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La latinizzazione linguistica della Sardegna di Massimo Pittau

 Massimo PittauLa latinizzazione linguistica della Barbagia costituisce una autentica grande aporia, ossia un problema che non soltanto si configura come di difficile soluzione, ma addirittura si presenta come sconcertante nella sola formulazione dei suoi termini. Che sono i seguenti: la Barbagia, nel suo più ampio significato di intera zona montana della Sardegna centrale, durante i 7 secoli della dominazione romana sull’Isola si è sempre caratterizzata come la “zona resistenziale”, quella che non solo si è sempre opposta alla penetrazione militare e politica dei Romani, ma addirittura spesso li ha attaccati nelle zone dei bassopiani e delle pianure, anche a danno di popolazioni sarde ormai pacificamente soggette ai dominatori. A questo fatto ampiamente documentato in termini storiografici si oppone in maniera evidente e perfino vistosa la circostanza che i Barbaricini hanno finito col farsi totalmente e radicalmente latinizzare sul piano linguistico, tanto che hanno conservato fino al presente un parlare di indubitabile matrice latina; non solo, ma hanno anche conservato un parlare che risulta il più fedele o il più strettamente connesso alla madre lingua latina non soltanto rispetto a tutti gli altri parlari sardi, ma addirittura rispetto a tutte le altre parlate neolatine o romanze che sono derivate dalla lingua latina.

La aporia dunque è questa: da una parte i Barbaricini sono stati fra i più fieri ed accaniti oppositori al dominio romano, dall’altra si sono lasciati latinizzare completamente nel linguaggio ed inoltre in maniera e con modalità che non trovano uguale riscontro in nessun’altra zona dell’antico impero romano. Invece la ragione vorrebbe che per il grande l’odio che provavano nei confronti del feroce nemico, i Barbaricini respingessero con decisione la sua lingua e invece continuassero ad usare quella autoctona, protosarda o – come ormai preferisco chiamarla – “sardiana”. Proprio come hanno invece fatto i Baschi: anch’essi fieri oppositori al dominio romano, ma abbarbicati non soltanto alle loro montagne, ma anche alla loro lingua, che hanno conservato fino al presente. Della loro lingua sardiana invece i Barbaricini hanno conservato veramente poco: qualche migliaio di nomi di luogo o toponimi e circa 300 nomi comuni od appellativi, in massima parte nomi di piante(1).

Sembra strano, ma pure è certo: questa aporia è sfuggita al Maestro della linguistica sarda, Max Leopold Wagner, ed inoltre ai numerosi linguisti che si sono messi sulla sua scia, Gino Bottiglioni, Benvenuto Terracini, Vittorio Bertoldi, Gian Domenico Serra, ecc. Questa aporia è sfuggita anche al grande storico della Sardegna antica, Ettore Pais ed inoltre agli altri storici che, pure loro, si sono messi sulla sua scia, Piero Meloni, Attilio Mastino, Marcella Bonello, Raimondo Zucca, Giampiero Pianu, Paola Ruggeri, ecc.

Per quanto mi risulta, un solo studioso moderno – d’altronde di scarsissima rilevanza scientifica – ha intravisto la detta aporia ed ha perfino proposto una sua soluzione per essa: «Solo le necessità della guerra potevano indurre quei montanari ad imparare la lingua latina»(2). Ma io avevo ironizzato su questa ipotesi di soluzione, scrivendo: «Dunque i nostri antenati andavano all’attacco delle legioni e dei presìdi romani non prima di aver seguito corsi di lingua latina (….) e non senza portarsi dietro in sa bértula il manuale di conversazione iliense-latino….»(3).

Ritengo pertanto di non sbagliare nel dire che il primo studioso che ha visto la aporia in questione nella sua grande difficoltà e che ha tentato di risolverla è il sottoscritto; sicuramente spinto a ciò da due fatti differenti e concomintanti: primo perché io sono barbaricino di Nùoro, che è la capitale della grande Barbagia, secondo perché ho indirizzato la mia attenzione di studioso appunto al dialetto della mia città natale. E ciò è avvenuto proprio all’inizio della mia carriera di linguista, nei miei primi studi, e più precisamente ad iniziare da un mio articolo del 1951, pubblicato nella rivista di Sassari, Ichnusa (num. 8), intitolato «L’arcaicità dei dialetti sardi». Senonché da allora è avvenuto che io sia ritornato sull’argomento parecchie altre volte; e ciò evidentemente è accaduto perché non mi sentivo del tutto soddisfatto della soluzione da me prospettata di volta in volta per un problema, che col passare del tempo mi si allargava, configurandosi sempre più complesso e difficile.

