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Memorie di vita di Giovanni Farre di Nulvi, raccolte da Paolo Merella

Giovanni Farre, Memorie di vita, raccolte da Paolo Merella, Tas, Sassari 2011 pp.100

 

Parrocchiale di Nulvi

Ho letto con curiosità quest’avvincente memoria di vita del novantenne Giovanni Farre, nato a Nulvi nel 1919 e tuttora vivente anche se in precarie condizioni di salute. Si tratta di un racconto semplice e lineare dei momenti più importanti e cruciali della vita di un uomo che ha dovuto affrontare anche le peripezie della seconda guerra mondiale (1940-1945). Non si tratta di un uomo qualunque che si lascia travolgere dagli avvenimenti, ma di un uomo che cerca di lottare e di superare i momenti peggiori, sorretto sempre dalla fede e da una eccezionale capacità di adattamento.

Nei momenti più drammatici si adatterà, per sopravvivere, a cibarsi di sassolini, di cera di steariche, di impasto di ghiande tolto dal truogolo di un maiale. Nella disperazione della lontananza dagli affetti familiari non rigetterà nemmeno il tenero sentimento che per un certo periodo lo legherà ad una donna di cui conserverà sempre il ricordo sublimato nella fede.

Pur nella disperazione sa che il valore più grande è la famiglia e la sua terra e così ha il coraggio di un distacco che sfuma come il fumo che sbuffa dal comignolo del treno che lo porterà in patria.

Le sue memorie, scritte all’età di 90 anni, non gli permettono di situare con precisione storica gli avvenimenti che lo travolgono tra il 1940 e il 1945, durante la guerra e successivamente nel periodo restante della sua vita, per adattarsi nel migliore dei modi al periodo di pace sia nel lavoro vario ed assiduo sia nella formazione di una famiglia che può ben dirsi numerosa.

Se questa memoria di vita dovesse avere un titolo potrebbe essere quello della storia di un uomo che ha saputo vivere con dignità in pace e in guerra, nella fame e nell’abbondanza, nelle prove e nella normalità. Ottimista, attivissimo, rispettoso verso tutti, solidale e soprattutto uomo di fede.

Queste memorie di vita di un uomo esemplare meritano certamente di essere pubblicate e consegnate ai figli e ai pronipoti, ai parenti e a tanti amici e a chi vorrà leggerle sia nelle biblioteche sia sul web perché anch’esse fanno parte della “nuova storia” elaborata dai noti storici degli “Annales” fin dal 1929.

Riportiamo, per concessione dei figli che hanno curato la pubblicazione delle Memorie, uno dei più significativi capitoli del volumetto.

 

VI

CAMPO DI DISCIPLINA

 

Il numero di riconoscimento lo avevamo già avuto tutti quanti, quando eravamo stati fatti prigionieri ed io, come già detto, avevo il 35322 ben marchiato sul colletto della mia divisa di carcerato, ma ora non si trattava più di essere solo esclusivamente un numero, la musica era cambiata e la mia condizione era diventata nel giro di poche ore drammatica. Le nostre vere sofferenze, mie e degli altri internati nel campo, stavano per cominciare, non eravamo più come prima prigionieri, si fa per dire a piede libero, adesso eravamo rinchiusi in un vero campo di disciplina, quasi simile a un campo di concentramento. Quella sarebbe stata per tutti un’esperienza indimenticabile, che avrebbe segnato in maniera indelebile le nostre vite e tanti di noi non sarebbero più tornati alle loro famiglie e alle loro case. Sento ancora un brivido al ricordo di quel periodo, ma allora, come adesso, ho sempre confidato nell’aiuto di Dio, nella forza dei miei principi e nella mia strenua lotta per la sopravvivenza.

