Categoria : archeologia

Epigrafi di Orria Pitzinna, agro di Chiaramonti, di Giuseppe Piras

In seguito ad una segnalazione effettuata nel mese di maggio del 1998 si è potuta verificare l’esistenza di materiale epigrafico di notevole interesse custodito presso i locali che ospitavano in quel periodo il laboratorio di restauro della Soprintendenza BSAE per le province di Sassari e Nuoro[1]. L’esame dei reperti, eseguito nei successivi sopralluoghi compiuti tra lo stesso 1998 e il 1999[2], ha dunque consentito di ravvisare nel materiale indicato più precisamente due iscrizioni provenienti da Ardara ed un’altra della quale luogo, data e circostanze di rinvenimento restavano purtroppo ignoti.

Le due epigrafi ardaresi sono risultate essere in effetti due tituli già noti in letteratura: il primo è un epitafio assegnabile al V-VI secolo[3] inciso in una lastra di calcare riutilizzata come copertura di un’urnetta litica posta al centro dell’ara “a blocco” che in antico fungeva da altare maggiore della chiesa palatina di Santa Maria del Regno[4] mentre del secondo era stata fornita per la prima volta notizia nel racconto Un giorno ad Ardara del 1899 di Enrico Costa[5] dove lo scrittore sassarese ne aveva proposto un’arbitraria attribuzione alla «lastra tombale» di Barisone I Torchitorio che regnò sul giudicato di Torres nella seconda metà dell’XI secolo[6]. Una meticolosa e reiterata indagine autoptica e lo studio seguente condotto da chi scrive sul testo epigrafico hanno rivelato che in realtà si è in presenza di una stele recante un’iscrizione sepolcrale, risalente quasi certamente al I sec. d.C., relativa ad un tal Orcoeta (oppure Orgoeta) soldato della cohors III Aquitanorum, un reparto ausiliario giunto dall’Aquitania i cui distaccamenti erano acquartierati nella stazione militare di Luguido (localizzata a Nostra Signora di Castro, nei dintorni di Oschiri)[7].

La terza epigrafe analizzata[8]  è incisa sulla faccia superiore di un blocco parallelepipedo di calcarenite dal colore grigio[9] (largh. max rilevabile cm 60,2; h max rilevabile cm 38,6; profondità cm 12) che risulta di natura porosa, seppure a tessitura compatta, e soggetta a progressivo deterioramento. Il blocco, privato mediante azione meccanica di una limitata porzione del margine superiore sinistro, versa infatti in una condizione di avanzato degrado determinato dall’opera erosiva degli agenti atmosferici che nel corso del tempo hanno prodotto l’alterazione chimico-fisica del materiale lapideo ed interessato in maniera estesa il tenero strato superficiale nel quale si è creato un considerevole numero di coppelle e fessurazioni di profondità variabile. Il processo disgregativo del supporto è alquanto evidente in particolare lungo i suoi margini i quali, oltre alla già citata frattura, mostrano ampie sfaldature e la scheggiatura dell’angolo inferiore sinistro nonché di quello superiore destro. Nello stesso lato destro la superficie lapidea porta inoltre le tracce di alcune linee graffite non più chiaramente identificabili mentre su quello opposto si possono scorgere ancora dei labili solchi obliqui tra loro paralleli (forse il risultato di una leggera picconatura).

Il fenomeno di progressiva dissoluzione e vacuolizzazione dello specchio epigrafico ha compromesso in modo irreversibile la completa leggibilità delle prime due e dell’ultima riga sulle quattro totali nelle quali è impaginato il testo, pertanto di quest’ultimo  è possibile decifrare quanto segue:

                      †  CON  D  PU[—]

                      MoCCC̣[.]X̣X̣V

                     FESIR   MASTRO

                      MEL   ET  Eḷ[.]aṣ  ọp̣

I caratteri presentano un modulo pressoché costante (con altezza però variabile da un minimo di cm 5,3 ad un massimo di cm 8,5) eccettuate le lettere della prima riga (h min cm 3,2 e max cm 7,1) e le ultime due della quarta riga (h min cm 2,2 e max cm 7,2) nelle quali questo è sensibilmente inferiore. Se la scelta da parte del lapicida di inserire delle lettere nane nella parte conclusiva del testo può essere facilmente spiegata con l’impossibilità di usufruire di ulteriore superficie scrittoria disponibile ed è conseguenza di un errato calcolo nella distribuzione dei caratteri, pare al contrario più complessa la comprensione delle motivazioni che hanno portato alla sua decisione di ricorrere ad un modulo ridotto anche in apertura del titulus per le lettere della prima riga. Piuttosto che ad una finalità estetica dipendente dal gusto personale dello sculptor (magari già prevista nella fase della minuta scrittoria) questa soluzione sembra da attribuire ad un ripensamento in corso d’opera dettato dalla necessità di completare il contenuto dell’iscrizione.