Alla fine della mia carriera di linguista e precisamente ad 81 anni compiuti ritorno ancora una volta sull’argomento, con la speranza e la fiducia di aver trovato finalmente la soluzione per la nostra aporia.

I DATI STORIOGRAFICI

È cosa abbastanza nota che la dominazione romana in Sardegna ebbe inizio l’anno 238 a. C., cioè nell’intervallo tra la prima e la seconda guerra punica. C’è ovviamente da ritenere che la conquista romana dell’Isola non sia stata immediata né totale, bensì sia cominciata con la conquista delle città costiere e delle zone circostanti, mentre la conquista delle altre zone dell’Isola e soprattutto del centro montano avrà proceduto piuttosto lentamente.

Una prima importante notizia abbiamo rispetto al centro montano. Una grossa spedizione punitiva contro i ribelli e fastidiosi Iliesi, chiamati in seguito Barbaricini, fu promossa dall’esercito romano, guidato da Tiberio Sempronio Gracco, negli anni 177-176 a. C. In quella occasione, secondo la testimonianza di Livio, furono uccisi 27 mila Iliesi (12 mila nel 177 e 15 mila nel 176). È assai probabile che quelle cifre siano “gonfiate”, ma io riterrei non di molto, per il motivo che i duci romani, sempre smaniosi di ottenere dal Senato l’ambitissimo onore del “trionfo”, dovevano stare molto attenti a non correre il rischio di essere smentiti nelle loro smargiassate da loro ufficiali o sottufficiali, eventualmente ostili nel proprio intimo al loro comandante.

Orbene, se si considera che, secondo gli storici moderni, la Sardegna intera aveva in epoca romana appena 1/5 dei suoi abitanti attuali (cioè circa 300 mila di contro agli attuali 1.600.000), per cui la Barbagia (che comprende fondamentalmente la provincia di Nùoro) poteva avere allora appena 55 mila abitanti (1/5 dei suoi attuali 280 mila), si deve necessariamente concludere che l’uccisione in una sola guerra di repressione della metà degli abitanti di una zona, per di più tutti maschi e adulti, non può configurarsi altro che come un vero e proprio genocidio(4).

Che le repressioni attuate dai Romani nel centro montano della Sardegna abbiano avuto appunto il carattere del genocidio è dimostrato non soltanto dalle suddette cifre relative al numero degli Iliesi uccisi, ma è confermato anche da due notizie di storici antichi, alle quali gli storici moderni – a mio modesto avviso – non hanno prestato tutta la necessaria attenzione.

Narra Strabone (V 2,7) che i duci romani ricorrevano ad alcuni stratagemmi per combattere i sempre ribelli Iliesi: «Avendo osservato che i Barbari hanno l’usanza di celebrare feste religiose di più giorni dopo i loro colpi di mano, essi approfittano di questa occasione per attaccarli e per catturarne un gran numero». Ed io ho già avuto occasione e modo di giudicare come il colmo della ferocia, della irreligiosità e soprattutto della vigliaccheria, l’azione perpetrata dagli “eroici” soldati romani a danno degli Iliesi nelle loro feste religiose, quando questi erano festanti, disarmati, rilassati, impediti dalle grandi mangiate e bevute ed ostacolati dalla presenza di donne, vecchi e bambini. Per il vero Strabone o i suoi informatori tentano di scagionare i Romani dall’evidente marchio di vigliaccheria, dicendo che i Barbari celebravano le feste «dopo le loro razzie», ma non c’è da credergli, per il fatto che di certo tra gli Iliesi le feste religiose avranno avuto una precisa periodicità annuale o semestrale, proprio come presso tutti gli altri popoli(5).

E non è neppure difficile individuare i centri di culto religioso nei quali, durante le loro feste, gli Iliesi o Barbaricini avranno subìto le “eroiche” aggressioni da parte dei “prodi” soldati romani: c’è da pensare a quei santuari di campagna, che ora sono cristiani, ma di certo in precedenza erano pagani, che sono san Costantino di Sedilo, Monte Gonare di Orani e Sarule, san Cosimo di Mamoiada, sa Itria di Gavoi, su Meráculu e s’Annossata di Bitti, san Francesco di Lula, san Mauro di Sorgono, ecc.

