizia, a soccorrere i bisognosi e gli ammalati della comunità.

Durante l’anno oltre alle gite parrocchiali, con i nostri figli, salivamo in montagna. Io però, data la mia passione per la caccia, e la necessità di respirare aria buona, molte domeniche le dedicavo con altri amici  alle lunghe camminate per i sentieri del Piemonte e talvolta sconfinando in Lombardia.

La donna era molto paziente, ma ordinata e giustamente pretendeva un certo ordine nelle cose. Sempre con grande affetto e sincerità. Poiché la sua famiglia era estesa, spesso ci s’incontrava per passare le festività insieme.

Posso ben dire che per me che non avevo parenti a Pinerolo la sua famiglia è stata la mia seconda famiglia dopo l’addio al paese.

D’estate tornavamo in Sardegna sia per goderci il parentado sia per dare l’opportunità ai figli di respirare lo iodio marino nelle spiagge della Romangia.

Nel frattempo il figlio maggiore Marco si è sposato e ci ha dato la gioia di un nipote che lei adorava.

Gli anni sono trascorsi velocemente e senza rendercene conto ci siamo avvicinati all’anzianità, sperando che fosse lunga e gradevole. Grazie a Dio, a parte un intervento serio per me, il resto sembrava andare meravigliosamente.
Certo mia moglie non stava a pensare troppo alla sua salute e ai vari dolori e così inaspettatamente abbiamo scoperto che il male del secolo non l’aveva risparmiata e in breve tempo ad appena 72 anni, prematuramente, se n’è andata.

Un ritrovarsi uniti, legati ad un lembo di terra e di mare. Un mormorio sommesso di marmocchi sulla spiaggia, “grande sei stata per me”, un chinarsi sui capolavori effimeri di sabbia per i piccoli, Marco e Claudio, nostri figli, un lasciarsi trascinare dai ricordi, una nostalgia struggente per gli anni trascorsi che si ritrovano nella salsedine marina. Scompaiono preoccupazioni e pene col ricupero dell’umano. Tu, madre, un tempo, accostandoti alle onde risenti le tenere voci dei tuoi aquilotti ormai volati lontano, sulle dune di sabbia, con fanciulle dalle chiome dorate e dalla pelle profumata di giovinezza. Si scambiano baci e sogni. Tu tacita ti lasci bagnare dalle onde con una stretta di cuore. Troppo in fretta sono cresciuti. Non inseguire fantasmi bruciati dal tempo. Tu padre, invano cerchi torri e castelli di sabbia che il mare ha cancellato. Potevi giocare di più, con loro, e no lo hai fatto: è inutile ora inseguire i sogni nei fondi marini. Leggi con me, non inseguire le lucciole. Vieni mia dolce compagna, amica, moglie, tenera amante, madre. Leggi anche tu. Quel tempo è salpato, stasera. Tornerà ad approdare la prossima estate come i nuovi gabbiani sull’isola, nostra dolce isola, che quest’anno 2016 ho lasciato, pensando al passato 2014, partendo solo e, addolorato. Mio padre, mia madre, mia moglie mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto.

Mostrami, Signore, la tua via, guidami sul retto cammino, perchè non mi tendano insidie.

-Questo accetto mio Signore!

