Categoria : cultura

S’accabadora in Sardegna ovvero l’eutanasia o “buona morte” di Massimo Pittau

La pubblicazione del romanzo di Michela Murgia, Accabadora, vincitrice del Campiello 2010, ha spinto molti a trattare l’argomento. Dopo aver letto un breve contributo di Claudia Zedda su internet nel suo sito Karalis Weblob, ho chiesto all’amico Pittau un suo intervento ed egli gentilmente mi ha inviato questo articolo pregresso che pubblichiamo in attesa di “un  nuovo mio articolo sulle accabbadoras, nel quale citerò anche il tuo lontano ricordo, che ha tutta l’apparenza di essere vero. Per adesso ti mando un pezzo che riassume due miei precedenti scritti sull’argomento.” Il mio confuso ricordo è quello d’aver udito che per aiutare a morire qualcuno che (morto già cerebralmente) continuava a respirare senza porre fine all’interminabile agonia si procedeva a gettare nel fuoco unu giuale (un giogo da buoi) che ravvivando la fiamma toglieva ossigeno all’ambiente e favoriva la fine dell’agonia del moribondo. (A. T.)

Mi dispiace di dover dare torto all’amico Antoni Arca, il quale di recente ha scritto in questo quotidiano di non credere che sia mai esistita in Sardegna l’usanza dell’accabbadura, ossia della “buona morte”, praticata dalle accabbadoras (ma anche dagli accabbadores) (2 cc e 2 bb !) su individui in lunga e dolorosa agonia. Evidentemente egli non ha letto l’articolo di Maria Giuseppa Cabiddu, pubblicato nei «Quaderni Bolotanesi» del 1989, num. 15, pgg. 343-368. Si tratta di uno studio molto accurato, circostanziato di fatti, di testimonianze e di bibliografia, il quale non lascia spazio a ragionevoli dubbi intorno al fenomeno studiato ed esposto dalla ricercatrice. Costei presenta anche una lunga testimonianza fàttale da un suo concittadino di Orune, nato nel 1910, testimonianza che praticamente riportava indietro i fatti narrati soltanto di qualche decennio.

D’altronde nel mio libro Lingua e civiltà di Sardegna (II, Cagliari 2004, ediz. della Torre, pg. 20) ho scritto testualmente: «dal mensile di Cagliari “Il Messaggero Sardo”, del febbraio 2004, sono venuto a conoscenza di un fatto quasi incredibile: un anziano emigrato ha scritto di avere il ricordo chiaro di due casi di eutanasia, effettuata da accabbadoras a Cuglieri, dopo la I guerra mondiale, nei primi anni Venti…. In paese se ne parlava in modo molto sommesso e riservato…».

Ancora più recente è la testimonianza riportata da Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano, nel loro libretto Eutanasia ante litteram in Sardegna (Cagliari 2003, pgg. 86-87), i quali dopo aver seguito passo passo lo studio della Cabiddu, riferiscono due episodi di accabbadura, uno avvenuto a Luras nel 1929 e l’altro avvenuto ad Orgosolo addirittura nel 1952….

Anche Franco Fresi, in alcuni suoi scritti ed interventi, ha riportato la testimonianza di casi di accabbadura avvenuti in epoca recente in Gallura e provocati anche col colpo di un martello di legno sul cervelletto oppure su una delle tempie del malcapitato, martello di cui tuttora esiste un esemplare nel «Museo Etnografico» di Luras.

Anche io, nell’altra mia recente opera Storia dei Sardi Nuragici (Selargius 2007, Domus de Janas edit., pg. 276) ho pubblicato la fotografia di questo martello ed insieme, come pendant tipico degli Etruschi, la raffigurazione di un demone infernale che tiene sollevato un martello come strumento di morte.

Infine segnalo di aver avuto ieri la notizia di un recentissimo libro di Dolores Turchi intitolato Ho visto agire s’accabbadora – la prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato de s’accabbadora (con dvd allegato) (edizione IRIS, Oliena, NU).

Però voglio concludere con una notazione propriamente linguistica: se in tutta la Sardegna centrale ed anche nella Gallura fino a mezzo secolo fa erano conosciuti i vocaboli accabbadore, accabbadora e accabbadura, significa che essi facevano riferimento esatto, non a leggende inventate, ma a fatti reali e concreti.

Massimo Pittau (articolo de «La Nuova Sardegna»)

Ancora da citare è l’usanza degli Etruschi di infiggere – ovviamente con un martello – un chiodo nella parete del tempio della dea Northia per indicare il passare degli anni, evidentemente ad iniziare dalla data del loro arrivo dalla Lidia in Italia; ebbene anche in Sardegna restano ancora sia riscontri archeologici sia riferimenti linguistici di quella usanza. Da una parte infatti è da ricordare che «chiodi votivi» sono stati trovati sia nel santuario nuragico di Santa Vittoria di Serri sia nelle rovine di Nora, dall’altra esiste tuttora nella Sardegna interna la locuzione pònnere unu cravu in su muru = «mettere un chiodo nel muro» per significare sia la chiusura definitiva di una questione, sia un avvenimento eccezionale\6\. Il che molto probabilmente implica che anche i Sardi conservavano la memoria storica della data del loro arrivo nell’isola (§ 62). Infine anche la macabra operazione della «eutanasia», cioè della “fine della vita”, che nella Sardegna interna è stata praticata su individui gravemente ammalati e sofferenti probabilmente fino alla metà del Novecento ed era affidata a sas accabbadoras = «le finitrici od accoppatrici» (§ 46), veniva effettuata in Gallura anche con un martello di legno (matzolu «mazzuolo») picchiato su una tempia del malcapitato\7\. Ed è perfino sorprendente che demoni infernali raffigurati in tombe o sarcofagi etruschi risultino armati di un martello, ad es. quello scolpito nel sarcofago di Laris Pulena di Tarquinia (figg. 48, 49). (estratto da M. Pittau, Storia dei Sardi Nuragici, Selagius 2007; Libreria Koinè, Sassari).

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