Un altro stratagemma cui ricorsero i comandanti romani per combattere i perenni ribelli Barbaricini fu l’uso di cani, appositamente importati nell’isola, addestrati per la ricerca di individui nascosti. Ciò fu fatto nel 231 a. C., da parte del console M. Pomponio Matho. La notizia di questo nuovo stratagemma ha fino al presente fatto sorridere soprattutto noi Barbaricini odierni, quelli che abbiamo constatato che i cani-poliziotto importati di recente in Sardegna dalle forze dell’ordine non hanno purtroppo fatto ritrovare un solo bandito e tanto meno un solo individuo sequestrato. Ma abbiamo sbagliato in questo nostro atteggiamento di implicita irrisione: per il fatto che i cani importati in Sardegna dai Romani non servivano per scovare un solo ribelle nascosto nella fitta vegetazione o in qualche caverna, e neppure un gruppo sporadico di ribelli, ma serviva per scovare intere popolazioni di villaggi, che avevano trovato rifugio in ampie grotte (già il Pais aveva pensato alla dolina di Tiscali, tra Oliena e Dorgali); ed una volta rintracciate queste popolazioni di interi villaggi nei loro rifugi, iniziava la carneficina effettuata dagli “eroici” soldati romani. Nei tempi antichi, prima della diffusione del cristianesimo, i procedimenti che venivano attuati contro intere popolazioni nemiche vinte erano tali da poter dare lezione perfino alle SS tedesche dell’ultima guerra. Sia sufficiente ricordare che gli storici antichi, greci e romani, di tanto in tanto danno notizia, senza l’ombra di alcuna recriminazione o pietà, del fatto che intere popolazioni di città conquistate dagli eserciti venivano passate a fil di spada….

* * *

Quale sarà stata la porta di ingresso alla Barbagia per le truppe romane destinate ad affrontare i sempre ribelli Barbaricini? Non c’è alcuna possibilità di dubbio: sarà stata la Baronia di Orosei, col suo porto fluviale di Fanum Carisi e con la corrispondente vallata del fiume Cedrino ed inoltre con le sue appendici di Siniscola e di Posada.

Di certo i Romani ebbero interesse a sbarcare ed a prendere possesso della vallata inferiore del Cedrino ed anche di quella contigua di Siniscola in primo luogo perché quelli erano i siti più vicini ad Ostia ed inoltre i più comodi per le spedizioni militari che essi intendevano effettuare contro i Barbaricini. Si intravede dunque chiaramente che queste partivano appunto dalla Baronia di Orosei, lungo la attigua vallata del fiume Cedrino, nella direzione di Lula, Bitti, Orune, Oliena, Nùoro, Orgosolo, Mamoiada, ecc.

A questo proposito è opportuno ed utile ricordare un episodio abbastanza noto nella storia della Sardegna antica: nell’anno 19 dopo Cristo, a seguito di una delibera del Senato romano, l’imperatore Tiberio mandò in Sardegna 4 mila liberti che professavano la religione giudaica, col duplice intento sia di sbarazzare Roma da quei pericolosi fanatici, sia di reprimere gli atti di ribellione dei Sardi o – nella mentalità legalista dei dominatori romani – gli atti di banditismo e precisamente le razzie (coercendis latrociniis). Ed è nota la cinica considerazione riportata da Tacito: se quei liberti fossero periti per l’inclemenza del clima – che voleva dire la “malaria” – sarebbe stato un danno di poco conto (vile damnum)! Ebbene, per quattro differenti considerazioni io ritengo che quei 4 mila liberti di fede giudaica siano stati stanziati nella odierna Baronia di Orosei: 1ª) Rispetto alla zona dei Sardi ribelli o “zona deliquenziale”, la vallata del Cedrino aveva ed ha la caratteristica di incunearsi profondamente nella Barbagia. 2ª) La Baronia è stata fino all’ultimo dopoguerra una zona gravemente infetta dalla malaria. 3ª) A memoria di uomo, fra Barbaricini e Baroniesi non è mai corso buon sangue. 4ª) Il carattere di grande conservatività del dialetto baroniese si può spiegare soltanto con una massiccia e lunga presenza dei Romani nella zona.

D’altra parte non si deve tralasciare di considerare che la Baronia di Orosei è proprio dirimpetto al porto di Roma, quello di Ostia, e che da questa zona partivano per Ostia e per Roma il piombo argentifero delle miniere di Lula e i prodotti della pastorizia della Barbagia, carni pelli e latticini, ed anche i prigionieri di guerra da vendere come schiavi nei mercati di Roma.