Appendice documentaria

       INDICE

       Intestazione                                                  Pagine

00

  1. Mio bisnonno “Su Berchiddesu” 10
  2. Sos Renalzos e Santa Maria Maddalena 14
  3. La sorgente di Santa Giusta 16
  4. Tia Nigoletta di Silìcaru 18
  5. I Rapporti con i Madau 20
  6. Mio nonno domatore di puledri                          22
  7. Il maiale da ingrasso 23
  8. La parsimonia di mio nonno 28
  9. Fichi saporiti, ma duri da digerire 30
  10. Il circo a San Giovanni 34
  11. L’ industria di mia madre 36
  12. Un marchio di fuoco a vita 39
  13. Sas Pinettas de Chirralza 40
  14. Un’angheleddu in chelu 41
  15. I porcari figli di Frearzeddu e le bardane 42
  16. Assegnazione del maiale da ingrasso per la famiglia Frearzeddu                                    44
  17. Il furto dei capretti 46
  18. La cavalla baia 48
  19. Un sardo “svedese” 50
  20. Fantasmi di guerra: soldati amici e aerei nemici 52
  21. Pedru sa Radio 55
  22. Carbone a buon mercato per tutti 57
  23. Il nostro branco di buoi a pascolo abusivo 59
  24. Al posto delle caramelle promesse 61
  25. Il mondo rurale dei fanciulli 63
  26. L’upupa, sa culipùdida, fuggiasca 64
  27. Il picchio nero e verdone 65
  28. La rondine e il rondone 66
  29. L’astore 67
  30. Le sevizie contro un gatto impiccione 68
  31. Impiccagione ingiusta di una gattina 69
  32. Addio alla vita dei campi 71
  33. “I miei primi giorni di scuola Elementare” 74
  34. Cesto di ciliegie “la mia vita in paese” 79
  35. Bottega di alimentari 83
  36. Una casa piena di dolore, ma non maledetta 85
  37. La mia Cresima 87
  38. Il Bambino col pallone 89
  39. L’orgoglio di zio Martino 91
  40. Patti matrimoniali e verdura a buon mercato 93
  41. Una mia parente si sposa in seconde nozze 95
  42. I terreni di Conca de Ossu 97
  43. Semina di grano in tanca de Ide 99
  44. L’aia di grano. S’arzola 101
  45. Pietrineddu e Giuannicu 104
  46. Il cesso di Conca de Ossu 108
  47. Pietrineddu e l’asino 111
  48. La mia cavalla venduta a Chicco                      116
  49. Tiu Giuannemaria Salipa, camionista e socio di Billia Murza                                                                       116
  50. Affitto sedia in parrocchia 120
  51. Deposizione di Gesù Cristo inchiodato sulla Croce123
  52. “La trebbiatura” 126
  53. Riflessione Pasquetta Pinerolo 22/04/14          130
  54. La partenza per Torino “vita da migrante” 131
  55. La mia prima assunzione al lavoro 134
  56. L’addio a mio nonno 136
  57. Un primogenito mancato 137
  58. Muore mio cugino Tommaso Spanu,                      152
  59. Mia moglie Antonietta Seu, nota Tetta.                       155

Appendice intestazione

 Famiglia Scanu-Pinna-Murgia

Genitori: Padre Scanu Giovanni Maria nato a Berchidda (SS), madre Pinna Giovanna Maria nata a Florinas (SS).

Figli con unione (padre Scanu, madre Pinna):

  • -I° gemello: Estratto dal registro degli atti di nascita del (11/01/1873) Antonio Maria Chiaramonti (SS). “ Muru Pianedda,”
  • -I° gemello: Estratto dal registro degli atti di nascita del (11/01/1873) Giuseppe Chiaramonti (SS). Muru Pianeddu,
  • -II° gemello: Estratto dal registro degli atti di nascita del (13/11…/1875) Antonio Maria Chiaramonti (SS). via Lunga
  • -II° gemello: Estratto dal registro degli atti di nascita del (13/11/1875) Salvatore Chiaramonti (SS) . via Lunga
  • Estratto dal registro degli atti di nascita del (13/12/1877) Giovanni Maria Perfugas (ss). Campu D’ulumu,
  • Estratto dal registro degli atti di nascita del (12/03/1881) Giommaria Perfugas (ss). Mudditonalsu

-I° Parto              Municipio di Chiaramonti
Ufficio dello Stato Civile
Estratto dal registro degli atti di nascita  (Scanu Pinna Antonio Maria.)
L’anno milleottocento setantatre addi undici gennaio (11/01/1873) in Chiaramonti, provincia e circondario di Sassari, nella sala Municipale, ed alle ore tre e mezza di sera. D’inanzi a me Dottor Migaleddu Giommaria Sindaco ufficiale dello Stato Civile, è comparso Scanu Fresu Giommaria furono Salvatore e Stefanina, d’anni ventisei, braciante, nativo di Berchidda, ed in questa domiciliato, il quale nella qualità di padre mi ha presentato un bambino di sesso maschile, che dichiara essergli nato otto corrente mese ore sei di mattina dalla sua unione con Pinna / Sanna Giovanna Maria del vivente tutorio Francesco, e della fu Lucia, d’anni ventisei, donna di casa, seco lui domiciliata, e nella casa di abitazione posta in questo popolato, e via detta “ Muru Pianedda,” al quale figlio dichiara dargli il nome di Antonio Maria, lo stesso dichiarante ha soggiunto che il suddetto bambino è nato gemello con altro bambino, la cui nascita risulta dall’atto seguente. La presente dichiarazione viene fatta alla presenza di Malta Maunta Salvatore delli furono Matteo e Maria Caterina, d’anni ventotto agricoltore, e di Perinu Damiano Antonio Maria delli furono Lorenzo e Giorgia, d’anni cinquanta