Sotto l’aspetto formale spicca inoltre l’assenza di un’adeguata ordinatio del testo (mancano del tutto i segni delle linee di guida), resa palese da un’incongrua disposizione rispetto allo specchio epigrafico dei caratteri i quali, benché siano tra loro allineati e distanziati in modo omogeneo, seguono un progressivo andamento obliquo discendente che diviene abbastanza vistoso nell’ultima riga. Lo scalpellino denota viceversa una certa perizia nell’esecuzione delle forme di lettere e cifre, riprodotte sulla pietra con un tratteggio sicuro ed un’incisione caratterizzata da un solco filiforme di profondità e larghezza perlopiù regolari (rispettivamente cm 0,7 ca. e cm 0,2-0,4).

La tipologia scrittoria adottata vede la commistione di elementi maiuscoli che appartengono alla gotica epigrafica (D, E, M, S) con altri derivati dalla gotica epigrafica minuscola rotonda (F, L, N, P, R, T, U). Il frequente utilizzo di tratti curvilinei nelle terminazioni delle lettere contrasta qui col limitato impiego di apicature e filetti esornativi, adoperati unicamente nella consueta forma onciale-gotica della E che compare stabilmente chiusa, tranne nella seconda lettera della quarta riga in cui s’intravede più semplicemente una breve propaggine forcuta nell’estremità superiore. Ancora alla stessa riga, la T è provvista di una curiosa appendicola inclinata che s’innesta lungo la curva inferiore mentre dal tratto terminale visibile di quella che pare essere una S discende verso il basso un lungo filetto. Il disegno della E, unitamente a quello della C e della M, evidenzia altresì una delle caratteristiche di questo modello epigrafico, ovverosìa la propensione verso il raddoppiamento delle curve di alcune lettere attraverso l’incisione, nella parte interna, di un segmento verticale di rinforzo[10].

Dal punto di vista paleografico emerge la particolare foggia della A (accostabile per molti versi a quella della lambda minuscola dell’alfabeto greco), dotata di traversa mediana, nella quale l’abituale trattino di coronamento posto in alto (solitamente sporgente a sinistra) viene sostituito dal prolungamento dell’asta obliqua destra che piega repentinamente verso sinistra[11]. La M è del tipo con occhiello chiuso e nel ductus presenta delle linee ondulate (finanche rotondeggianti nell’occhiello) alternate ad altre decisamente più spigolose[12]. Gli stessi tratti sinuosi contraddistinguono le estremità delle varianti minuscole di R, T e P, quest’ultima dalla pancia non completamente chiusa e dalla sagoma piuttosto quadrangolare così come quella della U. Una marcata compressione laterale conferisce alla O una forma ovoidale che viene accentuata nella D onciale, raffigurata alla prima riga con un lungo tratto arcuato nella parte superiore che si sviluppa verso l’alto per poi incurvarsi inferiormente[13].

Nella seconda riga è rappresentata una letterina dalla forma “a navette” soprascritta alla prima cifra dell’anno, quale compendio della parola Millesimo. Sono assenti segni d’interpunzione, nessi o legature fra lettere[14]. Da ultimo, in funzione abbreviativa, si registra l’uso della tilde diritta orizzontale sovrapposta alle forme compendiate mentre per segnalare le abbreviature per contrazione del summenzionato numerale Millesimo e dell’antroponimo ricordato nella quarta riga (vedi infra) le M iniziali recano l’occhiello tagliato a metà da una lineetta trasversale. Un insolito tratto diagonale, corto e limitato all’interno del contorno dell’occhiello, indica invece nella D onciale il troncamento della preposizione de.

L’analisi paleografica rileva inequivocabilmente l’esistenza di una chiara affinità tra il canone scrittorio impiegato nell’epigrafe e quello dell’iscrizione incisa su due conci calcarei nella facciata della chiesa di Santa Maria de Orria Pithinna (in seguito ridedicata a santa Maria Maddalena)[15], nell’agro di Chiaramonti, che fa riferimento ad imprecisati lavori compiuti sull’edificio nell’anno MCCCXXXV[16] dal magister Petrus Cothu sotto il priorato del frater Cenus[17].

I due tituli sono invero accomunati non solo dall’adozione per le lettere di forme che, salvo isolate eccezioni, sembrano essere pressoché identiche[18] ma esibiscono, compatibilmente con le diversità nella consistenza dei due supporti, soluzioni grafiche analoghe nel tratteggio dei singoli caratteri[19] e persino nello schema d’impaginazione del testo[20], tanto da far ritenere che possano forse essere opera del medesimo lapicida.