Oltre che nella Baronia è abbastanza facile individuare in maniera certa alcuni siti del centro montano, nei quali furono stanziati, per un tempo più o meno lungo, presìdi di soldati romani. In primo luogo sono da ricordare due mansiones o stazioni che il noto «Itinerario di Antonino» (Itinerarium Antonini), redatto probabilmente all’epoca dell’imperatore M. Aurelio Antonino – più conosciuto come Caracalla – (211-217 d. C.), indica in un tracciato romano di strada, che andava da Olbia fino a Cagliari, attraversando tutto il massiccio montano della Sardegna centro-orientale(6). Si tratta in primo luogo della mansione di Caput Tyrsi, cioè «Sorgente del Tirso», nell’altipiano di Buddusò, a metà strada rispetto a Bitti, probabilmente nella zona detta Romantzesu, che vorrebbe significare «Romano» (dal lat. Romania + -ensis).

L’altra mansione è quella indicata col nome di Sorabile, la quale trova esatto riscontro nell’attuale sito di Sorábile nelle immediate vicinanze di Fonni, dove si trovano tuttora i resti di terme romane. Il sito evidentemente doveva essere dedicato ad una divinità salutare, che io di recente ho indicato nel famoso dio egizio-greco-romano Serapide. A Fonni e nelle sue immediate vicinanze infatti sono state rinvenute 6 iscrizioni latine(7); nelle vicinanze di Fonni si trovano ancora due ponti romani, quello di Gúsana e quello detto de su Vicáriu, nella odierna strada Fonni-Lodine(8).

Sicuramente esisteva un altro importante stanziamento militare romano ad Austis, che già da tempo io ho riportato ad un antica denominazione *Forum Augusti «Foro di Augusto», in esatta corrispondenza con quello successivo e più a valle che verrà chiamato Forum Traiani, odierno Fordongianus(9). Ad Austis infatti sono state ritrovate ben 10 iscrizioni latine. Il Corpus Inscriptionum Latinarum ne riporta 6 (CIL X 7883-7888), di cui la prima è un diploma honestae missionis, cioè un congedo militare, sicuramente datato all’anno 88 dopo Cristo, con un esplicito riferimento all’imperatore Domiziano. Altre tre iscrizioni sono state pubblicate da Giovanna Sotgiu ed un’altra è stata pubblicata da Attilio Mastino(10). Alcune di quelle iscrizioni si riferiscono a donne ed a bambini; fatto che induce a ritenere che un certo numero di militari romani si sia accasato a Forum Augusti, quasi certamente con donne sarde. Oltre ai ritrovamenti di epoca romana segnalati da R. J. Rowland(11), da parte mia segnalo il ritrovamente abbastanza recente di un grosso sarcofago in pietra, che fino ad un ventennio fa era depositato nell’atrio della scuola di Austis.

Alcuni stanziamenti di militari romani sono indicati in maniera evidente da alcuni toponimi della zona. In primo luogo Mamoiada, che io ho interpretato come mansio manubiata, cioè «stazione vigilata, sorvegliata», evidentemente sorvegliata da un reparto di soldati romani. Questa mia spiegazione trova una sorprendente conferma nel nome del rione più antico di Mamoiada, che si dice su Qastru, dal lat. castrum «campo fortificato, accampamento militare». Mamoiada in effetti si trova in una zona centrale e quindi strategica della Barbagia, e precisamente al centro della cerchia dei seguenti villaggi: Orgosolo, Fonni, Gavoi, Lodine, Ollolai, Sarule, Orani ed Oniferi, e dunque questa sua posizione strategica non poteva non essere sfruttata dalle truppe romane nelle loro azioni di sorveglianza e di repressione.

L’indicazione della probabile presenza di un presidio romano ci viene dalla denominazione di un altro villaggio della Barbagia, Meana, che da tempo io ho interpretato come mansio mediana, cioè «stazione mediana o intermedia» nel già citato tracciato di strada che andava da Olbia a Carales. Ed infatti Meana si trova esattamente a metà strada di quel lungo tracciato ed anche a metà strada tra la costa orientale e quella occidentale della Sardegna(12).

Più a meridione, tra Laconi e Nuragus, si trovava molto probabilmente un altro presidio romano nel sito detto Crastu, là stanziato anche ai fini di una valida protezione dei coloni che erano stati importati dai Romani a Valentia. Nella zona di Crastu, in occasione della “riforma agraria” tentata in Sardegna dopo la II guerra mondiale, sono stati trovati reperti di sicura matrice romana.

