Il maestro nella scuola elementare italiana dall’Unità alla Grande Guerra di Carla Ghizzoni

Premessa

In una recente riflessione sugli indirizzi della storiografia dell’educazione in Europa, Dominique Julia ha individuato nella storia della cultura scolastica la nuova frontiera della ricerca in questo settore . Essa intende far luce sulla vita interna alle istituzioni scolastiche e valorizza gli studi che hanno come oggetto di indagine sia le norme che regolano la funzione docente e la trasmissione del sapere – inteso e come conoscenze disciplinari e come modelli di comportamento – sia le pratiche messe a punto per promuovere la trasmissione e l’assimilazione dei contenuti. Si tratta di una metodologia che consente di colmare le lacune dell’approccio politico-istituzionale e di quello sociale e economico. Il primo, il più frequentato dagli studiosi specialmente in Italia , circoscrivendo l’indagine ad un’analisi dei progetti pedagogici e politici e dei testi normativi, tende a attribuire a questi stessi progetti un potere di cambiamento incondizionato. Il secondo approccio, grazie all’ausilio di metodi statistico-quantitativi, ha il merito di ricostruire i ritmi della scolarizzazione e dell’alfabetizzazione nel quadro delle più complesse dinamiche sociali, ma rimane anch’esso legato ad una prospettiva “estrinsecista” che impedisce di verificare come operarono nelle aule scolastiche i meccanismi di selezione. Ai fini di un’elaborazione della storia della cultura scolastica, pur riconoscendo l’oggettiva difficoltà a reperire tracce e documenti relativi a tali tematiche negli archivi scolastici, è stata segnalata la necessità di avviare ricerche sui curricula, sulla pratica didattica, sui protagonisti della relazione educativa in seno alla quale avviene la mediazione fra progetto politico-scolastico e pedagogico e situazione reale nella quale il docente e l’alunno si trovano a operare. Di qui l’urgenza, sottolineata dagli studiosi, di ricerche sulla formazione degli insegnanti, sulla loro estrazione sociale, sui meccanismi di reclutamento, sui processi di professionalizzazione e di aggiornamento.

A dire il vero se in Italia sono scarse le indagini sui docenti secondari, non mancano studi sul maestro elementare. Sia pure con un certo ritardo rispetto alla storiografia internazionale e, in particolare, a quella francese , anche nel nostro paese, già a partire dagli anni Settanta, nel quadro di una nuova attenzione per la storia dell’istruzione primaria, hanno visto la luce importanti contributi sulla figura del maestro. Si pensi alle ricerche di Ester De Fort, di Giovanni Vigo , di Angelo Broccoli , di Francesco De Vivo , di Marcello Dei , di Redi Sante Di Pol , di Alberto Barausse . Se queste ricerche hanno avuto l’indubbio merito di fornire un profilo della classe docente italiana all’interno delle vicende scolastiche dall’Unità in poi, un considerevole apporto al progresso delle nostre conoscenze in ordine alla professionalità magistrale è sicuramente venuto dalla recente pubblicazione di alcune indagini che hanno portato alla luce una ricchissima messe di documenti e di fonti di rilevante interesse per un’analisi dei maestri in Italia, della loro formazione, della prassi didattica. Intendo riferirmi al lavoro svolto dal gruppo di ricerca coordinato da Giorgio Chiosso sui periodici scolastici dell’’800 e del ‘900. Il denso repertorio dei giornali didattici apparsi in Italia tra il 1820 e il 1943 rappresenta una vera e propria miniera di notizie dalla quale non può prescindere chi voglia intraprendere un’indagine sulla classe docente nel nostro paese . Penso altresì al volume sulla scuola normale apparso nella collana “Fonti per la storia della scuola”, curata dall’Archivio Centrale dello Stato, che raccoglie una parte della documentazione conservata presso lo stesso Archivio Centrale dello Stato di Roma relativa all’evoluzione di questo istituto scolastico fra Unità e età giolittiana e, più in generale, alla formazione degli insegnanti primari in questo periodo . E’ mancata però finora un’indagine a tutto tondo sulla realtà magistrale; un’indagine che fotografasse la figura del maestro in Italia tra Otto e Novecento: identità (maschi/femmine, senza patente/con patente, religiosi/laici), estrazione sociale, itinerari formativi compiuti, carriere professionali, stato giuridico e economico, genesi, sviluppi e ruolo dell’associazionismo.

Ovviamente non sarà possibile in questa sede – né credo lo sia per un singolo studioso – offrire una quadro così complesso. Alla luce della documentazione esistente – statistiche, inchieste ministeriali, stampa pedagogica – e della letteratura sull’argomento, lo sforzo compiuto sarà quello di tentare di individuare e di tracciare l’evoluzione della figura del maestro fra l’Unità e il primo decennio del Novecento attraverso un approccio metodologico che comprende tre livelli di analisi:

– Lo studio legislativo e normativo, che permette di delineare il disegno politico e il progetto pedagogico perseguito dalla classe dirigente e quindi il modello ideale di insegnante cui guardava l’élite politica e culturale. Emerge a questo livello quello possiamo definire il “maestro legale”.

– L’indagine degli itinerari e degli strumenti per la formazione culturale e professionale dei maestri.

– L’esame delle condizioni di vita materiale degli insegnanti primari: stato giuridico e economico, immagine sociale, pratica didattica.

Il secondo e il terzo livello di indagine ci consentono di far emergere “il maestro reale” e lo scarto esistente fra quest’ultimo e il modello ideale di insegnante delineato dalla normativa e dai testi pedagogici. Tale approccio può altresì far luce sui momenti di crisi, ovvero sulle modalità attraverso le quali il docente delle scuole primarie avvertì lo iato fra l’immagine ideale della professione magistrale e le condizioni reali in cui di fatto la esercitava, nonché sulle strategie mediante le quali egli cercò di sanare questo scarto e di avvicinare la quotidianità della propria vita alla idealità del proprio lavoro.

Tale analisi si articolerà in tre punti che corrispondono a tre differenti fasi dell’evoluzione della figura del maestro: il periodo che va dalla legge Casati alla caduta della Destra storica; gli anni compresi fra il 1876 e la fine del secolo; il primo ventennio del Novecento.

L’età della Destra storica: alle origini della classe magistrale italiana

In una circolare del 3 gennaio 1865 inviata ai Prefetti, ai provveditori e agli ispettori provinciali, il ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Natoli, mentre ricordava il progresso compiuto dall’istruzione popolare nelle diverse province italiane dall’Unità in poi, con speciale riferimento a quelle ove – come scriveva il ministro – “per l’addietro era stata più negletta”, sollecitava tutti gli enti coinvolti in tale ambito a non venire meno ai propri doveri in ordine alla promozione dell’educazione popolare. Egli, in particolare, auspicava che fosse “debito primo delle Podestà amministrative e scolastiche di usare tutte le maggiori diligenze nella scelta dei maestri e delle maestre elementari, onde la capacità vada sempre accompagnata all’onorato costume, e sia limpida la fonte da cui debbono derivare i primi ammaestramenti ai figli della classe più numerosa di un popolo, che per assodare la propria libertà sente il bisogno d’instaurare largamente i salutari principii della pubblica morale”. A suo avviso, se si voleva che l’istruzione contribuisse al “rialzamento morale delle infime classi”, era necessario innanzitutto che le autorità locali rendessero “meno disagiata la carriera del maestro e della maestra elementare” salutati quali “modesti soldati della sapienza e della libertà” . Di qui, da parte del Ministro, l’istituzione di onorificenze e di premi da destinare ai maestri che si fossero distinti nella loro professione. Si noti che tali premi erano riservati non a insegnanti che eccellevano per abilità didattica e per cultura, ma a docenti di comuni rurali che, nonostante le difficoltà dovute al “tenue stipendio” e all’elevato numero di allievi ai quali attendere, a costo dei forti sacrifici personali avevano dato alla loro scuola “un stabile ed efficace avviamento” e avevano ottenuto “l’estimazione presso i compaesani” . Il brano citato, al pari di altri analoghi documenti coevi, lumeggiava il modello ideale di insegnante cui la classe dirigente della Destra storica guardava: egli era chiamato a radicare fra il popolo i valori morali e civili sulla base dei quali si voleva costruire la nazione e a promuovere l’unificazione linguistica del paese, come si preoccupava di precisare Michele Coppino nei programmi del 1867 per le elementari .

Si trattava dunque di un insegnante che aveva sicuramente l’obbligo di studiare, di individuare il metodo migliore per insegnare, ma il cui prioritario dovere era quello di emergere, all’interno della comunità nella quale operava, come esempio, “modello autorevole” sul piano morale, come scriveva Angelo Fava – ispettore dell’istruzione tecnica, primaria e normale – nella circolare del 26 novembre 1860, contenente le Istruzioni ai Maestri delle scuole primarie sul modo di svolgere i programmi per la scuola elementare emanati nel settembre del 1860. Nei piccoli paesi ove la scuola insieme alla chiesa rappresentavano l’unico “sussidio morale” per i fanciulli e per le loro famiglie, l’insegnante aveva il dovere – scriveva Fava – “di andare ben cauto nella scelta delle società da lui frequentate, di condurre una vita lontana dalle dissipazioni, di non mai immischiarsi in brighe di parti, (…) di mettere in pratica tutte le regole di incorrotta morale e di civiltà cui egli è chiamato a mostrare agli alunni” . Va subito segnalato che a fronte dell’enfasi posta da questo testo normativo e da altri della stessa epoca sul ruolo svolto dal maestro elementare in ordine alla promozione dell’identità nazionale nel popolo italiano, questi stessi documenti sottolineavano a più riprese il carattere modesto della professione del docente delle elementari, i sacrifici che egli era chiamato ad affrontare, la scarsa remunerazione a lui riservata. Certo la Circolare Natoli del 1865 testimoniava un sensibile progresso nella presa di coscienza della classe politica del tempo circa i problemi economici degli insegnanti elementari rispetto alla Circolare Fava, la quale, preso atto dell’esiguità dello stipendio del maestro, concludeva che spettava comunque agli insegnanti risollevare “nella stima del pubblico” la propria professione dimostrandosi solleciti, studiosi, rispettosi dell’autorità . Tuttavia, pur registrando in questi anni una consapevolezza sempre più chiara della necessità di prevedere dei miglioramenti dello stato giuridico e economico dei docenti primari, si dovette attendere l’avvento della Sinistra storica al governo per vedere varati provvedimenti a favore della classe magistrale.

La legislazione vigente riguardante la formazione degli insegnanti elementari rifletteva questa visione della professione magistrale. Com’è noto gli articoli relativi alla scuola normale erano contenuti nel titolo V della legge Casati, ovvero nella parte relativa all’istruzione elementare. La sua istituzione e i suoi fini erano dunque funzionali al progetto di alfabetizzazione e di scolarizzazione del paese perseguito dalla classe dirigente . La scuola normale, di durata triennale, non era considerata, né lo sarebbe stata ancora per lungo tempo, un istituto di istruzione secondaria. L’accesso era consentito a coloro che avevano 15 anni se donne e 16 anni se maschi e che avevano superato un esame di ammissione. Dopo il corso biennale si poteva aspirare alla patente di grado inferiore e dopo quello triennale alla patente di grado superiore. I programmi per questo istituto, varati dal ministro De Sanctis con il regolamento del 9 novembre 1861, assicuravano al futuro maestro una cultura generale di livello elementare e una formazione pedagogica più attenta alle regole proprie della professione, che volta a sollecitare una riflessione sull’educazione. La formazione professionale si riduceva all’addestramento didattico e all’acquisizione di quei comportamenti sociali e morali che il futuro insegnate elementare avrebbe dovuto adottare. Infatti, tra gli argomenti previsti dal programma di pedagogia per la terza classe della scuola normale figuravano, accanto alle indicazioni su come svolgere le lezioni, “disposizioni morali del maestro elementare; zelo del proprio ufficio; amore allo studio e alla fatica; esemplarità del contegno; religione; probità; amore di patria; ossequio alle leggi; rispetto all’autorità” . Ancora una volta animava il testo normativo la volontà di fissare i contorni del modello ideale di insegnante che la classe dirigente liberale si aspettava per la scuola del popolo.