Confronti puntuali si ritrovano anche in un’altra interessante iscrizione trecentesca scolpita su un blocco calcareo inserito nel paramento esterno della stessa Santa Maria de Orria Pithinna[21] ed ancora in un titulus che compare su una base in trachite di un’acquasantiera recuperata nell’aprile del 1994 nelle vicinanze della chiesa parrocchiale dell’abitato di Allai (Oristano)[22].

La prima, murata in corrispondenza dell’ingresso alla cappella meridionale della chiesa e ritenuta fino a poco tempo fa indecifrabile, ad un attento esame ha rivelato in effetti l’importante attestazione dell’esistenza del sepulcrum di un tal Autedus, personaggio al quale venne attribuito l’appellativo di sanctus. Nel raffronto con la gotica epigrafica usata nell’epigrafe conservata presso la Soprintendenza BSAE sono facilmente individuabili dei legami nel ductus dei caratteri maiuscoli e minuscoli (tranne la A, qui con l’asta sinistra ondulata e sormontata da un cappello sporgente verso sinistra, e la T dalla forma di derivazione capitale), nella sproporzionata lunghezza dei tratti terminali[23] e nel caratteristico raddoppiamento delle curve di alcune lettere che sistematicamente ritorna, insieme ad altri elementi distintivi di questo modello di stilizzazione gotica, anche nel tipo scrittorio impiegato per l’acquasantiera di Allai recante la data MCCCXX[24].

I precisi riscontri offerti dalla comparazione con l’iscrizione apposta nella facciata della Santa Maria de Orria Pithinna e la compatibilità col genere di materiale di cui è composto il supporto epigrafico permettono quindi di risalire con sicurezza al luogo di provenienza della nostra epigrafe, finora sconosciuto, e di localizzare proprio nell’area immediatamente adiacente alla chiesa di Santa Maria de Orria Pithinna se non addirittura nelle strutture dell’edificio stesso l’effettivo punto del suo ritrovamento. Più problematico risulta tuttavia definire con certezza le circostanze del suo recupero e l’esatto periodo di acquisizione da parte della Soprintendenza BSAE[25], quantunque questi possano essere ricondotti molto probabilmente agli interventi di consolidamento e restauro ai quali venne sottoposta la chiesa negli anni 1976-1978[26].

Per ciò che concerne invece il contenuto, il testo epigrafico può essere così trascritto:

†̣ Con(fectio vel secratio?) d(e) pu[—] / M°CCC̣[.]X̣X̣V [—] / fesir(unt) mastro / M(anu vel ich? vel igu?)el et Eḷ[i]aṣ ọp̣(erarius?).

Al principio della prima riga, pressappoco ad un quarto della lunghezza totale del blocco in calcarenite ed in prossimità della già ricordata frattura, è possibile notare la presenza di un ampio solco verticale (h misurabile cm 3,7), terminante in basso in una svasatura molto accentuata, che pare ricordare molto da vicino l’estremità del braccio di un signum crucis. Poco più avanti sono incise le lettere sottomodulate: anzitutto la forma compendiata per troncamento CON, da sciogliere verosimilmente in confectio oppure consecratio, termini che starebbero ad indicare perciò la realizzazione ovvero la consacrazione di un’opera la cui natura veniva precisata subito dopo la preposizione abbreviata de. La sua identità rimane purtroppo celata dalla scheggiatura che interessa l’angolo superiore destro del supporto e rende lacunosa una parola della quale permangono visibili sulla pietra esclusivamente le due lettere iniziali P e U. Sulla superficie lapidea s’intravedono comunque ancora delle tracce attribuibili presumibilmente a due, forse tre, ulteriori lettere che dovevano essere parte integrante della parola ma che malauguratamente non sono oramai più intelligibili. Le rilevanti dimensioni della lacuna ostacolano nondimeno una precisa quantificazione dei caratteri perduti sebbene, considerato il sito di rinvenimento del titulus, si possa provare ad ipotizzare con molta cautela la restituzione pu[lpito] oppure pu[teo].

Nella seconda riga viene invece riportato l’anno, espresso con numerazione romana e letterina soprascritta all’ordinale delle migliaia. Sono identificabili le tre cifre delle centinaia con la terza C solo in parte distinguibile per via di una zona profondamente consunta della superficie che occupa la parte centrale dello specchio e non consente di determinare neppure la cifra seguente. Sulla base dell’estensione della lacuna si può a ragione ritenere che essa fosse limitata ad un unico carattere, una L o più verosimilmente una X dello stesso tipo di quello rilevabile nelle due cifre successive.