Ed uno stanziamento militare romano doveva trovarsi pure a Nùoro. Nùoro infatti si trova nel più importante spartiacque del centro montano della Sardegna, tra la costa orientale e quella occidentale dell’isola, e precisamente a cavallo fra la vallate del Cedrino e di Isalle ad oriente e quella del Tirso ad occidente, nella depressione che si determina tra il massiccio del Gennargentu e l’altipiano di Buddusò. Un forte indizio della lunga presenza dei Romani a Nùoro si ritrova nel suo dialetto fortemente conservativo e in maniera particolare in un fatto di natura fonetica: nel dialetto di Nùoro si conserva saldamente la consonante /f/ latina, mentre nei dialetti dei villaggi dei dintorni si constata l’avversione per questa consonante e cioè la sua caduta, caduta certamente da attribuirsi a reazione del sostrato linguistico prelatino e protosardo. E probabilmente sappiamo anche dove era stanziato il presidio romano di Nùoro, nella sua zona più ricca dal punto di vista agricolo, oltre Badu ‘e Carros, chiamata Corte (si badi bene, senza articolo!), toponimo che molto probabilmente contiene il ricordo dello stanziamento di una coorte militare romana(13).

Infine un presidio di soldati romani si doveva trovare nella mansione di Viniola, presso Dorgali e precisamente presso il santuario della Madonna del Buon Cammino, come dimostra ancora lo stupefacente toponimo (F)Iniodda, quasi regolare svolgimento dell’antico Viniola(14).

D’altra parte la presenza di militari romani anche in tutto il centro montano della Sardegna è chiaramente e sicuramente documentata dal ritrovamento di iscrizioni latine in molti villaggi della zona e precisamente nei seguenti: Benetutti, Bitti, Orune, Fonni, Aústis, Sòrgono, Meana, Laconi, Nurallao, Nuragus, Ortueri, Samughèo, Isili, Seúlo, Ussassài, Ulassài(15).

Traiamo adesso le necessarie deduzioni e conclusioni da quanto finora ho detto. È dimostrata da prove storiche, archeologiche e linguistiche la presenza, la forte presenza di presìdi militari romani, stanziati nei punti strategici del centro montano della Sardegna, ai fini della repressione delle ribellioni degli Iliesi o Barbaricini e delle loro razzie. Ovviamente si deve pensare che quegli insediamenti militari romani – di certo posti nelle montagne anche al fine di evitare il pericolo della malaria per i militari – non siano stati tutti e sempre e contemporaneamente dislocati nei siti da me su indicati; c’è invece da ritenere che il privilegiamento di un sito piuttosto che di un altro sarà stato determinato dalle particolari situazioni di allarme che si determinavano di volta in volta.

A questo punto debbo precisare che ormai rinunzio ad una tesi da me sostenuta in precedenza(16), quella di una analoga presenza di latifondisti romani nella zona, con l’insediamento di altrettante villae o fattorie. In effetti l’intera zona montana della Sardegna non risulta adesso né risultava allora adatta allo sfruttamento agricolo dei terreni, i quali invece, sicuramente anche allora, conoscevano una quasi esclusiva economia di carattere pastorale. Ad un insediamento di qualche latifondista si può pensare solamente nella bassa valle del Cedrino, come fa supporre la molto verosimile etimologia di Galtellì, cioè di Garteddi, che io ho fatto derivare da un lat. (villa) Cartelli «(fattoria) di Cartellio», dal gentilizio di un proprietario romano Cartellius realmente documentato, sia pure non in Sardegna(17); ed anche nella media valle del Tirso, come fanno intendere i resti di costruzioni romane che si trovano tuttora presso san Saturno di Benetutti, nelle cosiddette antiche Aquae Lesitanae, ed anche ad Ottana, proprio nell’ambito dell’abitato.

In concomitanza e in esatta connessione con la forte presenza di militari romani nei vari siti della Barbagia, non si può dubitare del fatto che le stesse continue azioni militari di repressione e di contenimento abbiano ridotto notevolmente, in termini quantitativi, l’elemento maschile dei perenni ribelli Barbaricini: come abbiamo visto in precedenza, molti di questi caddero uccisi nelle azioni di guerra e nelle operazioni di repressione, oppure, fatti prigionieri, furono mandati nei mercati di Roma per essere venduti come schiavi.