All’indomani dell’Unità la preoccupazione prevalente dei responsabili della Pubblica Istruzione in ordine alla questione magistrale fu indubbiamente quella di assicurare alle scuole elementari italiane il necessario numero di insegnanti. Tale urgenza – già affrontata dai governi provvisori delle province annesse al nuovo Stato con la creazione, ad esempio, di corsi magistrali della durata di pochi mesi – emerge dai provvedimenti successivi alla legge Casati. Già nel regolamento per le scuole elementari del 15 settembre 1860, attuativo della legge del 13 novembre 1859, al fine di diffondere capillarmente l’istruzione primaria in tutto il territorio nazionale e di agevolare l’adempimento dell’obbligo scolastico, il ministro Terenzio Mamiani sottolineava il problema della “troppa scarsità di maestri patentati” e cercava di porvi rimedio. L’articolo 62, ad esempio, concedeva ai comuni la facoltà di affidare il corso inferiore delle elementari maschili a maestre la cui opera, notava il Ministro, risultava per gli alunni più piccoli “convenientissima (…) più assidua, più paziente, più affettuosa” di quella dei loro colleghi uomini . Tale norma, alla quale avrebbero fatto ampio ricorso le amministrazioni municipali negli anni successivi , poneva le premesse per la progressiva femminilizzazione del personale docente degli istituti primari in Italia. L’articolo 62 già citato prevedeva altresì che i maestri non provvisti di patente potessero ottenere dall’Ispettore il permesso provvisorio di insegnare in scuole pubbliche. Tale permesso aveva validità annuale ma poteva essere rinnovato. In questo contesto si inscrive, ad esempio, anche il R.D. n. 475 del 16 febbraio 1862 che istituiva scuole preparatorie per le allieve maestre in alcune città dell’Italia centro-meridionale, alla fine delle quali era rilasciata un’attestazione che consentiva l’iscrizione alla scuola normale ma che serviva anche come autorizzazione provvisoria all’insegnamento nelle elementari inferiori .

L’inchiesta condotta nel 1864 dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione sulle condizioni della scuola in Italia documentava ampiamente le difficoltà incontrate dalle autorità scolastiche in ordine al reperimento di una classe magistrale affidabile sotto il profilo culturale e professionale. Le risposte inviate dagli ispettori al Consiglio Superiore denunciavano la mancanza di scuole normali. A quella data queste ultime erano 41, di cui 20 maschili e 21 femminili. Inoltre 39 province erano prive di scuole normali maschili e 38 mancavano di quelle femminili . Le stesse risposte sottolineavano lo sforzo compiuto dalle autorità scolastiche locali per sopperire a tale lacuna istituendo scuole magistrali – di varia durata – e Conferenze magistrali . Di qui l’eterogeneità dei percorsi formativi seguiti dai maestri nonché il diverso livello qualitativo degli studi compiuti, denunciati da Giovanni Scavia, Ispettore delle Scuole Normali, nella relazione contenuta nell’Inchiesta del 1864. “Vi hanno dunque presentemente – scriveva Scavia – Scuole normali governative, Scuole pareggiate alle normali, Scuole magistrali annuali, e Scuole o Conferenze magistrali di minore durata. (…) Quindi alcuni maestri si approvano dopo due anni di studio, altri dopo una scuola di due o tre mesi. Qui gli esami sono serj ed abbastanza difficili, là si danno con leggerezza e somma facilità. Taluno è approvato maestro superiore in una città, che in un’altra si approverebbe a mala pena pel grado inferiore. Tal altro ottiene la patente di maestro elementare, che appena potrebbe ammettersi al 1° corso in una Scuola normale” .

Ad un decennio dall’Unità d’Italia tale situazione non poteva dirsi ancora superata: anzi essa emergeva in tutta la sua realistica drammaticità dai dati raccolti fra il 1868 e il 1872 dalla Commissione d’Inchiesta sullo stato dell’istruzione primaria istituita per volere del Senato nel 1868 . Nella relazione sull’andamento delle regie scuole normali nell’anno scolastico 1870-1871 venivano rilevate le forti diversità esistenti fra questi istituti nelle diverse realtà locali relativamente sia allo stato dei locali sia alla qualità della proposta didattica e alla severità degli esami di ammissione e di licenza. Si notava, infatti che in alcune province “lo scarso numero degli allievi e il desiderio di vedere la scuola più frequentata” faceva sì che, “malgrado le ripetute raccomandazioni del Ministero”, fossero accolti “senza eccezione tutti coloro che si [presentavano] per essere accettati, e per le stesse ragioni si [promuovessero] alla fine dell’anno tutti gli iscritti”. Particolare preoccupazione destavano le scuole normali femminili del Sud nelle quali, “per falso amore di vedere la scuola frequentata”, venivano accettate ragazze la cui cultura non andava “al di là della coltura acquistata nella seconda classe elementare” e che inoltre arrivavano all’esame di ammissione “dopo di aver abbandonato gli studi per più anni”. La scadente preparazione iniziale degli studenti costringeva le scuole normali a abbassare la propria proposta formativa che si limitava a perseguire l’assimilazione mnemonica di “cognizioni indigeste e confuse” .

La carente formazione culturale e professionale dei licenziati delle scuole normali non rappresentava però l’unico neo della classe magistrale italiana e quindi il solo motivo di preoccupazione per i politici dell’epoca. Nella relazione che concludeva l’inchiesta del 1868, stilata nel 1873 dal Provveditore centrale Girolamo Buonazia, veniva infatti sottolineato che solo il 13% dei candidati all’esame per la patente elementare di grado inferiore tra il 1866 e il 1869 proveniva da “corsi magistrali regolari”. Gli altri, dopo aver frequentato l’istituto tecnico o il ginnasio, giunti all’età di 18 anni, si erano dedicati “all’acquisto di un diploma ed alla professione di maestro elementare come ad un ultimo rifugio”. Tale loro scelta era stata agevolata dalla “facilità dell’esame” e dall’“abbondanza dei manuali preparati (…) per improvvisare educatori”. In tal modo, rilevava con sconforto Buonazia, i due terzi circa dell’intero corpo docente degli istituti primari italiani avevano una formazione che consisteva “nella lettura di qualche catechismo pedagogico” .

L’eterogeneità dei percorsi formativi seguiti dai maestri e la loro affrettata preparazione negli anni immediatamente successivi all’Unità ebbero effetti deleteri sulla qualità del loro insegnamento. Denunce in tal senso provenivano dalle relazioni inviate al Ministro della Pubblica Istruzione dalle autorità scolastiche locali tra il 1868 e il 1870. Il Provveditore di Caserta notava, ad esempio, come lo sforzo profuso per reclutare in poco tempo gli insegnanti per le scuole elementari istituite in quella provincia all’indomani dell’annessione, avesse sortito gli effetti sperati, a scapito però del bagaglio culturale e dell’addestramento didattico dei maestri. I candidati, che erano stati ammessi “alla rinfusa” ai corsi magistrali, pur non sapendo “leggere bene” e pur scrivendo “malissimo”, e che avevano ottenuto la patente “con facilità meravigliosa”, erano divenuti insegnati sforniti non solo “delle piccole cognizioni atte all’insegnamento”, ma anche “di una certa autorità necessaria a serbar la disciplina nella scuola” . Condizioni di disagio della classe magistrale erano segnalate anche al Nord dove sicuramente migliore era la situazione dell’istruzione primaria rispetto al Sud, ma dove si registravano comunque forti differenze, sotto il profilo della qualità degli studi, fra le scuole elementari dei centri urbani, che godevano in genere di buona salute, e quelle dei comuni rurali, che conducevano una vita più stentata. In Lombardia gli ispettori delle province di Bergamo e Milano denunciavano lo stato di precarietà che caratterizzava la professione docente nelle campagne . In particolare l’ispettore del capoluogo lombardo rilevava che solo un terzo dei maestri del circondario di Monza e di Lodi poteva dirsi idoneo, gli altri o difettavano “d’ingegno e di coltura, o non [sapevano] adoperare né l’uno né l’altra” . Non minori preoccupazioni destava il circondario di Milano: qui, fatta eccezione per il Comune di Milano lodato per le lungimiranti cure riservate agli istituti primari, “lo stato dell’istruzione elementare della provincia – scriveva l’ispettore Palmucci – sta molto al di sotto di quello che comunemente si crede da chi non ha visto quelle scuole da vicino” .

L’urgenza con cui fu reclutato il personale docente della scuola primaria negli anni successivi all’Unità trova riscontro nei dati statistici che il Ministero della Pubblica Istruzione veniva raccogliendo in quella fase. Nell’anno scolastico 1862/1863 su 23680 insegnanti delle elementari pubbliche, 10395 maestri, pari al 43,9 % del personale docente, avevano un patente provvisoria. Tale percentuale era più alta negli istituti privati: qui gli insegnanti senza patente rappresentavano il 55% del corpo docente . Dopo otto anni la situazione era decisamente migliorata, ma non sanata. Ad un decennio dall’Unificazione il problema dei docenti primari non provvisti dei titoli legali segnava ancora la scuola italiana. Nell’anno scolastico 1871-’72 su 33929 maestri di istituti pubblici 7284, pari al 21,5%, erano in possesso di una patente provvisoria rinnovata ogni anno dalle autorità scolastiche locali. Decisamente più difficoltosa era invece la situazione nelle scuole private dove ben il 60,1% degli insegnanti era sprovvisto del titolo legale .

Va rilevato inoltre che una parte dei maestri in servizio nella scuola primaria all’indomani dell’Unità apparteneva al clero o a congregazioni religiose maschili e femminili. Nell’anno scolastico 1862-1863 nelle scuole pubbliche il personale docente religioso era pari al 33, 4% . E’ interessante notare che la presenza di religiosi nella scuola primaria non era distribuita in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale. Se infatti, nell’anno preso in esame, il numero delle maestre appartenenti a congregazioni religiose era inferiore a quello delle maestre laiche in tutte le regioni, il numero degli insegnanti religiosi faceva registrare sensibili variazioni nelle diverse realtà locali. Infatti mentre in Lombardia, Emilia, Marche, Umbria e Sardegna i docenti laici erano decisamente più numerosi dei loro colleghi religiosi , nelle altre regioni il numero di questi ultimi era uguale o nettamente superiore a quello dei primi. Per esempio in Basilicata e nelle Calabrie i religiosi rappresentavano rispettivamente l’84,2% e il 79% del personale docente. Una forte presenza di maestri appartenenti a congregazioni o al clero secolare si registrava altresì in Campania (71,5%), negli Abruzzi (68,3%), in Liguria (67,7%), in Toscana (58,4%) e anche in Piemonte (50,3%) . Questi dati inducono ad alcune riflessioni in merito allo stato delle ricerche sulla classe magistrale italiana. Se, come già si è detto, gli studi in tale ambito, conoscono una stagione di promettente sviluppo, mancano del tutto indagini sul personale docente religioso negli istituti pubblici e privati. Sarebbe interessante avviare ricerche sulla presenza dei religiosi nella scuola elementare postunitaria che verifichino gli elementi di continuità o di rottura con la situazione scolastica precedente al 1861 e ricostruiscano, anche grazie a fonti provenienti da archivi ecclesiastici, l’evoluzione di tale presenza nei decenni successivi, facendo luce, ad esempio, sul numero dei religiosi insegnanti e sulla loro distribuzione geografica, sui meccanismi di selezione e di reclutamento, sulla formazione culturale e professionale, sulle congregazioni religiose di appartenenza .