Le X (insieme al carattere riproducente le unità) appaiono di dimensioni lievemente ridotte rispetto al contesto così come le tre della data MCCCXXXV nell’epigrafe collocata nella facciata della Santa Maria de Orria Pithinna. Tuttavia mentre in quell’epigrafe le X sono raffigurate con un asse ruotato verso sinistra di circa 45° rispetto al disegno tradizionale, legate tra loro tramite le aste di destra (le quali risultano perfettamente allineate e parallele alla linea di testo) e con le aste di sinistra che si prolungano in basso fin quasi a congiungersi con le lettere della riga successiva, nella nostra iscrizione il grado d’inclinazione è inferiore e le aste di sinistra hanno lunghezza regolare.

L’ultima cifra riconoscibile è una V; poco più avanti si osservano i resti di linee graffite, certamente però non pertinenti al titulus.

Nella terza e quarta riga compaiono la forma verbale fesirunt (per fecerunt)[27], abbreviata per troncamento in FESIR, ed i nomi degli esecutori dell’opera con le loro rispettive mansioni.

Il primo personaggio ricordato è un tal mastro Manuel[28], sebbene l’antroponimo compendiato per contrazione in MEL[29] possa essere interpretato anche come Micael/Michel[30] o Miguel[31], il cui ruolo doveva essere, stando al titolo attribuitogli, molto probabilmente quello di mastru de pedra et de muru[32] denominazione conferita agli appartenenti alla categoria dei maestri che avevano competenza nel taglio delle pietre e nella messa in opera del materiale edile[33] (coloro che durante l’età catalana e poi spagnola venivano spesso definiti maestres de pedra o picapedres)[34], oppure più genericamente quello di artigiano, esperto magari anche nella lavorazione del legno come il Janne mastriu de frauica e de linna (“maestro di muro e di legna”) citato nel Condaghe di S. Pietro di Silki[35]. Viceversa sembra più difficile assegnare al termine mastro una generica valenza onorifica di titolo preposto al nome di un personaggio di una certa rilevanza sociale, quale ad esempio un ecclesiastico[36], considerata la mancata menzione del suo specifico incarico, usualmente dichiarato in modo esplicito nelle iscrizioni recanti formulari simili al nostro.

La seconda figura che emerge dal testo epigrafico è un certo Elias[37], antroponimo del quale restano soltanto due lettere distintamente comprensibili, la E e la A, ma ricostruibile in maniera plausibile grazie alla presenza sulla pietra anche dell’estremità inferiore di una L minuscola e di un tratto curvilineo correlabile, nel carattere conclusivo del nome, ad una S. La lacuna in corrispondenza della terza lettera, sulla quale insiste un profondo alveolo circolare, può essere conseguentemente colmata con l’integrazione di una I.

Rimane da chiarire il compito svolto da questo personaggio, compito che verrebbe specificato dall’abbreviatura OP posta con lettere nane dopo il nome Elias e da sciogliere in operarius. Tenendo conto della precedente menzione nell’iscrizione del mastro Manuel (oppure Micael/Michel o Miguel), al quale viene associato per la realizzazione dell’opera segnalata nella prima riga, il termine operarius in questo caso dovrebbe essere preferibilmente inteso nell’accezione di ‘aiutante del maestro, operaio, manovale’[38] piuttosto che in quella di ‘funzionario preposto a sovrintendere ai lavori per il compimento di un’opera (in genere commissionata da un’autorità civile o religiosa) ed alla loro gestione finanziaria e organizzativa’[39]. La seconda pare da scartare anche in rapporto alla modesta entità dell’opera eseguita nella quale, allo stato attuale delle ricerche, si ravvisa un pulpitum[40] oppure un puteus (un pozzo o una cisterna)[41].

Nel primo caso, congetturando che nell’iscrizione si faccia riferimento ad un pulpito collocato all’interno della chiesa ed in considerazione delle ridotte dimensioni della Santa Maria de Orria Pithinna, si dovrebbe pensare ad un piccolo pulpito ligneo (del quale però non è rimasta alcuna traccia), addossato alla muratura, al quale si doveva accedere per mezzo di una breve scala in pietra che poteva recare inserito nella fronte il blocco con la nostra iscrizione. Altrimenti, qualora si fosse trattato di un pulpito esterno, lo si dovrebbe associare alle strutture di un chiostro appartenente al monastero camaldolese forse annesso alla chiesa, malgrado anche quest’ultimo non sia stato a tutt’oggi ancora individuato[42]. Ad un ipotetico chiostro sarebbe da collegare anche la memoria epigrafica di un eventuale pozzo (o cisterna), in cui il blocco con l’iscrizione avrebbe potuto far parte del puteale.

Riguardo infine alla data di realizzazione dell’opera, si è inclini a propendere per il MCCCXXXV, la stessa riportata nell’epigrafe posta nella facciata della Santa Maria de Orria Pithinna in occasione dell’ultimazione di importanti interventi di ristrutturazione subìti dall’edificio[43], interventi coi quali l’opera era forse in qualche modo connessa.