Di certo dunque si determinò allora questo importante fenomeno di carattere antropico: molti militari romani stanziati nella zona erano privi di donne e, viceversa, molte donne barbaricine erano prive di uomini. Ed è evidente che la soluzione di questo grave problema di carattere antropico non poteva trovare che la sua naturale soluzione, quella dell’incontro dei militari romani con le donne barbaricine. Di certo dunque si determinò allora una forte mescolanza tra i militari romani e le donne barbaricine, la quale diede luogo ad unioni miste, di non facile – almeno per noi moderni – caratterizzazione giuridica e sociale. Ovviamente questo fenomeno si verificò in maniera vistosa anche altrove: Tito Livio (43, 3, 1-4) dice che dall’unione di soldati romani con donne ispaniche erano nati più di 4000 figli illegittimi: ex militibus Romanis et ex Hispanis mulieribus, cum quibus connubium non esset, natos se memorantes supra quattuor milia hominum.

Si consideri che un fenomeno del tutto simile ed anch’esso assai vistoso si determinò in Germania, dopo la sua sconfitta nella seconda guerra mondiale: migliaia di donne tedesche, prive ormai dei loro compagni caduti durante la guerra, si lanciarono alla conquista degli emigrati che a migliaia giungevano dall’Italia, dalla Spagna, dalla Grecia e dalla Turchia.

D’altronde è del tutto facile immaginare che i soldati romani dispersi sulle cime dei monti della Barbagia, del tutto isolati e spesso perfino dimenticati dai loro comandi centrali, finissero con l’attenuare le loro azioni di controllo e di repressione, cessassero di fare la guerra e si mettessero a fare l’amore con le donne barbaricine. Dalla parte opposta è appena il caso di ricordare che dappertutto e sempre le donne si sono lasciate affascinare dalle divise militari, anche perché in queste esse hanno sempre visto e vedono uomini giovani, forti e sani; il che non è cosa di poco conto per le donne.

Nella sostanza, c’è perfino da suppore con tutta verosimiglianza che le donne barbaricine si siano comportate allora esattamente come le donne sabine rapite dai Romani, che si interposero nei combattimenti scoppiati tra i Sabini ed i Romani, finendo col convincerli a fare la pace definitiva tra loro.

Questa commistione dell’elemento maschile romano con l’elemento femminile barbaricino di certo non fu solamente un fenomeno saltuario e momentaneo, ma ebbe modo di stabilizzarsi e consolidarsi, dato che è facile intravedere che non pochi militari romani, una volta congedati dall’esercito, finivano con lo stabilirsi definitivamente in Barbagia (ricordo il già citato congedo militare rinvenuto ad Austis). La spinta a stabilirsi definitivamente in Sardegna ed in Barbagia era anche una conseguenza del fatto che i militari romani, ex-contadini ed ex-nullatenenti, potevano non avere alcun interesse a ritornare nelle loro sedi della Penisola italiana, delle Gallie, dell’Iberia o dell’Illiria. E probabilmente si trattava non solamente di militari di truppa, ma anche di sottufficiali, come fa intendere la stupefacente attestazione degli attuali cognomi barbaricini Calvisi, Curreli, Mameli, Masuri, Marongiu, Monni, Useli, Verachi, i quali sono evidentemente da riportare ai gentilizi latini Calvisius, Currelius, Mamelius, Masurius, Maronius, Monnius, *Uselius (cfr. Usenius), Veracius, tutti – meno uno – nella forma del vocativo(18).

C’è inoltre da segnalare e sottolineare che l’essersi numerosi militari romani stabiliti definitivamente anche nei vari siti della Sardegna montana è dimostrato pure dal fatto che in Barbagia sono rimasti numerosi ed importanti relitti etnografici delle usanze agricole, con la relativa terminologia, che erano peculiari dei Romani, come ha luminosamente messo in evidenza il grande Max Leopold Wagner, nella sua geniale opera La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua»(19).

Dunque non è tutta boria quella dei Bittesi, i quali – come è noto a tutti i Barbaricini – si vantano di essere Vithichesos de samben romanu!

Ritornando alla questione linguistica propriamente detta, è da sottolineare che il fenomeno dell’apprendimento della lingua latina da parte dei figli trovava di certo una forte spinta da parte delle donne barbaricine stesse, dato che risulta accertato dalla socio-linguistica, che sempre e dappertutto l’elemento femminile è molto più predisposto e pronto ad accettare le innovazioni linguistiche che non l’elemento maschile. Le donne barbaricine dunque si premurarono di insegnare ai loro figli la nuova lingua di potere e di prestigio dei loro mariti romani, che era il latino, esattamente come nell’epoca recente le donne barbaricine diventate spose di carabinieri, poliziotti, finanzieri e guardie di custodia forestieri, non hanno affatto insegnato il sardo ai loro figli, ma hanno insegnato, più o meno bene, la lingua italiana dei loro mariti….