Lo sforzo compiuto dalla classe dirigente del tempo per dotare tutte le scuole del paese di docenti formati in tempi rapidi, muniti di titoli di studio necessari anche se non sufficienti per ottemperare al compito loro affidato di diffondere in tutto il paese l’istruzione di base, di fatto sortì, sia pure in parte, gli effetti auspicati. Rimando alla relazione di Roberto Sani, nonché all’intervento di Ester De Fort, presentati in questo Convegno, per i dati sullo sviluppo della scolarizzazione in Italia all’indomani dell’unificazione; uno sviluppo non omogeneo, che presenta forti differenze nelle diverse regioni, che rivela ritardi, ma anche significativi balzi in avanti, che hanno portato Toscani a parlare, per alcune aree regionali, di una crescita impetuosa della scolarizzazione .

I maestri italiani – definiti, come si è visto, dal Ministro Natoli “modesti soldati della sapienza e della libertà” – furono coloro che di fatto pagarono i costi delle lentezze, dei ritardi ma anche della progressiva e significativa diffusione dell’istruzione elementare nelle diverse realtà del nostro paese. La legge Casati, com’è noto, si preoccupava di fissare i minimi degli stipendi degli insegnanti, diversificati in base al tipo di scuola in cui lavoravano (urbana/rurale, inferiore/superiore), al sesso e alla classe, ovvero al grado di agiatezza e al numero di abitanti del comune in cui si trovava la scuola. Il testo legislativo del 1859 lasciava però i docenti primari in balia dei comuni i quali godevano della più ampia discrezionalità in materia di reclutamento e di licenziamento: l’articolo 333 infatti stabiliva che il maestro fosse eletto per un periodo di prova di tre anni e che dopo tale periodo l’amministrazione municipale potesse licenziarlo, confermarlo per un altro triennio o assumerlo a vita. Il comune era altresì libero di stabilire con i singoli docenti accordi e contratti ispirati a criteri diversi da quelli stabiliti dalla legge Casati .

L’ampia discrezionalità delle amministrazioni municipali nei confronti dei maestri, sia in tema di reclutamento sia in materia di remunerazioni, è documentata dalle inchieste del 1864 e del 1868. Le relazioni degli ispettori e dei provveditori raccolte in quelle occasioni fotografavano molto bene la realtà lavorativa della classe magistrale nelle diverse zone del paese. Non è possibile in questa sede dare conto di questa interessante e ricca documentazione. Farò comunque alcuni rimandi alle due inchieste al fine di far luce sulla situazione in cui gli insegnanti elementari svolgevano la loro professione nei primi anni dell’Italia unita. Secondo le risposte fornite al consiglio Superiore della Pubblica Istruzione nel 1864 dagli ispettori sia del Nord che del Sud, la maggior parte dei maestri dava lezioni private per compensare il magro stipendio che i comuni accordavano loro e che, in non pochi casi, risultava inferiore ai livelli minimi stabiliti dalla Casati. L’ispettore di Torino scriveva: “sono da compatire gli insegnanti se attendono a dare lezioni private per amore di qualche guadagno. I loro stipendi sono così sottili, che se ammalano, o fanno qualche po’ di allegria rimangono subito lisci di moneta e debbono contentarsi di pane ferrigno”. Minore comprensione, a suo avviso, bisognava invece dimostrare nei confronti dei maestri delle città che godevano di retribuzioni decisamente più alte e si dedicavano all’insegnamento privato solo per ingordigia: “Cotesti – scriveva l’ispettore – non adempiono il nobile ufficio d’insegnante, ma esercitano un mestiere unicamente per ritrarre mercede” .

Il fatto stesso che, nello stilare i quesiti ai quali gli ispettori dovevano rispondere, il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione prevedesse una domanda nella quale si chiedeva se i maestri erano studiosi e se davano lezioni private per “ragione di lucro” era indicativo di un’usanza consolidata fra la classe docente, dovuta all’esiguità delle loro remunerazioni fissate dalla Casati e alla consuetudine dei comuni di non riconoscere ai maestri gli stipendi legali . Gli ispettori erano concordi nel denunciare la miopia delle amministrazioni municipali, specialmente di quelli rurali, l’arbitrio con cui gestivano i rapporti con i maestri, la loro scarsa attenzione per i bisogni degli insegnanti costretti, come notava l’ispettore di Milano, a integrare il proprio stipendio non solo dando lezioni private, ma svolgendo anche altre professioni, come già era avvenuto nella prima metà dell’Ottocento . Dal canto suo l’ispettore di Porto Maurizio affermava: “Il ministero sa (…) che in molti Comuni, e non sempre fra i più poveri, si adoperano mille arti per togliere ai maestri elementari qualche somma al disotto del minimo legale. In seguito ai quali fatti il sottoscritto non solo non crede che siano da rimproverarsi i maestri che procurano di alleviare con qualche altro modo onesto o col lavoro la loro misera condizione, ma pensa che si debba provare meraviglia nell’osservare che trovino finora dei giovani che si applicano alla carriera dell’insegnamento” .

Nelle relazioni inviate alla Commissione d’Inchiesta voluta dal Senato nel 1868, molti ispettori e provveditori non si limitavano a stigmatizzare il comportamento dei comuni, ma sottolineavano l’ambiguità della Legge Casati in ordine alla tutela giuridica e economica degli insegnanti primari. Proprio tale ambiguità, notava l’ispettore di Bergamo, non facilitava il lavoro di chi, come lui, aveva ingaggiato una lotta contro le amministrazioni municipali per costringerle a assicurare ai maestri la giusta retribuzione. Egli scriveva: “In questa lotta, che dura dalla promulgazione della legge 13 novembre 1859, la condizione dei maestri venne sempre peggiorando, perché, o si defraudano dello stipendio legale, o quando questo si concede, essi vengono sottoposti alla sorte incerta della rielezione. Onde parecchi ricusano preventivamente ogni aumento per non correre il rischio di essere gettati colla famiglia sul lastrico senza mezzi di sussistenza” . Se si prendono in esame gli stipendi medi pagati ai docenti primari negli anni successivi all’Unità ci si rende conto della fondatezza delle denunce formulate dalle autorità scolastiche locali. Com’è noto la legge Casati stabiliva che gli stipendi legali oscillassero dalle 333 £. circa annue – previste per la maestra di scuola rurale inferiore di terza classe – alle 1200 £., destinate all’insegnante elementare di una scuola urbana di prima classe. La situazione reale degli stipendi era un po’ diversa da quella fissata dalla legge: nell’anno scolastico 1862-’63 la media degli stipendi minimi era di £. 339, per i maestri, e di 265 £. per le maestre, e la media dei salari massimi era di £. 561 per gli insegnanti e di 469 £. per le insegnanti. Merita rilevare che questi dati relativi agli stipendi medi debbono essere presi con cautela: le stesse statistiche documentano una situazione decisamente eterogenea nel nostro paese nelle diverse realtà locali. In regioni quali il Piemonte e la Lombardia, ad esempio, a fronte di docenti pagati 18-22 £. all’anno, vi erano insegnanti la cui remunerazione era di 1800-2200£ .

Un’idea più chiara delle condizioni di vita di maestri si può ricavare dal confronto fra le loro remunerazioni e quelle di altre categorie professionali. Nella risposta inviata nel 1864 al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, l’ispettore di Porto Maurizio rilevava la scarsa considerazione sociale di cui godeva questa professione alla quale era riconosciuto un salario inferiore non solo agli “inservienti del ministero”, ma anche a quelli “delle prefetture e delle Sotto-Prefetture”, “anzi – egli aggiungeva – i domestici, gli artigiani, i giornalieri sono ora retribuiti meglio dei maestri” . Il provveditore di Potenza, nella relazione stilata pochi anni dopo sullo stato della scuola elementare in Basilicata, affermava che non ci si doveva lamentare dello scarso valore attribuito all’istruzione primaria in Italia, visto che i maestri erano “meno retribuiti degli uscieri, dei commessi di negozio e qualche volta dei portinai” .

Lo studio di Vigo sul maestro nell’Ottocento ha dimostrato come tali denunce non fossero affatto infondate o rappresentative di singole realtà. Egli, infatti, ha messo in luce che, nel decennio successivo all’Unificazione, la retribuzione di un maestro rurale non si discostava da quella di un operaio medio, mentre un insegnante di un grande centro urbano poteva anche superarlo di un 40-50%. Confrontate con i salari dei dipendenti pubblici, le remunerazioni dei docenti delle scuole primarie risultavano, invece, sensibilmente inferiori: tra il 1861 e il 1907 un buono stipendio di un insegnante elementare di un centro urbano era pari a quello destinato al livello più basso degli impiegati dell’amministrazione centrale .

In conclusione possiamo dire che la legge Casati e la normativa promulgata negli anni successivi posero sicuramente le premesse per la costituzione di una classe magistrale sufficientemente qualificata, dotata di una funzione ben precisa all’interno del sistema scolastico italiano alla quale, peraltro, era attribuita un’indubbia rilevanza sociale. Questa stessa legislazione appariva però decisamente carente sotto il profilo della tutela giuridica e economica degli insegnanti riuscendo solo in parte a consolidare il prestigio sociale della professionalità docente.

Il maestro italiano negli anni della Sinistra storica

E’ stato rilevato che, nel periodo che va dalla salita al potere della Sinistra storica alla fine del secolo, la classe magistrale, almeno a livello di élites, appare caratterizzata da un deciso attivismo e dalla “configurazione di una fisionomia nazionale” che progressivamente sottrasse l’insegnante elementare alle tradizioni educative locali . Diverse le ragioni che spiegano questo processo. Innanzitutto occorre fare riferimento al progetto politico-scolastico perseguito dai governi della Sinistra storica, con il rilevante contributo della pedagogia positivista, a favore dell’istruzione popolare; un progetto, che possiamo senz’altro fare iniziare con la legge Coppino del 15 luglio 1877 sull’obbligo scolastico e che culminò nella promulgazione dei nuovi programmi per la scuola primaria nel 1888, volto a estendere a numero sempre più ampio di persone l’istruzione di base e a creare una scuola laica e nazionale . Vi era alla base di tale disegno quella visione fiduciosa nel sapere quale forza di elevazione morale e di progresso civile che animava la cultura dei governi dell’epoca e del positivismo e che portava intellettuali e pedagogisti, quali Gabelli, Villari, Angiulli e Siciliani e politici, come Coppino e Baccelli, a concepire l’istruzione come occasione di emancipazione non solo dei singoli individui, ma del paese nel suo insieme. Tale cultura, tuttavia, non giungeva ad elaborare un modello educativo e scolastico alternativo rispetto a quello proposto dalla legge Casati, in quanto non metteva in discussione il concetto di educazione come trasmissione del sapere guidata dall’alto, volta all’integrazione pacifica dei ceti subalterni nella società borghese del tempo, senza scardinare l’ordine sociale esistente .

