Categoria : cultura

Πόλεμος (polemos= guerra) di Francesco Obinu


Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi
Eraclito di Efeso

Pólemos, il mitologico demone della guerra, era la figura usata dal filosofo greco Eraclito per illustrare l’idea di “conflitto”, che egli poneva alla base della sua dottrina dell’“unità dei contrari”. Secondo questa dottrina, la legge fondamentale del Mondo risiede nel legame di interdipendenza fra elementi contrari (ad esempio: amore-odio, fame-sazietà, pace-guerra, salita-discesa). In quanto opposti, essi confliggono fra di loro ma, nello stesso tempo, ciascuno di essi non esisterebbe se non esistesse anche il suo contrario. Il conflitto fra i contrari, dunque, è disordine e armonia insieme, è l’“unità” che Eraclito indicava appunto come la legge fondamentale che sta alla base del Mondo, dell’Esistenza stessa.

Allora, perché vi sia la pace è necessario che vi sia anche la guerra; perché vi siano le condizioni favorevoli allo sviluppo e al progresso umano è necessario che vi siano anche le rispettive anti-condizioni. Bene, non farò certo esercizio di dialettica confutativa. Non è il mio mestiere. Dirò semplicemente che la mia cultura pacifista mi impedisce di condividere l’idea che la guerra sia utile e addirittura necessaria al progresso dell’Umanità. Io penso piuttosto che il progresso sia legato alla capacità di risolvere i problemi sul piano del confronto costruttivo, che cerca l’accordo ed evita il conflitto.

Riconosco, invece, che in alcuni e ben determinati casi il ricorso alle armi possa essere inevitabile: ad esempio, per fermare l’aggressione militare attuata da uno Stato ai danni di un altro; per fermare il dittatore che soffoca nel sangue i moti libertari e democratici; per impedire, in generale, che la violenza e la prevaricazione siano assunte a mezzi per regolare i rapporti fra i Popoli, o fra il Governo e il Popolo. Di conseguenza, l’azione di guerra può essere intesa come “inevitabile”, secondo me, soltanto quando soddisfa tre condizioni ineludibili:

Dev’essere diretta esclusivamente alla salvaguardia o al ristabilimento della pace violata.

Dev’essere praticata soltanto dopo avere attuato tutto l’umanamente possibile per evitarla; dopo, cioè, avere utilizzato tutte le risorse a disposizione della politica e della diplomazia per risolvere il casus belli in modo pacifico.

Dev’essere approvata e decisa esclusivamente dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel rispetto assoluto della disciplina prevista dalla Carta delle Nazioni Unite, all’articolo 33: «Le parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e delle sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguirne una soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta». All’articolo 41: «Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l’impiego della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure». E all’articolo 42: «Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale».

Le azioni di guerra decise e attuate al di fuori dell’Assemblea dell’ONU, vuoi dai governi dei singoli Stati, vuoi dagli organismi che a vario titolo aggregano diversi Stati (ad esempio la NATO), non sono, pertanto, ammissibili. Mi sembra infatti che queste azioni particolari rispondano alla volontà di aggirare le barriere che la Carta delle Nazioni Unite ha eretto contro la dannosa abitudine, troppe volte certificata dalla storia passata e recente, del bellicismo calcolativo. Chiamo bellicismo calcolativo quello che presume che le potenze economiche e militari possano ricorrere alla forza delle armi per tutelare o espandere i loro interessi geopolitici.

Il bellicismo calcolativo (com’è evidente) contraddice totalmente le tre “condizioni ineludibili” che definiscono una guerra come “inevitabile”. So bene, poi, che le decisioni assunte in ambito ONU non possono rappresentare una garanzia assoluta contro il bellicismo calcolativo. Questo perché le Nazioni Unite sono un organismo imperfetto, dotato di un Consiglio di Sicurezza ancora troppo ristretto e poco rappresentativo delle tante voci del mondo; e in balìa di alcuni Stati – i Membri Permanenti – che hanno il diritto di imporre il loro “veto” alle risoluzioni assembleari su cui, per i motivi più diversi, non si trovino d’accordo. Tuttavia, nell’attesa e nella speranza che l’Organizzazione possa darsi criteri di funzionamento migliori, non abbiamo altro per frenare il demone della guerra. A parte il buon senso, ovviamente.

So bene, pure, che ogni azione militare “inevitabile”, oltre al conseguimento degli obiettivi ideali dichiarati (la libertà, la democrazia, i diritti umani eccetera), ricerca anche vantaggi materiali. È sempre stato così: la guerra condotta dagli Americani per liberare l’Europa dal nazifascismo, ad esempio, rispondeva anche all’esigenza di sostenere la vertiginosa crescita degli Stati Uniti, che da potenza continentale stavano ormai assurgendo al grado di potenza mondiale. L’impegno bellico ha costi molto elevati, che richiedono di essere compensati adeguatamente: è una “giustificazione” cruda, che in ogni caso macchia l’idealismo degli intenti, ma so che nessuno ha mai fatto, né farà mai una guerra, sia pure la più “giusta”, senza aspettarsi qualcosa in cambio che lo ripaghi almeno delle perdite materiali (dando per scontato che le perdite umane, invece, hanno un valore inestimabile). Mi accontento che quel “qualcosa” corrisponda sempre al costo di una guerra “inevitabile” e mai al bottino di una guerra biecamente calcolativa.

Dunque, e purtroppo, non mi sento di condividere la posizione di chi, con fermezza e coerenza per altro ammirevole, rifiuta l’intervento armato sempre e comunque. Dico purtroppo, perché la guerra è sempre morte e devastazione. È sempre Pólemos, lo spettro di rovina e paura che circonda il piccolo di Hiroshima in lacrime. Diceva Albert Einstein che la guerra non può essere “umanizzata”, ma soltanto “abolita”. Sul primo punto aveva evidentemente ragione; ma l’Umanità arriverà mai a costruire una Civiltà capace di confinare la violenza in un oblio senza ritorno?

 

Commenti

  1. Condivido pienamente la sensibilità di Francesco Obinu di fronte agli eventi bellici. Gli uomini non vivono nel modo per farsi la guerra, ma per amarsi, ma di fronte a certe prevaricazioni sugl’innocenti non ci permette di starcene a guardare come avvine tutti i giorni nelle strade urbane delle città occidentali: vediamo colpire ferocemente un uomo o una donna, un clochard o un ragazzo qualunque e passiamo indifferenti. Se questo significa essere pacifisti vuol dire che la pace non è quella che si vuole. Angelino

    scriptor
    Luglio 17th, 2011
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