Abbreviazioni

CSMB = Condaghe di S. Maria di Bonarcado.

CSMS = Condaghe di S. Michele di Salvennor.

CSNT = Condaghe di S. Nicola di Trullas.

CSPS = Condaghe di S. Pietro di Silki.

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[1] Desidero esprimere un sentito ringraziamento nei confronti del Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche, l’arch. Paolo Scarpellini, all’epoca di questo studio Soprintendente BAAAS per le Province di Sassari e Nuoro, per aver acconsentito all’esame autoptico, il rilievo grafico e l’edizione delle iscrizioni. Un sincero ringraziamento va inoltre al prof. Attilio Mastino ed al prof. Raimondo Zucca per la disponibilità accordatami a seguire le fasi del lavoro. I reperti sono stati recentemente trasferiti dai locali del laboratorio di restauro ed attualmente sono conservati nei depositi del Mus’a, la Pinacoteca al Canopoleno di Sassari, dipendente dalla Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Sardegna.
[2] Autorizzazione concessa con Prot. n. 13929 del 22/9/1998 e Prot. n. 3959 del 23/3/1999. Un particolare ringraziamento va ai sigg. Sandro Signoretti e Pietro Usai, restauratori della Soprintendenza BSAE, per la cortese collaborazione fornitami.
[3] Il testo recita: —— / [— an]/nos p(lus) m(inus) XLV / requiebit in / [p]ace V kalen/das Iunias / per ind(ictionem) oc/taba(m) (croce). Per la sua decriptazione cfr. Sotgiu 1988, p. 644, B 158; Serra 1989, pp. 218-219; Corda 1999, p. 39, ARD 001 ove ne viene offerta una trascrizione migliorata ed ampliata, riproposta in Piras 2004, pp. 1544-1545 ed ora anche in questa sede.
[4] Ritrovata nel corso degli interventi di restauro della chiesa di S. Maria del Regno eseguiti dall’ing. Dionigi Scano per l’Ufficio Regionale per la Conservazione dei monumenti della Sardegna negli anni 1898-1901, l’urna venne ricollocata nel nuovo altare marmoreo costruito nel 1900 da Giuseppe Sartorio in forme neobarocche. Quest’opera venne a sua volta smontata negli anni ‘70 del secolo scorso per decisione dell’allora Soprintendente ai Monumenti e Gallerie dott. Roberto Carità e trasportata nella chiesa ardarese di S. Croce dove è attualmente custodita.
[5] Costa 1899, pp. 32-34. La lezione del Costa è stata in seguito accolta da Tedde 1985, p. 51.
[6] Sulla figura del giudice turritano Barisone I de Lacon-Gunale (ante 1063- ante 1073) cfr. Brook-Casula-Costa-Oliva-Pavoni-Tangheroni 1984, tav. V, lemma 5, p. 188; Turtas 2000 e Sanna 2002, pp. 103-104.
[7] In merito all’epigrafe funeraria di Orcoeta (od Orgoeta), così interpretabile: [O]rcoeta vel [O]rgoeta / [B?]ihonis f(ilius) / Con(venus) mil(es) ex / [coh]ọr(te) Aq/[ui]ṭ(anorum) anno(rum) / [.]XXI h(?) + / ——, si rimanda a Piras 2004. Cfr. inoltre de Faria 2005, p. 285; Gorrochategui 2007, p. 631 e de Faria 2007, pp. 224-225. L’ipotesi, formulata in Piras 2004, p. 1555, relativa all’esistenza nei pressi dell’abitato di Ardara di “un insediamento militare facente parte di quel complesso sistema di castra attraverso il quale i contingenti della cohors III Aquitanorum presidiavano il territorio che era stato loro assegnato” sembra ora trovare conferma nella scoperta di strutture, provviste di cinta muraria di fortificazione e riferibili preliminarmente ad un arco cronologico compreso tra il I sec. a. C. ed il I sec. d. C., venute alla luce in seguito a due campagne di scavo condotte nel 2007 e nel 2008 in località Pianu San Pietro, 500 metri a sud del paese. Per lo scavo del sito cfr. Lopez 2009.
[8] Sull’iscrizione cfr. Piras 2004, p. 1543, nota 2; Piras 2005, pp. 379-380, nota 40; Piras 2006, p. 28; Piras 2009, p. 435, nota 43 (con trascrizione migliorata ed ampliata) e Piras c.s.
[9] Il litotipo è collocabile nella classe delle calcareniti provenienti da rocce sedimentarie e costituite prevalentemente da calcite.
[10] Tematica questa già posta in rilievo in Piras 2005, pp. 379-380, nota 40 e Piras 2009, p. 434, nota 42 con riferimento ad esemplari relativi alla produzione epigrafica sarda.