-I° Parto                     Municipio di Chiaramonti
Ufficio dello Stato Civile

Estratto dal registro degli atti di nascita dell’anno 11/01/1873 (Scanu Pinna Giuseppe.)
L’anno milleottocento settantatré, addi undici gennaio in Chiaramonti, provincia e circondario di Sassari, nella sala Municipale ed alle ore tre e tre quarti di sera, dinanzi a me Dottor Migaleddu Giovanni Maria Sindaco Ufficiale dello stato Civile, è comparso Scanu Fresu Giommaria furono Salvatore e Stefanina, ventisei,”(anni 26)” braciante, nativo di Berchidda, ed in questa domiciliato, il quale nella qualità di padre mi ha presentato un bambino di sesso maschile che dichiara essergli nato il giorno otto corrente mese, alle ore sei e mezza di mattina dalla sua unione con Pinna / Sanna Giovanna Maria del vivente Antonio Francesco e della fu Lucia d’anni ventisei donna di casa, se con lui convivente, e nella casa d’abitazione posta in questo popolato e via detta Muru Pianeddu, al qual figlio dichiara darle il nome di Giuseppe. Lo stesso dichiarante ha riferito che il detto bambino menzionato nel precedente processo verbale. La presente dichiarazione viene fatta alla presenza di Malta Manunta Salvatore, delli furono Matteo e Maria Caterina d’anni

-II° Parto      Comune di Chiaramonti   Cat. 12. N° 12
Provincia di Sassari circondario di Sassari
Estratto dal registro degli atti di nascita     13/11/1875

di __Scanu Pinna Antonio Maria__
Numero d’ordine__ 64__
L’anno milleottocento __settantacinque,__ addi __tredici __di __novembre__
a ore __meridiane __cinque__e minuti__ cinque __ nella casa Comunale
Avanti di me Migaleddu Pietro Vicenzo Assessore anziano facente funzioni di Sindaco ed
Ufficiale dello Stato del Comune di Chiaramonti
è comparso Scanu Fresi Giommaria di anni ventotto, agricoltore domiciliato
in __Chiaramonti__Il quale mi ha dichiarato che alle ore __ __ meridiane __nove__e
minuti__quindici_ ___ del di __ nove __ del __presente__ mese nella casa posta in
__ via Lunga ___ al numero____ ___ , da __Pinna Sanna Giovanna Maria___
__ donna di casa, sua unione e seco lui domiciliata__ è nato un bambino di sesso__ maschile__ che __egli__ mi presenta, e a cui da____ il nome di  Antonio Maria

-VI° Parto    Comune di Chiaramonti   Cat. 12. N° 12
Provincia di Sassari circondario di Sassari
Estratto dal registro degli atti di nascita     13/11/1875

di __Scanu Pinna Salvatore__
Numero d’ordine__ 63__
L’anno milleottocento __settantacinque,__ addì __tredici __di __novembre__
a ore __meridiane __cinque__e minuti__ __ nella casa Comunale
Avanti di me Migaleddu Pietro Vincenzo Assessore anziano facente funzioni di Sindaco ed
Ufficiale dello Stato del Comune di Chiaramonti
è comparso Scanu Fresi Giommaria di anni ventotto, agricoltore domiciliato
in __Chiaramonti__Il quale mi ha dichiarato che alle ore __ __ meridiane __nove__e
minuti___ ___ del di __ nove __ del __presente__ mese nella casa posta in
__ via Lunga ___ al numero____ ___ , da __Pinna Sanna Giovanna Maria___
__ donna di casa, sua unione e esco lui convivente__ è nato un bambino di sesso__ maschile__ che __egli__ mi presenta, e a cui da____ il nome di  Salvatore