Ad un relativamente facile apprendimento del latino da parte delle donne e dei bambini barbaricini molto probabilmente ha contribuito il fatto che un certo numero di vocaboli latini erano già da loro conosciuti, in quanto risultavano presenti pure nella loro lingua protosarda o sardiana. Già il Wagner ne aveva individuato due, cariasa «ciliegio, ciliegia» e léppore «lepre», io ne ho individuato altri 150 circa. Questi vocaboli, che erano sia latini che sardiani, o fanno capo, in maniera indipendente, al cosiddetto “sostrato linguistico mediterraneo”, oppure sono vocaboli latini derivati da altrettanti etruschi e quindi imparentati con quelli sardiani(20).

Infine è da segnalare e sottolineare che risulta da numerosi dati storici ed anche epigrafici che, almeno in età ormai avanzata, non pochi Sardi, anche delle zone interne, si arruolarono nell’esercito romano o fra le truppe ausiliarie oppure anche nelle stesse legioni e perfino nelle corti pretorie e pure nella flotta romana; lo dimostrano in maniera evidente e certa i congedi di ex-militari sardi rinvenuti ad Austis, Fonni, Seulo, Sorgono, Dorgali, Ilbono, Tortolì e Olbia(21). Ebbene, è indubitabile che questi Sardi, ex-militari, una volta rientrati nei loro paesi di origine in congedo non mancarono di insegnare ed anche di imporre alle loro donne e ai loro figli la lingua latina, quella che essi avevano imparato nel loro servizio nell’esercito romano o nella flotta romana. Esattamente come in epoca odierna, i Sardi che si sono arruolati nell’esercito italiano oppure nelle forze della polizia, una volta congedati, alle loro donne e ai loro figli insegnano ed anche impongono la lingua italiana e non quella sarda….

A tutto questo però va aggiunto che ai fini della totale latinizzazione linguistica della Barbagia saranno intervenuti anche l’esempio e l’influsso di tutto il resto dell’Isola, che ormai era totalmente e profondamente romanizzato anche dal punto di vista linguistico.

Anche in base ai particolari caratteri del latino che risulta essere stato importato dai Romani in Barbagia, i linguisti siamo ormai quasi tutti d’accordo sul fatto che, fondamentalmente, la latinizzazione linguistica della Barbagia è avvenuta negli ultimi decenni della repubblica romana ed entro il secondo secolo dell’Impero(22).

Concludo dicendo: ecco trovata ed indicata la prima e la principale causa della totale e profonda latinizzazione linguistica della Barbagia: la forte presenza di militari romani, non pochi dei quali finirono con lo stabilirvisi definitivamente, finendo con l’imporre – senza alcun fatto di violenza – la loro lingua latina ai loro figli avuti dalle donne barbaricine.

D’altra parte intendo indicare e sottolineare che i nuclei di militari romani che avevano finito con lo stabilirsi definitivamente nella Barbagia, non tardarono molto a “sardizzarsi”, anzi a “barbaricinizzarsi” anch’essi. La Sardegna – ho già avuto modo di scrivere in precedenza -, per le sue particolari caratteristiche geografiche ed ambientali, ha sempre dimostrato grandi capacità di assimilazione e di integrazione rispetto ai gruppi di forestieri che vi si sono stanziati; ed anche la Barbagia in particolare ha sempre dimostrato di possedere queste medesime capacità(23). Su questo piano, dunque, penso che si possa legittimamente parafrasare e adattare la notissima frase del poeta Orazio: Barbaria capta, ferum victorem cepit «la Barbagia conquistata, a sua volta conquistò il feroce vincitore».

Ed infatti, nelle razzie o bardanas che i Barbaricini hanno continuato ad effettuare nei bassopiani e nelle pianure dell’Isola per numerosi secoli successivi, i discendenti dei Romani stabilitisi a Bitti, Nùoro, Mamoiada, Fonni ecc. sono stati sempre a fianco dei razziatori o bardaneris di Orgosolo, Gavoi, Ollolai, ecc…..

A quest’opera di “barbaricinizzazione” di certo contribuirono notevolmente le solite donne barbaricine, le quali, anche allora, avevano di certo quel temperamento forte e deciso che tutti conosciamo.

Massimo Pittau

1) Cfr. M. Pittau, La Lingua Sardiana o dei Protosardi, Cagliari, 2001, Ettore Gasperini Editore.