Non a caso i nuovi ordinamenti sull’allargamento del suffragio elettorale (1882) furono fatti precedere dalla legge del 15 luglio 1877 che intendeva garantire e rendere effettivo il principio dell’istruzione obbligatoria già sancito, sia pure con alcuni limiti e contraddizioni, dalla Legge Casati . La classe dirigente liberale riteneva che l’estensione del voto dovesse essere subordinata all’elaborazione di un progetto pedagogico in cui l’istruzione fosse non fine a se stessa, ma funzionale ad una formazione globale – fisica, intellettuale, morale e civile – della persona, come sosteneva Aristide Gabelli nelle Istruzioni generali dei Programmi del 1888. Di qui l’ampliamento delle materie da insegnare nelle elementari, dove trovavano largo spazio la geografia, la storia alle quali era demandata la formazione nel popolo del senso di appartenenza alla nazione. Di qui ancora il rinnovamento del metodo didattico che non poteva limitarsi alla semplice trasmissione di nozioni, ma formare lo “strumento testa”. Il metodo deduttivo, secondo Gabelli, doveva lasciare il posto a quello intuitivo, scientifico, basato sull’osservazione e sul coinvolgimento diretto dell’alunno nelle lezioni . Da questo punto di vista i programmi del 1888 costituivano il coronamento dello sforzo compiuto dai governi del tempo per rafforzare la scuola pubblica: rendere effettivo l’obbligo scolastico non significava solo estendere ad un maggior numero di persone una cultura di base, ma migliorare qualitativamente questa cultura e dare ad essa una connotazione laica e nazionale, che spesso assumeva i toni dell’anticlericalismo .

Le aspettative nutrite nei confronti dell’istruzione popolare portarono la classe dirigente liberale a guardare con rinnovato interesse ai maestri, destinati ad essere i protagonisti di questa opera di nazionalizzazione delle masse e investiti dalla pubblicistica del tempo di un vero e proprio apostolato laico . Merita innanzitutto ricordare che, proprio in virtù della legge elettorale del 1882, i maestri, chiamati a radicare nei propri alunni il senso di appartenenza alla nazione, diventavano a pieno titolo cittadini italiani, in quanto finalmente godevano del diritto di voto . All’indomani della salita la potere, nell’arco di un decennio, la Sinistra storica mise a punto una serie di provvedimenti tesi a migliorare le condizioni giuridiche ed economiche degli insegnanti elementari. Tra questi meritano di essere ricordati: l’incremento del 10% del minimo degli stipendi (Legge 9 luglio 1876); l’istituzione del Monte-pensioni (Legge 16 dicembre 1878); il testo unico sui salari, sulla nomina e sul licenziamento, volto a dare maggiore stabilità al posto di lavoro che veniva in parte sottratto all’arbitrio dei comuni (Regio Decreto 19 aprile 1885); l’aumento delle retribuzioni dei docenti delle scuole primarie e l’introduzione di scatti salariali dopo un sessennio di effettivo servizio presso un comune (Legge 11 aprile 1886) .

Nel corso dell’ultimo ventennio del XIX secolo i responsabili della Pubblica Istruzione si preoccuparono altresì di migliorare la preparazione professionale e culturale degli insegnanti primari. Innanzitutto il loro intervento cercò di sanare i difetti della scuola normale dovuti all’impostazione data a questo istituto dalla legge Casati e di risolvere i problemi che erano via via emersi negli anni precedenti. In particolare l’attenzione della classe politica si concentrò sulla questione dell’intervallo di tempo che intercorreva fra la fine delle elementari e l’inizio della scuola normale alla quale, come si ricorderà, ci si poteva iscrivere solo dopo il compimento del quindicesimo anno di età se donne e del sedicesimo anno se uomini. Si trattava di un problema che riguardava soprattutto le ragazze le quali, finite le elementari, non avevano a disposizione gli sbocchi formativi che le preparassero alla scuola normale e che la Casati garantiva ai loro coetanei nell’ambito dell’istruzione secondaria liceale e tecnica . Di qui, con il nuovo Regolamento per l’istruzione normale varato da Francesco De Sanctis con il R.D. n. 5666 del 30 settembre 1880, l’istituzione di un corso biennale preparatorio per le scuole normali femminili . I successori di De Sanctis, e segnatamente Guido Baccelli e Paolo Boselli, si preoccuparono a loro volta di diffondere e di consolidare il nuovo corso la cui durata, nel 1889, fu elevata a tre anni, congiungendo così definitivamente le elementari alla scuola normale. Lo scopo del corso preparatorio non era solo quello di colmare la lacuna temporale che separava i due ordini di scuola, ma anche quello di dotare le future allieve delle normali di una cultura più approfondita affinché gli istituti preposti alla formazione dei maestri non fossero più costretti, come era avvenuto in passato, a abbassare la qualità dell’insegnamento per adeguarsi alla carente preparazione dei loro allievi. In tal senso vanno altresì letti i provvedimenti presi, sempre nel corso degli anni Ottanta, per rendere più selettivi gli esami di ammissione alla scuola normale che, come abbiamo avuto modo di vedere attraverso le denunce formulate in occasione delle inchieste ministeriali, si svolgevano con criteri molto eterogenei e, in non pochi casi, decisamente lassisti su tutto il territorio nazionale .

I provvedimenti sin qui ricordati documentano come alla fase dell’emergenza, coincidente con gli anni immediatamente successivi all’Unità, nella quale era prevalsa la preoccupazione di preparare il maggior numero possibile di insegnanti, fosse subentrata una fase connotata dalla volontà di formare buoni maestri, dotati di una professionalità di alto livello . Tale processo culminò nella Legge Gianturco del 12 luglio 1896 sulla riforma della scuola normale che, pur limitandosi a dare “una legittimazione legislativa ad una serie di cambiamenti introdotti in via amministrativa dai precedenti governi” e senza modificare sostanzialmente l’impostazione data all’istituto dalla legge Casati, di fatto testimoniava la volontà della classe politica del tempo di innalzare la qualità di questa scuola, elevata finalmente a istituto di istruzione secondaria . Significative, sotto questo profilo, alcune norme varate del ministro Gianturco quali la soppressione della patente di grado inferiore, la riduzione del numero di borse di studio per gli allievi delle normali, l’introduzione di tasse d’iscrizione che decretava la fine della gratuità dell’istruzione normale prevista dalla legge 13 novembre 1859, i miglioramenti economici per i docenti di questa scuola e la messa a punto di norme più severe per il loro reclutamento .

Nel corso dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, lo sforzo compiuto dai ministri della Pubblica Istruzione per innalzare il livello degli studi della scuola normale comprese anche l’ampliamento dei programmi delle materie insegnate e il rinnovamento dell’impostazione culturale di questa scuola che venne ispirandosi al pensiero positivista. Tale rinnovamento fu avviato da De Sanctis con i programmi varati nel 1880 i quali intendevano bandire dalla scuola normale ogni insegnamento di tipo dogmatico, accusato di ridurre la formazione dei futuri docenti elementari all’acquisizione meccanica di vuote formule e di concetti astratti, e introducevano il metodo intuitivo in virtù del quale l’allievo era chiamato a apprendere partendo dall’esperienza reale. A tale impostazione si conformava anche il programma di pedagogia il cui insegnamento doveva lasciare largo spazio alle esercitazioni pratiche. Nel contempo i governi dell’epoca si fecero anche carico del problema dell’aggiornamento culturale e professionale degli insegnanti in servizio. Fin dagli inizi degli anni Ottanta, prima con De Sanctis e poi soprattutto con Baccelli, riacquistarono prestigio e importanza le Conferenze pedagogiche. Secondo il regolamento del giugno del 1883 predisposto da Baccelli, esse erano organizzate tutti gli anni, a settembre, in ogni provincia e erano aperte a tutti i maestri della zona i quali potevano chiedere ai comuni un aiuto economico per partecipare all’iniziativa. Le Conferenze vertevano su “questioni di indole strettamente pedagogica e essenzialmente pratiche” e avevano lo scopo di diffondere fra gli insegnanti i nuovi metodi didattici e di rinnovare la scuola del popolo secondo i principi della cultura positivista .

Le disposizioni emanate a favore del personale insegnante non bastano tuttavia a spiegare le trasformazioni avvenute nella classe magistrale fra Otto e Novecento e, soprattutto, l’attivismo che la caratterizzò – almeno a livello di élites – in questo ultimo scorcio di secolo . Causa, e al tempo stesso, espressione dell’affermazione di un’identità nazionale nella classe magistrale fu l’incremento delle associazioni professionali degli insegnanti primari: delle 176 organizzazioni sorte fra il 1861 e la fine del secolo, 127 furono promosse dai maestri e, di queste, ben 98 si formarono negli anni Ottanta e Novanta . Superata la prospettiva municipalista che le aveva connotate fino a quel momento, le nuove organizzazioni professionali non ebbero più solo scopi di tipo assistenziale – sul modello delle prime esperienze mutualistiche torinesi e milanesi sorte a metà secolo – ma ampliarono i loro orizzonti, coniugando l’attività di tipo rivendicativo a quella di elaborazione politico-scolastica. A testimonianza del salto di qualità compiuto dall’associazionismo magistrale occorre ricordare che, proprio in questi anni e più precisamente a Genova nel 1892, si registrarono i primi tentativi per dar vita ad un’organizzazione professionale su base nazionale, che di fatto, come è noto, sarebbe sorta solo agli inizi del Novecento con la fondazione dell’Unione Magistrale Nazionale .

Non è possibile comprendere i progressi del personale docente della scuola primaria italiana in ordine alla maturazione di una coscienza di categoria e al miglioramento culturale e professionale se non si tiene presente anche l’importante funzione svolta in tal senso dalla stampa scolastica che, proprio in questo ultimo ventennio dell’Ottocento, conobbe un forte sviluppo . A fronte dei 119 fogli degli anni Settanta, tra il 1880 e il 1889 uscirono 141 testate e nel decennio successivo 147. Anche per quanto riguarda la distribuzione geografica di queste pubblicazioni si registrarono, nello stesso periodo, alcuni cambiamenti, segno del mutato contesto storico, culturale e pedagogico . Il primato detenuto da Torino, sia per numero di periodici pubblicati, sia per la quantità di copie vendute (nel 1873 un giornale su tre era torinese), venne progressivamente oscurato dall’intraprendente imprenditoria milanese e dalla centralità politica di Roma. Favorevoli ad una scuola laica nella quale forte fosse l’impegno e la presenza dello Stato, le riviste didattiche romane seppero ereditare quella funzione di orientamento della politica scolastica nazionale svolta, fino al 1870, dai periodici torinesi e fiorentini . Le pubblicazioni milanesi invece si distinsero non tanto per il loro peso politico, ma perché seppero dar vita ad un nuovo modello di editoria scolastica. Significativo il caso de “Il Risveglio Educativo”, la rivista per maestri fondata a Milano nel 1884 da Guido Antonio Marcati, una delle figure di spicco del giornalismo scolastico di fine secolo . Il foglio milanese documenta lo sforzo compiuto dalla pubblicistica educativa di fine Ottocento per uscire “dagli stretti confini dell’iniziativa gestita in economia o della pubblicazione sostenuta da interessi politici, per diventare parte di un’impresa economica” . Il periodico voluto da Marcati non solo assunse posizioni di avanguardia in campo politico, sostenendo l’avocazione delle scuole elementari allo Stato e la necessità di una federazione nazionale di maestri che giungesse a far sentire la propria voce in Parlamento, ma si costituì anche come un vero e proprio centro editoriale al servizio della scuola e della formazione dei maestri .