-V° Parto      Ufficio dello stato civile del   Cat. 12. N° 12
Comune di __Perfugas__
Provincia di __Sassari __circondario di__ Sassari__
Copia dell’atto di nascita 13/12/1877

Registro atti dell’anno __1877__ N° d’ordine __81__
L’anno milleottocento __settantasette,__ addi __tredici __di __dicembre,__
a ore __anti__meridiane __tre__e minuti__ __ nella casa Comunale
Avanti di me__ Giommaria Campus, segretario delegato con atto nove
agosto milleottocento settantasei debitamente approvato
Ufficiale dello Stato del Comune di __Perfugas__
è comparso__ Giommaria Scanu,__ di anni__ trenta,__ pastore __domiciliato
in __Perfugas__Il quale mi ha dichiarato che alle ore __ __ meridiane __cinque__e
minuti___ quaranta, ___ del di __ otto __ del __corrente__ mese, nella casa posta in
__ Campu D’ulumu,___ al numero____ ___ , da __donna___
__non maritata, non parente ne affine con lui nei gradi__
__che ostano al riconoscimento____________________
è nato un bambino di sesso__ maschile__ che __egli__ mi presenta, e a cui da____ il nome di   Giovanni Maria,____________________________________________________
A quanto sopra e a quest’atto sono stati quali testimoni__Serra e Gia: Domenico,__
__ ___di anni __cinquantadue,* sacrestano, e__ Oggiano Francesco__
di anni__Ventidue, * agricoltore,__entrambi residenti in questo Comune___
__Letto il presente atto a tutti gli intervenuti so scrive meco il solo teste Oggiano non però gli altri dirsi analfabeti.___
_______________Firma Oggiano Francesco_________________

-VI° Parto    Ufficio dello stato civile del   Cat. 12. N° 12
Comune di __Perfugas__
Provincia di __Sassari __circondario di__ Sassari__
Copia dell’atto di nascita 12/03/1881

Registro atti dell’anno __1881__ N° d’ordine __19__
L’anno milleottocento __0ttantauno,__ addì __dodici __di __marzo__
a ore __anti__meridiane __dieci__e minuti__ __ nella casa Comunale
Avanti di me__ Giommaria Campus, segretario delegato con atto nove
agosto milleottocento settantasei debitamente approvato
Ufficiale dello Stato del Comune di __Perfugas__
è comparso__ Scanu Giommaria,__ di anni__ trenta,__ agricoltore __domiciliato
in __Chiaramonti__Il quale mi ha dichiarato che alle ore __ __ meridiane __quattro__e
minuti___ ___ del di __ otto __ del __corrente__ mese, nella casa posta in
__ Mudditonalsu ___ al numero____ ___ , da __donna___
__non maritata, non parente ne affine con lui nei gradi__
__che ostano al riconoscimento____________________
è nato un bambino di sesso__ maschile__ che __egli__ mi presenta, e a cui da____ il nome di Giommaria,____________________________________________________
A quanto sopra e a quest’atto sono stati quali testimoni__Serra e Giau Domenico,__
__ ___di anni __cinquantaquattro sacrestano, e__ Campus Pietro __
di anni__Ventinove, * agricoltore,__entrambi residenti in questo Comune___
__Letto il presente atto a tutti gli intervenuti non sottoscrive nessuno di essi perché analfabeti___
_______________Firma Giommaria Campus_________________

Fine

4° di copertina

Antonio Maria Murgia è nato a Chiaramonti il 24 dicembre 1938 da Maria Spanu e da Giovanni Maria sopranominato Berchiddesu per l’origine del bisnonno che veniva da Berchidda. Trascorse la sua infanzia nel mondo contadino nell’agro di chiaramonti, a otto anni si trasferirono definitivamente in paese e il fanciullo frequentò l’intero corso di scuola elementare. Finito il corso fu avviato al mestiere di falegname presso uno dei più buoni artigiani al legno, Tettino Sechi. A 17 anni, impossibilitato mettere una falegnameria partì a Torino dove passo dopo passo riuscì ad essere assunto presso la Fata, una multinazionale della Finmecanica da si congedò fin al pensionamento. In queste memorie, lo scrittore, percorre le periformi della sua vita dall’infanzia alla conduzione della famiglia (1938-1980).

 

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