La prigionia, come detto, era molto dura ed estenuante, il cibo era scarsissimo e di pessima qualità e consisteva solitamente in qualche patata, una crosta di pane e una porzione di acqua maleodorante. Ogni giorno dovevo inventarmi un espediente per avere un po’ più di cibo, a volte riuscivo a scambiare le mie sigarette con delle patate, altre volte facevo il giocoliere e riuscivo a farmi dare delle patate, che lanciavo in aria per poi riprenderle al volo con la bocca. La sera, poi, ci riunivamo nella baracca, tutti intorno ad una vecchia stufa a legna a scaldarci e far cucinare le patate da me racimolate durante la giornata.

Nel campo era molto importante, direi anzi decisivo per la sopravvivenza, conoscere almeno un mestiere, perché i tedeschi non ne volevano sapere di gente che non faceva nulla. Quasi ogni giorno arrivava un ufficiale nella nostra baracca, alla ricerca di qualche prigioniero che sapesse sbrigare un particolare lavoro. Una volta avevano bisogno di un sarto, allora io ho alzato subito la mano e mi sono offerto, nonostante sapessi appena tenere un ago in mano. Quella volta mi è andata bene, c’era da rammendare una divisa e delle camicie, ed io cercando di ricordare come cuciva mia madre, quando la sera ci sedevamo tutti attorno al braciere e lei, con maestria, riusciva a sistemare i nostri vecchi e usati capi di abbigliamento, sono riuscito a cavarmela bene, ricevendo in cambio una porzione doppia di cibo. Un’altra volta avevano bisogno di un muratore ed io, come sempre, ho subito alzato la mano. Così, ogni volta che c’era bisogno di qualcuno, io mi proponevo subito e mi ingegnavo per fare tutto quello che mi chiedevano di fare.

Un giorno è venuto un soldato per cercare un calzolaio, immediatamente ho alzato la mano, ma il soldato, sospettando che lo volessi fregare, mi ha picchiato gridandomi che lui non credeva che io sapessi fare anche quel mestiere. Con le poche parole di tedesco che sapevo, l’ho implorato che mi facesse provare e se non ci fossi riuscito, poteva anche uccidermi. Il lavoro consisteva nella riparazione di un paio di stivali che appartenevano a un alto ufficiale tedesco, che teneva tantissimo alle sue calzature, questi stivali erano ridotti in pessime condizioni, tanto che il capo calzolaio del campo non se la sentiva di fare lui la riparazione e temeva una severa punizione da parte dell’ufficiale. Allora mi sono seduto al banchetto, ringraziando il Signore che mi aveva spinto, tanto tempo prima, a imparare quel mestiere da mio padrino. Effettivamente gli stivali erano proprio in condizioni disperate, ma io non mi sono perso d’animo, ho chiesto che mi facessero avere il materiale necessario e mi sono messo all’opera, sotto lo sguardo attento del soldato, che aspettava con ansia un mio errore per saltarmi addosso. Avrò detto non so quante “Ave Maria” durante la riparazione, ma alla fine il lavoro era riuscito alla perfezione e gli stivali erano ritornati come nuovi. Il capo calzolaio non stava in se dalla gioia e, dopo aver cacciato in malo modo il soldato, ammonendolo che non si permettesse più di picchiarmi, ha ottenuto dall’ufficiale di tenermi con lui.

Il mestiere di calzolaio era molto ricercato, perché le scarpe scarseggiavano e chi ne possedeva un paio, sapeva bene che difficilmente avrebbe potuto averne un altro, pertanto era di vitale importanza che ci fosse qualcuno che sapesse riparare quel prezioso bene. Il lavoro era tanto e a me andava bene così, finché avevano bisogno della mia opera, ero al sicuro. Ogni giorno vedevo morire dei prigionieri, chi per stenti, chi per deperimento, chi per una qualche malattia, ma io continuavo ad andare avanti, con la sola forza della mia fede e della mia volontà.