A partire dagli anni Ottanta la stampa periodica per insegnanti, e in particolare quella per i docenti delle elementari, non solo faceva registrare cambiamenti sul piano quantitativo e della distribuzione geografica, ma compiva un vero e proprio salto di qualità. Dirette molte volte da oscure figure di maestri, direttori, ispettori, imbevuti della cultura positivista, le riviste scolastiche non si limitavano più ad offrire schemi di lezioni preconfezionati, ma coinvolgevano l’insegnante in dibattiti di ampio respiro, interessandolo a tematiche non esclusivamente attinenti alla sua professione e favorendo, nello stesso tempo, la diffusione della cultura pedagogica di matrice positivista. Animava i redattori di queste riviste la convinzione che la moderna riflessione pedagogica potesse portare finalmente la scuola ad essere luogo della formazione dell’identità nazionale e strumento di integrazione fra le classi sociali più deboli e la borghesia. Sia pure ancora capillarmente distribuita in tutte le regioni italiane, la stampa pedagogica dell’ultimo ventennio del secolo presentava inoltre una maggiore omogeneità sul piano culturale e politico di quella edita all’indomani dell’Unità. Di qui l’importante ruolo svolto da queste pubblicazioni nella promozione di un modello educativo-scolastico che contribuì a emancipare progressivamente i maestri dalle tradizioni educative locali. A testimonianza dell’evoluzione che caratterizzò la classe magistrale nel periodo preso in esame, merita ricordare che nel 1897 e nel 1899 a Milano vedevano la luce rispettivamente “Il corriere delle maestre” e “I diritti della scuola” , destinati a svolgere un ruolo di primo piano nel dibattito politico-scolastico del primo Novecento. Segno del livello d’avanguardia raggiunto dall’editoria scolastica del capoluogo lombardo, i due periodici, con le loro richieste allo Stato italiano di miglioramenti delle condizioni di vita e di lavoro degli insegnanti elementari inscritte in un più ampio progetto di riforma del sistema scolastico del nostro paese, documentavano il radicamento e il consolidamento di una visione nazionale della scuola e del maestro. Fondamentale fu, com’è noto, il contributo dato da queste riviste alla promozione di un’associazione professionale nazionale dei docenti primari per la quale lavorarono alacremente fin dalla fine dell’Ottocento, sensibilizzando gli insegnanti e l’opinione pubblica, e che finalmente vide la luce con la fondazione dell’Unione Magistrale Nazionale nel 1901.

Se l’attivismo dei maestri di fine Ottocento documenta il cammino da loro compiuto in ordine sia alla preparazione culturale e professionale sia allo stato sociale, non si deve pensare che essi avessero miracolosamente risolto tutti i problemi connessi alla loro professione. Mette conto a questo punto verificare se e in quale misura i provvedimenti presi dalla Sinistra storica contribuirono a sanare i problemi della classe magistrale, consentendole di svolgere il compito affidatole di trasmissione dei valori etico-sociali, sulla base dei quali si voleva edificare l’unità nazionale e cementare la coesione fra i ceti sociali.

Un ispettore del Lazio, nella relazione inviata al Ministero sullo stato della scuola elementare nell’anno scolastico 1897-1898, si chiedeva come i docenti delle scuole primarie potessero adempiere alla loro missione civile di educatori se erano costretti a esercitare la loro professione in condizioni di forte disagio. Scriveva in merito l’ispettore: “come possono essi formare uomini di carattere, se la società non li ha nella dovuta stima? Se spesso, per la loro posizione precaria e meschina, sono soggetti a delle figure umilianti ed indecorose? Se, il più delle volte, non possono presentarsi in iscuola colla dovuta decenza? Se sono, specialmente nei piccoli Comuni, bersagliati dagli amministratori, che invece dovrebbero essere i loro protettori?”. La conclusione amara cui egli perveniva era che l’insegnante elementare non poteva essere “quell’ideale di maestro che vorremmo in Italia” .

La relazione stilata da Francesco Torraca, Direttore generale dell’istruzione elementare, sullo stato della scuola primaria nell’anno scolastico 1895-1896 e l’Inchiesta sull’istruzione elementare nell’anno scolastico 1897-1898, presentata da Vittore Ravà al Ministero della Pubblica Istruzione , dimostravano che la denuncia di questo ispettore non era affatto immotivata e documentavano che, a distanza di quasi quarant’anni dall’Unificazione, la classe magistrale italiana soffriva ancora di mali antichi: precarietà giuridica e economica, preparazione professionale e culturale lacunosa, scarsa considerazione sociale.

Le inchieste lamentavano le resistenze delle amministrazioni municipali ad introdurre i miglioramenti previsti sul piano giuridico e economico dal R.D. 19 aprile 1885 e dalla Legge 11 aprile 1886. Torraca, ad esempio, segnalava che la legge del 1885, nata per garantire la carriera del maestro elementare e per tutelarla dai soprusi delle amministrazioni municipali, aveva “corrisposto se non in piccola parte alle previsioni” . L’articolo 7 del Testo Unico del 19 aprile del 1885 stabiliva, infatti, che un maestro di prima nomina doveva compiere un biennio di prova. Se sei mesi prima dello scadere di tale biennio il comune non lo licenziava, la sua assunzione era prorogata per un sessennio, terminato il quale e ottenuto il certificato di “lodevole servizio” dal Consiglio Provinciale Scolastico, egli era nominato a vita. Torraca rilevava che molti municipi, ritenendo la nomina a vita “un’offesa alla loro autonomia” , tendevano a licenziare il maestro allo scadere del biennio di prova. Non minori complicazioni giuridiche aveva suscitato la questione del rilascio ai maestri dell’attestato di “lodevole servizio”. Tra il 1890 e il 1896, tale questione aveva rappresentato il secondo motivo di ricorso al Ministro, dopo le controversie per licenziamento, da parte dei comuni e dei maestri . L’inchiesta Ravà, dal canto suo, notava come l’attuazione della legge dell’11 aprile 1886, concernente il trattamento economico dei docenti primari, incontrasse ancora non pochi ostacoli. A suo dire, lo scatto salariale di un decimo dello stipendio dopo sei anni di effettivo servizio presso uno stesso comune, “anziché un beneficio”, si era rivelato “spesso di nocumento al maestro” , poiché molte amministrazioni, per evitare un ulteriore aggravio sul loro bilancio, licenziavano “senza una ragione al mondo” gli insegnanti allo scadere del primo o del secondo biennio di prova . La stessa Inchiesta lamentava che spesso i comuni non retribuivano con regolarità e tempestività i maestri, disattendendo in questo modo la legge del 26 marzo 1893 e il successivo Regolamento del 4 giugno dello stesso anno con i quali il governo aveva inteso assicurare il puntuale pagamento degli stipendi ai maestri. Ravà rilevava inoltre come non fosse sempre agevole per l’autorità scolastica provinciale accertare tali violazioni, compiute molte volte “coll’acquiescenza forzata o spontanea dell’insegnante” il quale, pur di non perdere il proprio impiego, accettava le condizioni dettate dal Comune .

Non sorprende dunque che, a ragione della precarietà che continuava a caratterizzare la condizione di molti insegnanti, sia la Relazione Torraca sia l’Inchiesta Ravà segnalassero la presenza di insegnanti che si dedicavano ad altre professioni per integrare il loro misero stipendio come già succedeva in passato. Francesco Torraca in proposito scriveva: “Abbiamo maestri commessi di compagnie di assicurazione, mercanti di semi da bachi, sensali, organisti, fattori di campagna, segretari comunali […] farmacisti” . Né, a distanza di quarant’anni dalla legge Casati, erano spariti del tutto gli insegnanti senza patente: questi, infatti, rappresentavano ancora il 4,5% dell’intera classe docente delle scuole pubbliche nell’anno scolastico 1897-1898. Certo se si confronta questo dato con quello già ricordato del 1863, allorché i maestri senza patente erano il 43,9% del personale docente, si deve affermare che molta strada era stata compiuta in ordine alla loro professionalizzazione. Va però segnalato che il 42,7 dei maestri in servizio negli istituti primari pubblici nel 1898, a due anni dalla legge Gianturco che aveva abolito la patente di grado inferiore, era dotato del titolo che li abilitava solo all’insegnamento nelle prime due classi della scuola primaria .

Concordi nel denunciare la precarietà che caratterizzava la professione magistrale e che sicuramente non contribuiva al consolidamento dell’immagine sociale del maestro né al buon andamento della scuola primaria, gli ispettori unanimi segnalavano, nelle relazioni inviate al Ministero per le Inchieste Torraca e Ravà, il forte senso di responsabilità dimostrato dagli insegnanti nello svolgimento del loro lavoro. La condotta morale, civile e politica del classe magistrale italiana era considerata degna di lode, in quanto devota “sempre alle patrie istituzioni, elemento tranquillo, conciliativo, morigerato” . Le lodi espresse dalle autorità scolastiche locali per il forte senso civile dei docenti primari lasciavano però trapelare il timore della classe dirigente dell’Italia di fine secolo che anche fra i maestri si diffondessero le idee socialiste e che essi si lasciassero coinvolgere nelle tensioni sociali che interessavano altre categorie di lavoratori . Certo Ravà poteva rassicurare il ministro che pochissimi insegnanti – solo rare eccezioni – avevano preso parte ai moti sociali che avevano interessato l’Italia nel 1898 . Tuttavia sia lui che Torraca rilevavano segni di malessere fra i docenti primari e denunciavano l’azione svolta dalle riviste didattiche colpevoli di sobillare gli animi dei maestri, di farsi interpreti delle loro rivendicazioni. Scriveva un ispettore della Lombardia: “In tutti gli insegnanti c’è naturalmente, il desiderio del meglio. Molti ragionevoli e pazienti si rassegnano: altri sono irrequieti. E chi crea a questi poveretti tale infelicità è il giornale scolastico, il quale se qualche volta ne rivendica conculcati diritti, talora ne sveglia e sollecita i desideri, ne agita le passioni, senza soddisfare né questo né quelli: così al disagio materiale aggiunge le delusioni morali, l’irrequietezza dello spirito” .

Affidabili sul piano politico e morale, i maestri di questo ultimo scorcio del secolo – secondo la Relazione Torraca – presentavano evidenti limiti culturali e una pratica didattica insufficiente. Solo il 37,5% dei maestri in servizio era giudicato valente, il restante 47,9 % era ritenuto mediocre, cioè di “cultura limitata e poca pratica nell’uso di buoni metodi”, e il rimanente 14,6% era valutato “meno che mediocre” . Essi apparivano fortemente refrattari ad applicare nella propria classe quelle innovazioni metodologiche che erano state introdotte dai programmi del 1888 e alle quali, se giovani, avrebbero dovuto essere preparati dalla scuola normale, riformata secondo gli orientamenti del pensiero positivista a partire dai programmi di De Sanctis del 1880, e, se più anziani, dalle Conferenze pedagogiche organizzate ogni anno in tutte le province del Regno. Le due inchieste di fine secolo documentavano che ancora persistevano fra gli insegnanti forti resistenze nei confronti del metodo intuitivo previsto dai Programmi per le elementari del 1888 e da quelli del 1894; resistenze di cui da subito si erano fatte interpreti le riviste didattiche . Gli stralci dei resoconti degli ispettori, riprodotti dalla relazione Torraca, denunciavano le difficoltà della classe magistrale italiana a aggiornare le pratica didattica . Dopo due anni Ravà confermava tale valutazione e rilevava che la modernizzazione didattica non era andata di pari passo con l’adeguamento degli edifici scolastici e con il miglioramento delle condizioni di lavoro degli insegnanti. Questi ultimi, pur conoscendo la nuova metodologia e pur giudicandola positivamente, stentavano a adottarla sia per loro inerzia sia, soprattutto, per le difficoltà oggettive che l’applicazione di questo metodo comportava in classi numerose e in locali non adeguatamente attrezzati – quali erano quelli della maggioranza delle scuole italiane – dove la loro prioritaria preoccupazione era il mantenimento della disciplina .