[11] Una forma della A direttamente comparabile con quella qui esaminata (la sola differenza è legata all’assenza della traversa mediana) è stata utilizzata ad esempio nella gotica epigrafica dell’iscrizione trecentesca incisa in un concio entro cornice romboidale inserito nel prospetto della chiesa tardo-romanica di S. Ranieri (intitolata in epoca spagnola a Nostra Signora del Pilár) a Villamassargia (Iglesias). Per l’interpretazione dell’iscrizione cfr. Casini 1905, n. 44 (1306-1307), pp. 342-343 e Delogu 1953, pp. 231 e 239, nota 2.
[12] La maniera molto elaborata di rendere la M con occhiello chiuso e, più in generale, il gusto per un tratteggio che si avvalga del continuo succedersi di linee ondulate e spigolose, tipico dell’epigrafica gotica più tarda, richiamano molto da vicino delle caratteristiche presenti nella lapide tombale in lingua catalana in memoria di una dona Guilalmona, conservata nel chiostro del convento annesso alla chiesa di Santa Maria di Betlem a Sassari e assegnabile ad un periodo compreso tra la seconda metà del XIV e gli inizi del XV secolo. Sull’epigrafe si veda Piras 2002, pp. 84-89 (con bibliografia precedente citata).
[13] Così come per la A, anche il disegno della D onciale che compare nella prima riga ricorda curiosamente quello di una lettera dell’alfabeto greco, in questo caso quello della delta minuscola.
[14] Non può infatti essere considerata una legatura l’eccessiva estensione del tratto orizzontale della F minuscola collocata all’inizio della terza riga, tratto che va comunque a congiungersi col profilo della E onciale seguente.
[15] Sugli aspetti architettonici della chiesa, il cui impianto originario vien fatto risalire agli inizi del XIII secolo, cfr. Zanetti 1974, pp. 113-121; Botteri 1978, pp. 44-45; Sari 1981, pp. 113-116; Coroneo 1993, pp. 145 e 147, sch. 52; Coroneo 2005, p. 36; Sari 2006 e Sari 2007, pp. 644-645. La più antica testimonianza riguardante l’edificio proviene da un documento, redatto il 10 luglio 1205, attraverso il quale Maria de Thori, vedova del nobile sassarese Pietro de Maroniu e zia del giudice di Torres Comita II de Lacon, faceva formalmente dono della chiesa e della vicina S. Giusta all’abbazia di S. Salvatore di Camaldoli. La S. Maria de Orria Pithinna (denominazione derivatale dal villaggio omonimo presso il quale sorgeva) divenne così sede di un priorato camaldolese fino al definitivo abbandono del cenobio da parte dei monaci, collocabile intorno alla fine del Trecento. Sulle vicende del priorato di Orria Pithinna cfr. Piras 2009, pp. 425-430 (con bibliografia precedente) e Piras c.s.
[16] A seconda del sistema cronologico adottato nel titulus per il computo dell’anno, la data potrebbe corrispondere al 1335 oppure, meno probabilmente, al 1336 o 1334. Sull’argomento si rinvia nello specifico a Piras 2009, p. 432, nota 35 e p. 436.
[17] Dell’iscrizione, segnalata per la prima volta in Zanetti 1974, p. 113, è stata data un’iniziale interpretazione in Sari 1981, p. 116, poi emendata in relazione alla figura del priore frater Cenus ed ampliata nella corretta identificazione della data in Piras 2004, p. 1543, nota 2; Piras 2005, pp. 379-380, nota 40; Piras 2009, pp. 433-436 e Piras c.s. Il testo dev’essere così decriptato: MCCCXXXV frat(er) Cenus / p(r)ior fecit hoc opus / Pet(rus) Cothu magi(s)t(e)r.
[18] Le uniche differenze sostanziali ravvisabili nell’epigrafe inserita nella facciata della chiesa concernono la lettera E, costantemente aperta giacché priva di apicature unite tra loro alle estremità, la I dal disegno ondulato ed il dissimile grado di inclinazione attribuito alle X nelle cifre della data (vedi infra).
[19] Colpisce la presenza in entrambe le iscrizioni, tra le cifre dell’anno riproducenti le centinaia, di un anomalo modo nel tracciare il tratto superiore della C in virtù del quale la sua curvatura si attenua a tal punto da divenire quasi rettilineo. Esemplificativo è anche il singolare prolungamento del tratto orizzontale della F minuscola (in ambedue i tituli a ridosso di una E onciale) a cui si è già accennato in precedenza (cfr. supra, nota 14).