Un giorno alla settimana mi mandavano in un paesino vicino al campo di prigionia a fare diversi lavoretti, che consistevano prevalentemente in opere murarie e riparazioni di calzature. In particolare, andavo a lavorare in una grande cascina nella quale allevavano dei maiali. Avevo sempre molta fame e guardavo con ingordigia il cibo destinato agli animali, così con la scusa di andare fuori a orinare, mi avvicinavo con cautela al truogolo e mi mettevo a mangiare l’impasto di ghiande insieme ai maiali. Un giorno, però, mentre ero intento a sbaffare l’impasto mi hanno scoperto, la guardia era una persona molto anziana e non tanto cattiva, dallo spavento mi tremavano le gambe e non riuscivo a parlare, allora il soldato, nel vedermi in quelle condizioni, mi ha detto di non farlo più, che per questa volta non avrebbe riferito il mio comportamento ai superiori, ma guai se avessi osato farlo un’altra volta, mi avrebbe consegnato al plotone di esecuzione per fucilarmi. Contento di avermela cavata a buon mercato ho ringraziato e promesso di non ripetere più quel comportamento.

La gente del paesino iniziava a volermi bene, venivo accolto con benevolenza nelle loro case, ero sempre disponibile a fare qualunque lavoro e loro hanno iniziato a chiamarmi “Gospo Ivan”, a me piaceva che mi chiamassero così e, piano piano, ho iniziato a capirli e a parlare la loro lingua. Rispetto agli altri prigionieri, che pativano la fame e il freddo, stavo un po’ meglio, il cibo era sempre scarso, ma sempre meglio di quello che ci passavano al campo. Io, comunque, avevo ugualmente sempre fame, quindi, quando potevo andavo in cerca di cibo, per me e per i miei compagni di sventura, da dividere insieme la sera quando ritornavo al campo. Un giorno mentre riparavo un pollaio, ho visto una gallina per terra che sembrava morta, dopo essermi guardato intorno, visto che nessuno mi spiava, l’ho sollevata e le ho tirato subito il collo per maggior sicurezza. Dopo averla nascosta sotto il mio logoro pastrano, ho ripreso a lavorare. Scesa la sera, giunto il momento di ritornare al campo, il padrone del pollaio stava per chiamare la guardia che mi avrebbe dovuto riaccompagnare, quando si è accorto che dal mio pastrano spuntavano alcune piume. Al suo ordine ho subito aperto il cappotto, lasciando intravedere la gallina morta. Ero certo che mi avrebbe denunciato alla guardia e che la mia ora era giunta, questa volta mi avrebbero fucilato! E invece no, mi ha chiesto perché lo avevo fatto ed io candidamente gli ho risposto che avevo sempre fame e che, inoltre, dovevo pensare anche ai miei compagni che stavano peggio di me. Impietosito dal mio racconto, mi ha detto che era meglio non mangiare quella gallina, che forse era malata, e in cambio mi ha dato una gallina già cotta avvolta in grande tovagliolo, alcune focacce di pane e delle patate. Dopo ha chiamato la guardia per riportarmi al campo e gli ha detto che la roba che avevo era un suo regalo e che non si azzardasse a toccarla. Al mio rientro nella baracca ho chiamato tutti gli altri prigionieri e gli ho mostrato tutto quel ben di Dio, la fame era tale che abbiamo sbafato tutto in pochi minuti. Quella notte, dopo lungo tempo, tutti siamo andati a dormire a pancia piena.

Ben presto, però, è finita la cuccagna, il paesino era stato evacuato e, pertanto, non ho più avuto possibilità di uscire dal campo. La mia fame cresceva giorno dopo giorno, a volte mi sembrava di impazzire, il mio stomaco vuoto borbottava in continuazione, così per riempirlo con qualcosa ho iniziato a ingoiare dei sassolini, che sceglievo fra i più lisci e privi di asperità, che deglutivo lentamente lasciando che si posassero nello stomaco, dandomi la sensazione di una certa sazietà.