L’analisi della classe magistrale italiana negli anni della Sinistra storica non sarebbe completa se non si facesse riferimento ad un altro rilevante dato. E’ noto che in Italia, come già era avvenuto in altri paesi, il processo di scolarizzazione di massa ebbe quale conseguenza la femminilizzazione del corpo docente . Tuttavia, nel nostro paese, tale fenomeno assunse dimensioni sconosciute agli Stati europei e, soprattutto, alla Francia e alla Germania, dove, grazie al prestigio sociale, culturale e politico di cui godeva la figura dell’insegnante elementare, maggioritaria era la componente magistrale maschile e forti le resistenze all’accesso della donna a questa professione. Se durante l’anno scolastico 1862-1863 gli insegnanti erano 17604 e le insegnanti 13817, pari al 44% dell’intera classe magistrale italiana e nel 1878-1879 il numero delle maestre superava di circa 1000 unità quello dei maestri , agli inizi del 1900 la percentuale di donne insegnanti nella scuola primaria era del 67,8% .

Diverse le ragioni che spiegano tale fenomeno. Innanzitutto va tenuto presente il forte aumento registrato nella seconda metà dell’Ottocento dalla scolarizzazione femminile che, sul finire del secolo, raggiunse livelli analoghi a quella maschile . Questo folto gruppo di maestre era altresì la testimonianza della “cesura epocale” che si era verificata nel modo di concepire la donna, i suoi diritti, il suo ruolo nella società civile nel periodo preso in esame. La scuola aveva rappresentato per la donna “il luogo e il simbolo” dell’emancipazione . In tal senso, di particolare importanza era stata la funzione svolta dalla scuola normale che, in questi anni, esercitò il duplice ruolo di istituto preposto alla formazione delle insegnanti e di scuola secondaria femminile . In un contesto culturale, sociale e economico che non solo non offriva sbocchi professionali alle donne che avevano titoli di studio, ma che sembrava non porsi neppure il problema di aprire gli studi secondari e superiori alle ragazze , l’insegnamento nella scuola primaria costituiva dunque per la donna, naturalmente madre ed educatrice, “l’unica possibilità reale, concreta, di massa per ottenere un impiego, per dare uno scopo agli studi” e per conquistare una presenza qualificata nel mondo professionale . L’aumento della scolarità femminile e la nuova dignità conquistata dalla donna spiegano ma non giustificano il “sorpasso” delle maestre sui maestri che si registrò a metà degli anni Settanta e che si consolidò sempre più negli anni successivi. Tale dato si comprende se si tengono presenti le ragioni di ordine economico che erano all’origine della progressiva disaffezione degli uomini dalla carriera magistrale: il modesto stipendio riservato al maestro – come si è visto inferiore, anche in situazioni ottimali quali erano le realtà urbane, al salario destinato al livello più basso degli impiegati dell’amministrazione centrale – disincentivava gli uomini dal dedicarsi alla carriera magistrale e apriva sempre nuovi spazi alle donne . Esito di queste trasformazioni, profonde e generali, la tendenza alla femminilizzazione del personale docente delle primarie fu altresì favorita dalla preferenza accordata dai comuni alle donne in quanto la loro retribuzione, come si ricorderà, era minore di quella dei loro colleghi.

Il progressivo incremento del numero delle insegnanti e la diminuzione dei maestri erano segnalati con preoccupazione dall’Inchiesta Ravà. La relazione riferiva le lamentele di molti ispettori i quali denunciavano il “grave sconcio” delle scuole tenute da maestre coniugate con figli, costrette a restare chiuse allorché le insegnanti dovevano assentarsi per motivi familiari e i comuni si rifiutavano di chiamare delle supplenti . Tali denunce, che rilevavano un reale problema sociale ma che tradivano anche una mentalità decisamente misogina, di fatto erano il segno di una paura più profonda per un fenomeno in atto nella scuola italiana, ovvero la progressiva “fuga” degli uomini dalle elementari. Lo stesso Ravà affermava che questo dato impensieriva e si chiedeva a chi, in futuro, sarebbe stata affidata la scuola popolare. Egli notava che ben 4257 maestre tenevano scuole inferiori e superiori maschili. L’allarme lanciato può apparire esagerato visto che questo drappello di insegnanti rappresentava solo il 13,3% del totale delle donne docenti negli istituti primari pubblici. Per i responsabili della Pubblica Istruzione questa percentuale rappresentava comunque la spia di una tendenza che sembrava ormai inarrestabile e che poteva essere invertita, secondo lo stesso Ravà, solo se fossero stati aumentati gli stipendi dei maestri.

La sintetica presentazione dei dati relativi alla femminilizzazione del personale docente delle scuole elementari e l’illustrazione delle ragioni di tale processo non hanno sicuramente la pretesa di esaurire la trattazione di questo tema. L’analisi condotta ha inteso bensì fare emergere la complessità delle questioni in gioco allorché si affronta lo studio della “nascita della maestra elementare”, un nodo storiografico che, lungi dall’essere risolto, necessita di serie e approfondite indagini . Si tratterebbe in primo luogo, ad esempio, di raccogliere e esaminare attentamente la normativa varata dai governi postunitari (leggi, Regolamenti, Circolari) sulla scuola elementare e sugli insegnanti per verificare con attenzione l’evoluzione della professione magistrale sotto il profilo sia giuridico sia della preparazione culturale e professionale al fine di cogliere la genesi dei problemi che caratterizzarono il corpo docente degli istituti primari. Bisognerebbe poi analizzare l’andamento della composizione del personale docente delle elementari dall’Unità in poi (maschi/femmine, estrazione sociale ) anche in relazione allo sviluppo della scolarizzazione maschile e femminile; o, infine, ricostruire la mappa delle presenza delle maestre e dei maestri in rapporto ai vari tipi di scuola (elementari maschili e femminili, inferiori e superiori, scuole miste, scuole non classificate) e alle diverse aree geografiche e territoriali.

In ordine poi allo stato delle ricerche sulla maestra elementare mi sembra opportuno introdurre un’altra osservazione. L’immagine di insegnante tratteggiata dalle indagini condotte finora è quella di una donna sottomessa alle autorità locali e, in alcuni casi, sottoposta alle loro vessazioni; una donna non protagonista della propria professione e, se necessario, più propensa a delegare ad altri la tutela dei propri interessi che a battersi insieme ai colleghi per vederli riconosciuti. E’, questa, un’immagine che emerge da studi che hanno privilegiato una particolare fonte, quella letteraria, e che ha sicuramente un fondamento nella realtà concreta . Ma questa immagine non esaurisce tutta la realtà magistrale femminile. I recenti studi condotti sui periodici scolastici hanno messo in luce il rilevante contributo dato da insegnanti, da direttrici didattiche e da docenti delle scuole normali, quali collaboratrici di riviste didattiche, al “graduale configurarsi ‘nazionale’ della figura magistrale” . Ad analoghi risultati sono giunte le ricerche sulla genesi dell’associazionismo: esse hanno rivelato l’esistenza di docenti laiche e religiose, molte delle quali sconosciute ai più, che tra i due secoli animarono il movimento magistrale a livello locale e poi a livello nazionale, quali, ad esempio, Emilia Mariani, Linda Malnati, Adelaide Coari, Maria Magnocavallo, Maria Elisabetta Mazza . Queste ricerche invitano lo storico a rivedere alcune categorie interpretative del mondo magistrale femminile e ad allargare la propria indagine a altre fonti – archivi scolastici, stampa pedagogica, archivi ecclesiastici – al fine di ricostruire il vero ruolo svolto dalla donna nella scuola elementare italiana tra Otto e Novecento.

Sul finire dell’Ottocento il maestro italiano appariva dunque un protagonista consapevole della vita scolastica. Più preparato e motivato della generazione che lo aveva preceduto, egli era portato a concepire la propria professione come una missione; una missione che lo Stato però non riusciva ancora a tutelare dignitosamente nonostante gli indubbi progressi fatti in tal senso dalla normativa varata in quegli anni che, insieme all’accesso al voto, avevano contribuito ad elevare lo status sociale del maestro. Tuttavia, proprio perché intesa come missione e dunque gratuità, tale professione, sia per chi la esercitava sia per l’opinione pubblica, sembrava dover sfuggire, per definizione, alle strette e venali maglie della tutela giuridica. E’ questa una precisazione che mi sembra necessario tenere presente se si vuole capire l’evoluzione della classe magistrale nel primo Novecento.

Il primo ventennio del Novecento: dalla nascita dell’Unione Magistrale Nazionale allo sciopero del 1919

La nascita dell’Unione Magistrale Nazionale (UMN) nel 1901 rappresentava l’esito del processo di affermazione di un’identità nazionale del maestro italiano iniziato nell’ultimo ventennio del secolo precedente e che aveva progressivamente affrancato il personale docente delle elementari dai ristetti confini politici e culturali della realtà educativa locale. Si apriva ora un fase caratterizzata dalla graduale emancipazione dell’insegnante elementare sia dalla paternalistica tutela dello Stato sia dal modello ideale di maestro apostolo celebrato dalla cultura del tempo e radicato nella coscienza degli insegnanti. Non si trattò, si badi, di un processo uniforme, lineare, ma di un’evoluzione che coinvolse con tempi, con modalità e con livelli di consapevolezza diversi gli insegnanti primari italiani.

Promossa, com’è noto, da alcune delle maggiori riviste scolastiche italiane, ovvero “Il risveglio educativo”, “Il corriere delle maestre” e “I diritti della scuola”, e fondata grazie al rilevante contributo del deputato radicale e docente di storia della filosofia all’Università di Pavia, Luigi Credaro , l’UMN nasceva ufficialmente nell’aprile del 1901 . Animato dalla volontà di superare i limiti dell’associazionismo ottocentesco, la cui frammentazione a livello locale e i preponderanti interessi corporativi erano all’origine della sua scarsa incisività, nella fase aurorale il nuovo sodalizio optò per una strategia che, per un verso, prevedeva una cortese collaborazione con i pubblici poteri e, per un altro, intendeva raccogliere attorno alle battaglie magistrali il consenso della Camera e del Senato. Secondo Credaro occorreva promuovere in seno al Parlamento una forza politica trasversale, un “partito della scuola”, che difendesse gli interessi degli insegnanti elementari nel quadro di una più ampia riforma dell’istruzione popolare. Di qui anche la scelta statutaria di non dare alla nuova associazione professionale una precisa connotazione partitica. Il sodalizio raccolse da subito ampi consensi: nell’aprile del 1901, in occasione del primo congresso, esso contava 30180 soci, poco più della metà del personale docente delle scuole pubbliche . Il successo dell’UMN non deve però essere letto come il segno dell’attiva e consapevole partecipazione dei maestri italiani alle battaglie della nuova organizzazione di categoria. Tale partecipazione per molto tempo ancora restò circoscritta ad un’élite, in genere rappresentata da insegnanti maschi, per lo più vicini alle posizioni politiche della Sinistra. Il fatto stesso che fosse nominato presidente dell’associazione Luigi Credaro, un deputato e non un maestro, documenta la tendenza della classe magistrale dell’epoca a concepirsi come forza subalterna, passiva, propensa a delegare a altri la difesa dei propri interessi e a concepire la propria azione organizzata ancora sotto la paternalistica tutela di un potere forte.