[20] Oltre all’impiego di letterine soprascritte e alla mancanza di interpunti di separazione, dall’osservazione della prima riga dell’epigrafe riprodotta nel prospetto frontale della S. Maria de Orria Pithinna si coglie la peculiare propensione dello sculptor ad inclinare verso il basso la linea di testo così come evidenziato anche nell’iscrizione custodita presso la Soprintendenza BSAE.
[21] In letteratura il primo riferimento all’iscrizione è rappresentato dall’immagine fotografica pubblicata in Botteri 1978, p. 44 e dalla successiva menzione fatta in Sari 1981, p. 115 (con riproduzione fotografica alla tav. VIII, fig. 24, p. 120). La lettura e l’analisi del documento epigrafico, trascrivibile nel modo seguente: S(epulcrum) s(an)c(t)i A/utedi, la formulazione delle ipotesi inerenti all’identità del personaggio citato ed infine la descrizione dei graffiti raffigurati nello stesso supporto lapideo sono in Piras 2009, pp. 436-460.
[22] Mele 1994a e Mele 1994b.
[23] Persino abnormi e di fattura indiscutibilmente rozza appaiono le apicature eseguite per le prime tre lettere UTE inserite alla seconda riga e facenti parte del genitivo dell’agionimo Autedus.
[24] Maria Grazia Mele ha inizialmente proposto del titulus inciso sulla base dell’acquasantiera la lettura: “MCCCX(X?) / † Ad confe(ctionem)”, modificandola successivamente in “MCCCX(X?) / † A(nno) D(omini) confe(ctum)”. Cfr. Mele 1994a, p. 166 e Mele 1994b, p. 285.
[25] L’iscrizione è protocollata col n. 402 del Registro d’ingresso della Soprintendenza BSAE, ciononostante non risulta esser mai stata inventariata. Per la comunicazione un cordiale ringraziamento va alla dott. Alma Casula.
[26] Questa ipotesi pare trovar conferma nella documentazione fotografica, conservata negli archivi della Soprintendenza BSAE, attinente ai restauri operati in quegli anni sulla S. Maria de Orria Pithinna: tra la documentazione è infatti catalogata una riproduzione in bianco e nero giustappunto dell’epigrafe in questione però priva sfortunatamente di qualsiasi annotazione di riferimento.
[27] L’impiego della forma fesit, in luogo della corretta fecit, si ritrova anche in una delle due iscrizioni dipinte sulla predella (nello scomparto centrale del tabernacolo dove è raffigurato il Cristo in pietà) del Retablo maggiore della chiesa di Santa Maria del Regno ad Ardara, opera dell’artista Giovanni Muru datata al 1515. Sull’iscrizione, emendata da chi scrive nel cognome del quarto obriere citato nel titulus (da leggersi Manus e non Madius come finora proposto), si veda Piras 2005, p. 403, nota 107.
[28] Sull’antroponimo Manuel e la sua ricorrenza all’interno del vasto repertorio onomastico documentato nei condaghi si rimanda ad Atzori 1961, pp. 97 e 101; Atzori 1962, pp. 52 e 58.
[29] La tipologia dell’abbreviatura (il nome è compendiato per contrazione come segnala la lineetta trasversale che taglia la M iniziale), a meno che non si tratti di un palese errore nel quale è incorso il lapicida, escluderebbe l’ipotesi di una forma contratta dell’antroponimo Gitimel/Gidimel, forma tra l’altro non altrimenti testimoniata dalle fonti documentarie.
[30] Cfr. Atzori 1961, p. 83 e Atzori 1962, p. 7.
[31] Cfr. Atzori 1961, pp. 97 e 101; Atzori 1962, pp. 52 e 58.
[32] La definizione di mastros de pedra et de muru è contenuta alla p. 8 del Condaghe di San Gavino, cronaca medievale che narra le vicende concernenti l’erezione della basilica di San Gavino per volontà del giudice di Torres Comita. Il Condaghe è giunto a noi attraverso un apografo fatto stampare a Sassari nel 1620 dall’erudito sassarese Francesco Rocca. Tra gli studi svolti sul Condaghe di San Gavino si segnalano i recenti contributi apportati da Raimondo Turtas e da Giuseppe Meloni rispettivamente in Turtas 2003 e Meloni 2005.
[33] Così Frulio 2002, p. 487.
[34] In relazione al ruolo ed all’attività dei picapedres in Sardegna si vedano tra gli altri Mossa 1979; Mossa 1981a; Mossa 1981b e Mossa 1991.