Col tempo anche questo espediente cominciava a non bastare, le porzioni di cibo erano sempre più scarse e prive di qualsiasi sostanza, continuavo a deperire a vista d’occhio e pensavo che se non fossi riuscito a ingurgitare una qualche cosa, che placasse la fame, sarei morto. Un giorno, mentre ero nella cappella del campo di prigionia per eseguire alcuni lavori di restauro, il mio sguardo è caduto sul contenitore delle candele votive, subito mi è venuto un lampo di genio, così mi sono guardato attorno e senza indugiare ho preso tre candele che, dopo essermi fatto il Segno della Croce e chiesto perdono alla Madonna, ho trangugiato come fosse cibo di sovrani. Le candele erano molto migliori dei sassolini, era più facile inghiottirle e avevano un sapore accettabile, per renderle più appetitose le impastavo con acqua e buccia di patate. Purtroppo, anche questo doveva finire, un giorno il prete che celebrava la messa nel campo di prigionia, preoccupato dal fatto che il numero delle candele andava via via diminuendo, senza peraltro trovare i mozziconi delle stesse nel foro in cui erano infilate, ha iniziato a insospettirsi e si è messo a spiarmi. Così mentre ero intento a prendere la mia porzione quotidiana di candele, mi ha colto con le mani nel sacco. Mi ha guardato con occhi di fuoco e mi ha detto che prima gli uomini, poi Dio mi avrebbero punito per il mio gesto. Allora mi sono inginocchiato ai suoi piedi e gli ho detto che non temevo la punizione del Signore, perché tutti i giorni lo veneravo e pregavo per la salute e la pace di tutti, quello che mi preoccupava era la mia sorte terrena, non per me, che ero più che mai stanco di quella, si fa per dire, vita, ma per la mia famiglia, per mia moglie e per mio figlio, che era appena un bambino, che avrebbero sofferto se io non fossi più tornato nella mia terra. Le mie semplici e accorate parole, sono riuscite a colpire il cuore del sacerdote, che mi ha perdonato, assicurandomi che non mi avrebbe denunciato ma, una volta terminati i lavori, non sarei più dovuto ritornare in chiesa.

I giorni sembravano non aver mai fine, i nostri carcerieri erano sempre più severi e ci controllavano costantemente, inoltre ci costringevano a raderci la barba tutti i giorni, però non ci davano gli strumenti per rasarci, quindi bisognava ingegnarsi. Per mia fortuna ero riuscito a trovare una vecchia lametta da barba, tutta arrugginita e quasi senza filo, meglio di niente comunque, per non farmela portare via dovevo tenerla nascosta sotto il letto e avevo sempre il terrore che potessero trovarmela. Questa, come tutte le altre, era una delle tante angherie che ho dovuto sopportare, senza potermi lamentare, perché in questo caso avrei subito ulteriori punizioni rischiando, inoltre, un allungo del periodo di detenzione. L’ultimo giorno, poi, doveva dimostrarsi il peggiore di tutti, ero arrivato a un punto tale di sfinimento che il mio peso era ben al di sotto di 40 chili, al punto tale che svenivo in continuazione, ma nonostante questo mi hanno costretto, a furia di bastonate sulla schiena, a raccogliere la ghiaia da terra per metterla in un secchio poi, appena finito di riempirlo, dovevo svuotarlo e dopo continuare a riempirlo, per poi di nuovo svuotarlo, così di seguito fino all’infinito. In quel momento ho pensato che non avrei potuto farcela e che si stava avvicinando la mia ora, quando, fra uno svenimento e l’altro, ho avuto come una visione e mi è apparsa la Madonna, identica, nell’aspetto, alla statua esposta nella chiesa di Nulvi, mi ha guardato con amore e poi mi ha detto queste parole: “Stai tranquillo che ti salvi”. Allora, quasi per miracolo, mi sono ritornate le forze e la voglia di reagire, così ho ripreso a riempire e svuotare il secchio e mentre lavoravo, mi rivolgevo alla Madonna dicendole: “Madonnina mia aiutami tu”, fino a quando il mio sorvegliante mi ha detto che poteva bastare. Da quel giorno la Madonna mi è sempre stata vicina e non mi ha più abbandonato.

 

 

 

 

 

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