2) Luigi Falchi, nella rivista «Ichnusa», Sassari, 1951, num. 9., pag. 83.

3) M. Pittau, Questioni di linguistica sarda, Brescia, 1956, pagg. 19-20.

4) Cfr. M. Pittau, Sardegna al Bivio, Cagliari, 1973, pag. 33; M. Pittau, Ulisse e Nausica in Sardegna, Nùoro, 1994 (Libreria Dessì, Sassari), pag. 182.

5) Cfr. M. Pittau, La Sardegna Nuragica, Sassari, 1988, V ristampa, pag. 206.

6) Io ho già avuto modo di scrivere che escludo decisamente che si trattasse di una strada romana vera e propria, per il fatto che di essa non è stato ritrovato alcun resto archeologico né alcun miliario; io penso che si trattasse solamente di una serie di tratturi naturali, del quale l’Itinerario si limitasse ad indicare appunto il solo tracciato.

7) Cfr. R. J. Rowland, I ritrovamenti romani in Sardegna, Roma, 1981, pagg. 45-46.

8) In effetti questi due ponti non contrastano con la mia tesi che una strada romana vera e propria non sia mai esistita nella zona montana della Sardegna centrale: i ponti infatti sono ed erano necessari o almeno utili per passare un corso d’acqua in piena, mentre una “strada lastricata” sarebbe stata uno spreco o almeno un “lusso” nei terreni pietrosi e solidi di tutto il massiccio montano, per di più privi di frequente traffico abituale.

9) Cfr. M. Pittau, Lingua e civiltà di Sardegna, Cagliari, 1970, pagg. 35-38.

10) Rispettivamente nell’opera Iscrizioni latine della Sardegna, Padova, 1961, num. 218, 219, 220, e nell’«Archivio Storico Sardo», XXX, 1976.

11) Op. cit., pagg. 15-16.

12) Cfr. M. Pittau, Lingua e civiltà di Sardegna cit, pagg. 38-40.

13) Cfr. M. Pittau, L’origine di Nùoro – i toponimi della città e del suo territorio, Nùoro, 1996, ediz. «Isula». A Nùoro la caserma dei carabinieri si diceva pure Caserma ovvero Cuarteri senza articolo determinativo.

14) Questa bella etimologia è di Walter Bellodi, che l’ha comunicata col suo studio intitolato Viniola. Contributo per la localizzazione dell’insediamento romano, nella rivista «Sardegna Mediterranea», Oliena, 2002, fascicolo 12, pagg. 25-34.

15) Cfr. G. Sotgiu, ILSard I, e ANRW cit., pag. 555 e cart.; G. Lupinu, Latino Epigrafico della Sardegna – aspetti fonetici, Nùoro, 2000.

16) Nella mia citata opera Ulisse e Nausica in Sardegna, capo 11.

17) Cfr. M. Pittau, Ulisse e Nausica in Sardegna cit., pag. 148; M. Pittau, I nomi di paesi città regioni monti fiumi della Sardegna – significato e origine, Cagliari, 1997, Ettore Gasperini Editore, s. v.

18) Cfr. M. Pittau, I Cognomi della Sardegna – significato e origine di 5.000 cognomi, Sassari, 1990, s.vv.

19) Trad. ital., Nùoro, 1996.

20) Cfr. M. Pittau, La Lingua Sardiana o dei Protosardi cit.

21) Cfr. P. Meloni, La Sardegna Romana, Sassari, 1975, capo XI.

22) In un articolo – molto lungo e molto impegnato – intitolato Il latino e la romanizzazione della Sardegna, pubblicato nell’«Archivio Glottologico Italiano», 1989, LXXIV, pagg. 5-89, Eduardo Blasco Ferrer ha ragione quando scrive che «è possibile asserire che la primissima latinizzazione della Sardegna risale ai secoli III-II a.C.» (pag. 23), ma ha torto quando scrive che «questa primissima latinità è rimasta salda nel centro montano» (pag. 26). La considerazione del Blasco Ferrer vale ovviamente per le città costiere della Sardegna (anche se quella primitiva latinità è stata poi cancellata dalle numerose ondate di latinità successiva), mentre non vale affatto per il centro montano: numerosi fatti storici e linguistici ci spingono a ritenere che la latinizzazione del centro montano non è iniziata prima degli ultimi decenni della repubblica.

23) Vedi M. Pittau, Sardegna al bivio, Cagliari, 1973, pag. 362.

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