[35] CSPS, sch. 31 (Bonazzi 1900, p. 10; Delogu 1997, pp. 72-73).
[36] Problematica affrontata in Piras 2006, p. 28 circa l’esatta qualifica del mastriu Comita d’Innoviu testimoniato nell’epigrafe in logudorese assegnabile al XII secolo che è incisa sulla cornice dell’arco di una monofora della chiesa di Santa Maria di Curos, ubicata nel territorio comunale di Monteleone Roccadoria (Sassari). Una trascrizione del titulus era stata offerta precedentemente in Testimonianze archeologiche 1995, pp. 214-215, scheda n. 92 (a cura di Rita Meloni); Rassu 2002, pp. 60 e 61, nota 139 e Piras 2003, p. 331, nota 73.
[37] Atzori 1961, pp. 81 e 101; Atzori 1962, pp. 26 e 57. Queste le attestazioni nei condaghi: CSNT, sch. 123 (Merci 2001, pp. 104-105): Elias de Mundu; CSMB, sch. 129 (Virdis 2003, pp. 174-175): Elias Contu (cfr. anche Paulis 1997, p. 38); CSMS, sch. 193 (Tetti 1997, p. 164): Elias Capitha; schh. 109 (Tetti 1997, p. 114), 159 (Tetti 1997, p. 124) e 197 (Tetti 1997, p. 166): Elias de Martis, chierico; schh. 175 (Tetti 1997, p. 134), 185 (Tetti 1997, p. 158) e 189 (Tetti 1997, p. 162): Elias Pantama; CSPS, schh. 28, 29 (Bonazzi 1900, p. 9; Delogu 1997, pp. 70-71) e 30 (Bonazzi 1900, pp. 9-10; Delogu 1997, pp. 70-72): prebiteru Elias (anche Blasco Ferrer 2003, I, p. 35); 69 (Bonazzi 1900, p. 20; Delogu 1997, pp. 92-93): Elias Falke; 85 (Bonazzi 1900, p. 25; Delogu 1997, pp. 102-103): Elias de Uare; 205 (Bonazzi 1900, pp. 54-56; Delogu 1997, pp. 160-165): Elias Dente. Sulla base dello studio condotto sulle fonti sarde da Sante Bortolami si evince altresì che il nome veterotestamentario Elias fosse nel 1388 un antroponimo molto diffuso nell’Isola; Bortolami 2000, p. 245.
[38] Lapicidi oppure manovali addetti ai lavori più modesti sono ad esempio, nell’ambito del cantiere del Duomo di Modena, i personaggi indicati con il titolo di operarii che vengono riprodotti nelle miniature presenti nella Relatio translationis corporis Sancti Geminiani. Sui diversi significati attribuiti al termine operarius cfr. anche Du Cange 1886, pp. 46-47, s.v. operarius; Arnaldi 1970, p. 431, s.v. operarius; Peroni 1984, pp. 278-279 e 290-291; Quintavalle 1991, p. 265; Cassanelli 1995, p. 148; Barbero-Frugoni 1999, p. 149.
[39] Sulla figura giuridica dell’Operaio e sui compiti a lui affidati cfr. tra gli altri Banti 1995, pp. 160-165 e Banti 2000, pp. 27-30. Tra le epigrafi sarde, coeve a quella qui esaminata, eseguite per celebrare l’attività dell’operarius della fabbrica di una chiesa risulta molto interessante, anche per le analogie riscontrabili nel formulario adottato, quella proveniente dalla distrutta chiesa di S. Paolo a Cagliari che ricorda l’operariu mastro Aidedeo e reca la data MCCCXXXVII. Cfr. Esquirro 1624, pp. 406-407; Spano 1864, p. 156; Casini 1905, n. 55 (1337), pp. 353-354; Serra 1982, n. 30, pp. 109-110; Stefani 1988, sch. LA 13, p. 147; Coroneo 1993, pp. 133 e 302, nota 168; Pistuddi 2007, p. 430 (il nome del magister viene letto Hidedeo).
[40] Du Cange 1886, p. 564, s.v. pulpitum.
[41] Du Cange 1886, p. 578, s.v. puteus.
[42] Potrebbero essere ragionevolmente correlate a queste strutture le tracce di alcune rasature murarie che affiorano dal terreno nella zona immediatamente prospiciente la cappella meridionale ed il fianco S della chiesa.

[43] Altri interventi erano già stati eseguiti poco più di un decennio prima, così come confermerebbe il titulus O(pus) P(erfectum) MCCCXXIII che compare su una mensola della cappella meridionale. Lo scioglimento più plausibile suggerito da chi scrive per le due abbreviature, introdotte dalle lettere iniziali, induce infatti a riconoscere nell’iscrizione una testimonianza relativa alla conclusione della costruzione delle due cappelle oppure al semplice restauro della sola cappella meridionale. Cfr. in merito Piras 2009, pp. 431-432.

Nota della Redazione: abbiamo trovato difficoltà a postare le due figure epigrafiche e ce ne scusiamo con l’autore, eminente epigrafista.

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