La strategia perseguita dal sodalizio diede subito buoni frutti. Il 19 febbraio 1903 il Ministro Nasi emanava due leggi di notevole importanza per i maestri: la numero 45 che rivedeva lo stato giuridico degli insegnanti primari e la numero 53 che riformava il Monte Pensioni . Il primo provvedimento sanava i limiti e i difetti del Regio Decreto 19 aprile 1885, denunciati, come si ricorderà, anche dalle Inchieste Torraca e Ravà, e accoglieva le richieste da tempo avanzate dai docenti elementari garantendo in modo più chiaro la professione magistrale nei confronti dell’amministrazione municipale. Merita ricordare che tale legge prevedeva che il reclutamento dei maestri poteva avvenire solo tramite concorso, per soli titoli o per titoli ed esami , e dettava regole precise circa la facoltà di scelta del comune per la nomina del maestro fra i graduati. La nomina a vita del maestro avveniva solo dopo un triennio di prova e non più dopo un sessennio come in precedenza. Era altresì previsto che le maestre, impiegate nella classi maschili o miste, ottenessero uno stipendio pari a quello dei maestri, anche se questo superava il minimo legale. La legge in questione stabiliva inoltre che la Direzione didattica, fino a quel momento facoltativa, divenisse obbligatoria nei comuni con popolazione non inferiore ai 10000 abitanti o che avessero almeno 20 classi. A proposito della normativa varata nei primi anni dell’età giolittiana per il miglioramento della professione magistrale merita di essere ricordata anche l’istituzione del corso di perfezionamento per il licenziati delle scuole normali, al fine di abilitarli alla carriera didattica e ispettiva. Previsto dalla legge del 24 dicembre 1904, riguardante gli ispettori scolastici, il corso di durata biennale, poi noto soprattutto come scuola pedagogica, fu istituto dal R.D. n. 29 del 19 gennaio 1905 nelle Università del regno, presso la Facoltà di lettere e di filosofia, e regolamentato dal R.D. 1 febbraio 1906 n. 30 . Il successo della scuola pedagogica, testimoniato dal crescente numero di iscrizioni in tutti gli atenei italiani, documenta la volontà della classe magistrale del primo Novecento di perfezionare la propria cultura e di aggiornare la propria professione anche in vista della possibilità di avanzamento di carriera.

La normativa a favore dei maestri, voluta dai primi governi dell’età giolittiana, si iscriveva in un contesto particolarmente attento alla questione dell’istruzione popolare, ritenuta forza di democratizzazione e di evoluzione dell’intera società non solo dal Partito socialista, ma anche da non pochi esponenti della classe dirigente politica, economica e intellettuale dell’epoca . Espressione di tale interesse fu la legge dell’8 luglio 1904, n. 407, varata dal ministro della Pubblica Istruzione Vittorio Emanuele Orlando. Com’è noto, la normativa estendeva l’obbligo scolastico a 12 anni di età, affrontava il problema dell’analfabetismo dei giovani e degli adulti, incrementando le scuole serali e festive, e istituiva il corso popolare alla fine delle elementari, composto dalla quinta classe e dalla sesta di nuova istituzione. Appoggiata anche dall’UMN per i provvedimenti presi a favore dell’educazione dei ceti più disagiati, la legge Orlando deluse le aspettative dei maestri i quali – soprattutto quelli urbani i più attivi in seno al sodalizio – videro disattesa la rivendicazione di aumenti salariali, di fatto introdotti da Orlando ma in misura limitata . Gli esiti sortiti dalla Legge Orlando fecero emergere i limiti della strategia perseguita fino a quel punto dall’UMN e la debolezza del “partito della scuola”. Le prime iniziative avviate misero altresì in luce che l’associazione magistrale era ancora lontana “dal modello quasi mitico di schiera compatta e conscia della sua forza” e che essa invece doveva fare i conti con il forte assenteismo dei soci, il disinteresse delle insegnanti (che rappresentavano la maggioranza del personale docente delle elementari), la distanza e l’estraneità dei maestri rurali.

Il malcontento provocato dalla legge Orlando determinò l’abbandono della prudente strategia credariana. In occasione del Congresso di Perugia del settembre 1904 l’Unione Magistrale Nazionale decise di operare una svolta sia nei metodi sia nel programma. In quella sede fu votato infatti un ordine del giorno, presentato dal relatore Gabriele De Robbio, che, nel constatare come l’istruzione primaria in Italia fosse conforme agli interessi della borghesia e non rispondesse ai reali bisogni del popolo, proponeva un radicale rinnovamento della scuola elementare: rinnovamento che non poteva prescindere da un mutamento delle basi economiche, sociali e politiche del paese. L’Unione Magistrale Nazionale legava quindi il progetto di riforma scolastica ad una più radicale trasformazione della realtà politica italiana e abbandonava quell’atteggiamento di neutralità ideologica che l’aveva caratterizzata fino a quel momento. L’associazione si schierava infatti apertamente con le forze politiche di sinistra e chiedeva di “riordinare e rendere laica la scuola popolare; dal giardino d’infanzia alla scuola complementare e professionale” . La scelta compiuta dai maestri a Perugia venne confermata l’anno successivo nel corso del Congresso di Cagliari, dove l’auspicata laicizzazione della scuola elementare assumeva connotati fortemente anticlericali .

Il deciso cambiamento di strategia operato dall’UMN, che va inscritto nel clima politico e culturale del tempo fortemente segnato da spinte anticlericali e dall’eco delle vicende politiche francesi, fu all’origine della scissione dei maestri cattolici dall’organizzazione credariana. Dopo aver dato vita, a livello locale, a sodalizi che, che senza distaccarsi dall’UMN, intendevano riportare l’equilibrio fra le diverse correnti politiche presenti al suo interno e difendere i principi educativi cristiani nella scuola primaria, gli insegnanti cattolici decisero di promuovere una loro organizzazione nazionale: l’8 luglio 1906 a Milano nasceva, infatti, l’associazione magistrale “Nicolò Tommaseo”. Un recente studio su questo sodalizio ha documentato non solo l’impegno da essa profuso nella battaglia per alcune tradizionali rivendicazioni cattoliche – libertà d’insegnamento, insegnamento religioso – ma anche il rilevante apporto dato alla riforma della scuola popolare e alle lotte di categoria degli insegnanti, quali il pareggiamento degli stipendi fra maestre e maestri, la tutela delle scuole rurali, la modifica del Monte Pensioni. Va altresì sottolineato che la “Tommaseo” svolse un’importante funzione in ordine sia all’ingresso dei maestri cattolici nelle istituzioni statali sia, più in generale, alla loro partecipazione alla vita della nazione, contribuendo così alla promozione di un’identità nazionale fra gli insegnanti primari di ispirazione cattolica .

Le battaglie delle organizzazioni magistrali, l’impegno dei governi, in questo primo scorcio dell’età giolittiana, volto a tutelare la professione dei docenti delle elementari non debbono stornare l’attenzione dalle loro reali condizioni di vita e di lavoro. L’imponente inchiesta condotta nell’anno scolastico 1907-1908 veniva a far luce anche sulla realtà magistrale. La relazione stesa, sulla base dei dati raccolti, dal Direttore generale dell’Istruzione primaria, Camillo Corradini, non si limitava a rendere conto dello stato della scuola elementare – numero degli istituti, livelli di scolarizzazione, tasso di alfabetizzazione, numero dei docenti e qualità del loro insegnamento –, ma prendeva in esame anche l’impegno finanziario dei comuni e dello Stato per l’istruzione primaria e popolare e verificava la prima applicazione della legge Orlando e della legge del 15 luglio 1906 sui provvedimenti straordinari per il Mezzogiorno. I risultati dell’indagine, che ebbero un forte impatto sulla pubblica opinione, facevano luce sui limiti della legislazione scolastica vigente che delegava alle amministrazioni municipali la promozione dell’istruzione primaria e popolare, rinforzando le posizioni di chi sosteneva l’avocazione della scuola elementare allo Stato . La relazione sui docenti, pur fotografando una situazione sicuramente migliorata rispetto a quella emersa dalle inchieste precedenti relativamente sia alla preparazione culturale e professionale dei maestri sia al loro status sociale, rilevava mali di vecchia data che ancora caratterizzavano la professione magistrale . Gli insegnanti in servizio in quell’anno scolastico erano 60323 di cui 42107 maestre, pari al 69,8% del totale del personale docente. Il numero dei docenti, sottolineava Corradini, era proporzionato al bisogno anche se la loro distribuzione non era omogenea su tutto il territorio nazionale, in quanto molte scuole di piccoli comuni rurali erano rimaste chiuse per mancanza di insegnanti. Tale deficit – notava allarmato il dirigente della Minerva – riguardava soprattutto i maestri. Dal 1901 al 1908 questi ultimi, infatti, erano diminuiti di circa 600 unità. Nello stesso periodo il numero delle maestre aveva registrato un incremento di circa 7000 unità. A giudizio di Corradini la cosiddetta “crisi magistrale”, ovvero la carenza di insegnanti, soprattutto maschi, poteva essere risolta sia assicurando “una meno disagiata condizione di vita” a coloro che erano impiegati in località periferiche sia rendendo più agevole la progressione di carriera .

Il Direttore generale dell’Istruzione primaria non denunciava solo la carenza di insegnati, ma lamentava la scadente preparazione dei docenti già in servizio. Egli si diceva insoddisfatto per il giudizio formulato dagli ispettori circa la cultura e la capacità didattica dei maestri, in quanto solo la metà dei docenti in servizio otteneva una valutazione positiva. Tra gli insegnanti primari ritenuti insufficienti sotto il profilo della preparazione culturale e della pratica didattica, figuravano ancora docenti senza patente, arruolati soprattutto nelle scuole facoltative o non classificate delle zone più remote del nostro paese. Non minore preoccupazione Corradini esprimeva per la permanenza a scuola di maestri che pure si trovavano nella condizione di potere andare in pensione. L’esiguità del trattamento di quiescenza assicurato agli insegnanti, che solo pochissimi comuni aumentavano con un assegno integrativo, impediva loro di ritirarsi dal lavoro, ostacolando così il ricambio del personale docente delle elementari e l’immissione in ruolo di forze nuove. Non erano solo i maestri senza patente o più anziani a destare allarme, ma anche i più giovani che manifestavano atteggiamenti di malessere e, di conseguenza, di disaffezione al lavoro poiché, in molti casi, non vedevano riconosciuto l’impegno profuso per l’aggiornamento professionale. I titoli di studio acquisiti dopo la scuola normale non sempre assicuravano loro un giusto avanzamento di carriera. Pur mettendo in guardia i maestri dalla corsa ai titoli di studio per mere ragioni di carriera, Corradini denunciava l’alto livello di aleatorietà che continuava a caratterizzare le procedure di selezione e di nomina del personale docente a causa della discrezionalità di cui godeva l’amministrazione municipale nonostante i correttivi introdotti dalla Legge n. 45 del 19 febbraio 1903. Di qui l’auspicio di una riforma dello stato giuridico degli insegnanti primari nel senso di un’ulteriore, drastica riduzione del potere decisionale dei comuni nel reclutamento dei docenti. Egli infatti affermava: “a fortificare il carattere del maestro e ad aumentare il prestigio occorrerebbe assicurargli più conveniente e decoroso stipendio ed insieme un ordinamento amministrativo, che meglio lo difenda da soprusi e parzialità (…) assai stretta è ancora la dipendenza degl’insegnanti dai comuni, troppi ancora sono i casi, nei quali l’amministrazione municipale può ad arbitrio esercitare il favoritismo o la persecuzioncella odiosa. Ed è questa ancora, pur troppo, la sorgente prima d’innumerevoli pettegolezzi, dei quali assai spesso giunge fino al Ministero l’eco non affievolita, e che contribuiscono, fatalmente, ad affogare lo spirito di certi maestri nella morta gora dei cavilli, dei puntigli e dei risentimenti di parte, o a comunicar loro in altri casi una specie di morbosa irrequietezza, che li spinge a peregrinare d’anno in anno per diversi comuni, spesso anche di diverse provincie” . Sia pure in modo non esplicito, Corradini sembrava dunque suggerire l’idea che solo l’avocazione avrebbe potuto risolvere i problemi che ancora connotavano la professione magistrale .

Il 4 giugno 1911 veniva varata la legge Daneo-Credaro che, com’è noto, decretava il passaggio delle scuole elementari dai comuni allo Stato, ad eccezione degli istituti primari dei comuni capoluogo di provincia e di circondario . Voluta fortemente dall’UMN, questa legge, che pure prevedeva importanti benefici per i maestri, fu accolta dai soci dell’UMN stessa con atteggiamento critico . L’esiguità degli aumenti salariali concessi, che avevano favorito soprattutto gli insegnanti rurali e disatteso le aspettative di quelli urbani, i più attivi in seno all’associazione, la mancata statalizzazione di tutte le scuole elementari delusero i docenti organizzati nell’associazione credariana . Il malumore, destinato a aumentare per il ritardo con cui furono varati i regolamenti attuativi della legge, alimentò le contrapposizioni già presenti all’interno dell’UMN. In particolare la legge sull’avocazione e i regolamenti successivi rinfocolarono le polemiche che da tempo segnavano i rapporti fra maestri e maestre nell’organizzazione magistrale.

All’origine di tale polemica vi erano le disposizioni in materia di stato giuridico dei maestri introdotte dalla legge Nasi del 19 febbraio 1903, n. 45, che, tra l’altro, prevedeva la parità di trattamento economico con i maestri per le insegnanti delle classi elementari maschili . Nella primavera del 1903, a Milano, culla del movimento emancipazionista laico e cattolico e dove, agli inizi del secolo, la percentuale delle donne insegnanti nelle primarie civiche raggiungeva circa l’86% del personale docente , alcune delle più attive rappresentanti della Sezione Insegnanti della Camera del Lavoro e dell’Unione Magistrale davano vita al Comitato per il Risveglio dell’attività femminile nelle organizzazioni magistrali . In nome della classica rivendicazione femminista, secondo la quale a pari lavoro doveva corrispondere pari retribuzione, il Comitato non solo rivendicava l’applicazione della nuova normativa sul trattamento giuridico previsto dalla legge Nasi, attraverso la modificazione degli articoli del Regolamento scolastico municipale, ma chiedeva l’unificazione delle carriere e degli stipendi fra uomini e donne. Si noti che la battaglia per il pareggio non restò circoscritta all’area laica e socialista, ma vide attiva protagonista anche la componente cattolica del movimento magistrale .

La mancata applicazione, da parte delle amministrazioni municipali, della disposizione della legge Nasi in merito al pareggio degli stipendi e, nel contempo, la normativa prevista dalla legge Orlando, in virtù della quale le maestre potevano insegnare nelle scuole elementari superiori maschili, riproposero, negli anni successivi, il problema della parità retributiva in tutta la sua complessità. Prima a Milano nel 1907 e poi via via in altre città italiane, l’UMN fu interessata da profonde divisioni che portarono alla costituzione, al suo interno, di sodalizi femminili e di organizzazioni maschili e che, nel capoluogo lombardo, sfociarono nella trasformazione della locale sezione dell’UMN in una Federazione . Sanata alla vigilia dell’elaborazione della legge sull’avocazione, la frattura fra maestri e maestre in seno all’UMN si acuì all’indomani del varo della legge Daneo-Credaro e, in particolare, dopo la promulgazione del regolamento giuridico 6 aprile 1913, n. 552 che, all’articolo 71, affidava le classi terze maschili esclusivamente ai maestri e solo in via provvisoria alle maestre. Con tale disposizione, peraltro caldeggiata dall’Unione , Luigi Credaro intendeva contribuire alla soluzione della cosiddetta “crisi magistrale maschile”, ovvero alla mancanza di uomini nella scuola elementare, espressione del progressivo venir meno di vocazioni magistrali maschili.

Merita rilevare che il conflitto fra maestri e maestre in seno all’UMN fu favorito dall’atteggiamento ambiguo tenuto dalla dirigenza dell’organizzazione. Mentre a livello teorico veniva sostenuto il principio del pareggiamento, i vertici dell’associazione, in mano ai maestri, assecondarono sul piano operativo la minoritaria componente maschile difendendone gli interessi contro le richieste femminili. Diverso fu il comportamento tenuto in ordine a tale questione dalla “Tommaseo”. Fin dalla fondazione, essa si batté per la parità retributiva fra i due sessi, facendosi interprete delle rivendicazioni femminili sia nei confronti delle amministrazioni municipali sia, in seguito alla legge Daneo-Credaro, nei confronti del governo . Tale linea d’azione non traeva origine dall’opportunistico interessamento ad un problema di categoria disatteso dall’UMN al fine di raccogliere il consenso e le adesioni delle maestre, da sempre fredde nei confronti della vita associativa. Alla base di tale scelta vi era la spiccata sensibilità per la questione dell’emancipazione femminile di alcune insegnanti – si pensi a Adelaide Coari o a Maria Magnocavallo – che avevano contribuito alla promozione della “Tommaseo” e che, sin dalla fine dell’Ottocento, si erano impegnate nell’ambito dell’associazionismo femminile cattolico .

Il malcontento per gli esiti della legge sull’avocazione, che sfociò nella rottura dell’UMN con Luigi Credaro, l’emergere di un’attiva, sia pure minoritaria, corrente sindacalista in seno all’UMN, che perseguiva l’abbandono della linea di cooperazione con i pubblici poteri e l’adozione dei metodi della lotta di classe per tutelare gli interessi di categoria, portarono ad un’ulteriore e più decisa svolta dell’associazione verso le posizioni politiche del socialismo. L’elezione del socialista Giuseppe Soglia alla carica di Presidente dell’UMN era il segno del definitivo superamento del collaborazionismo ministeriale e della volontà dell’organizzazione di concentrarsi nella difesa dei diritti della categoria . L’identificazione dell’Unione con un partito al quale si sentiva estranea la maggioranza dei maestri, attestata su posizioni politiche moderate, l’indebolimento del sodalizio minato da lacerazioni intestine spiegano l’esito delle elezioni magistrali svoltesi nel 1913 e nel 1914 in occasione delle quali si registrò una netta flessione dell’UMN e un balzo in avanti della “Tommaseo” . La classe magistrale arrivava al conflitto mondiale segnata dunque da profonde divisioni politiche: al suo attivo poteva vantare la riforma dell’amministrazione e la parziale revisione dello stato giuridico, ma doveva riconoscere che questi provvedimenti, lungi dal compattare la categoria, avevano esasperato le contraddizioni. Altro motivo di scontento era la mancata riforma della scuola normale. Nel corso dell’età giolittiana su tale questione si era svolto un vivace dibattito che, di fatto, non era sfociato in concreti provvedimenti di revisione dell’istituto preposto alla formazione dei maestri. Il disegno di legge approntato da Credaro e presentato al Senato nel febbraio del 1914 sul riordino della scuola normale non arrivò neppure alla discussione in Parlamento poiché, in seguito alla caduta del Ministero Giolitti, Credaro dovette lasciare la Minerva .

L’ingresso dell’Italia in guerra vide le associazioni nazionali impegnate nel sostegno alla Patria: accantonati i motivi di scontro e le contrapposizioni politiche, gli insegnanti dell’UMN e della “Tommaseo” si prodigarono sia nella promozione di iniziative di soccorso e di sostegno a favore dei maestri e delle loro famiglie sia nell’attività di propaganda . Il forte legame sostenuto dagli intellettuali e dai politici dell’epoca fra educazione, scuola e rinascita nazionale fece sì che la figura del maestro venisse investita ancora una volta della funzione di formazione delle coscienze: a lui era delegata l’importante opera di educazione nazionale, unanimemente ritenuta la necessaria premessa alla ricostruzione del paese .

Le forti tensioni sociali e politiche dell’immediato dopoguerra, la crisi dello Stato liberale, il malcontento dei ceti medi, e quindi anche della classe magistrale, duramente provati dall’inflazione ebbero inevitabili conseguenze anche sul movimento magistrale che registrò un’ulteriore radicalizzazione dei contrasti politici. Nell’aprile del 1919 a Milano, i maestri socialisti staccatisi dall’UMN, fondarono il Sindacato Magistrale Italiano che intendeva battersi per i diritti dei maestri, adottando il metodo della lotta di classe, e sostenere il proletariato nelle sue rivendicazioni . Di lì a pochi mesi, nel giugno del 1919, per la prima volta i maestri italiani scioperavano contro il governo perché, nell’ambito di una revisione dei salari degli impiegati pubblici svalutati dalla crescente inflazione, non aveva considerato la categoria degli insegnanti elementari. Indetto dall’UMN per l’11 giugno del 1919, allo sciopero nazionale aderì anche la “Tommaseo” nei giorni successivi . L’astensione dal lavoro dei docenti elementari nel primo dopoguerra rappresenta un momento di grande rilevanza nella storia della classe magistrale del nostro paese. Fino ad allora lo sciopero era stato considerato dagli insegnanti delle scuole primarie un’arma inconciliabile con la loro professione che si connotava come una missione, una sorta di sacerdozio laico. Il fatto che i maestri scendessero in sciopero, sia pure tra molte esitazioni, difficoltà e dissensi, stava a significare che essi compivano un altro, significativo passo nell’emancipazione dalla paternalistica tutela dello Stato, considerato ormai come la controparte, e che si affrancavano dal modello di maestro apostolo che, per decenni, dall’Unità in poi, aveva alimentato la loro formazione professionale.

La protesta del 1919 si pone dunque come un punto di rottura e di svolta nell’evoluzione della figura del maestro italiano. Mi preme però rilevare che tale protesta, che sicuramente rifletteva la forte conflittualità sociale del primo dopoguerra, era l’esito di un processo iniziato negli anni precedenti come si è cercato di mettere in luce in queste pagine. L’idea che la professione magistrale, sia pure diversa da tutte le altre, non potesse essere appiattita sull’immagine di missione, era già maturata negli insegnanti negli anni precedenti alla guerra ed era il frutto della progressiva presa di coscienza da parte dei maestri dei diritti, e non solo dei doveri, connessi alla loro professione. Sintomatiche le riflessioni formulate in proposito in un articolo scritto nel 1914 da Maria Magnocavallo, una dirigente lombarda della “Tommaseo”, peraltro da sempre attestata su posizioni politiche moderate e cresciuta nel culto del carattere missionario della funzione docente. L’articolo riguardava il ricordato regolamento giuridico del 6 aprile 1913, n. 552, che affidava le classi terze maschili esclusivamente ai maestri per contribuire alla soluzione della “crisi magistrale”, e si inscriveva in un contesto di aspre contrapposizioni in seno al movimento magistrale e di scontro con il governo. Ella scriveva: “Le donne vogliono che le scuole restino divise per sesso; vogliono che il maestro entri nella scuola maschile, ch’egli si mantenga ai comuni rurali, ma vogliono che il maestro venga alla scuola, non perché il posto di facile conquista lo attira, ma perché ve lo chiama il bisogno di conoscere la verità e di comunicarla ad altri, ma perché egli (…) si sente apostolo della luce e della verità. (…) Certo – concludeva la Magnocavallo – anche l’apostolo ha bisogno di pane e … di companatico, e la carriera magistrale è, tra le diverse carriere, la meno retribuita e qui forse sta tutta la vera ragione di una crisi maschile. Faccia lo Stato una posizione economica degna del maestro e i maestri verranno alla scuola. Conceda il pareggio alle donne (…) e le donne non intralceranno la via all’uomo con la loro concorrenza” .

Di lì a qualche anno, la riforma Gentile, con i nuovi programmi per le elementari e la creazione dell’Istituto magistrale, il fascismo, con i provvedimenti liberticidi e la politicizzazione della scuola e dell’educazione, avrebbero radicalmente modificato l’orizzonte culturale e politico entro il quale gli insegnanti primari erano chiamati a svolgere il loro lavoro. Anche questa costituisce una fase della storia della classe magistrale italiana che attende di essere studiata, superando l’approccio politico-istituzionale e cercando di ricostruire, compatibilmente con la documentazione archivistica disponibile, la vita all’interno della scuola elementare.

Carla Ghizzoni

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